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IO, MEDICO Tromboflebite
8/1/2010-
Michelangelo Merisi (Caravaggio): Incredulità di S.Tommaso
Dipinto ad olio su tela di 107 × 146 cm realizzato tra il 1600 ed il 1601. È conservato alla Bildergalerie nel parco di Sanssouci a Potsdam.
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Rubrica a cura del Dr. Pardini G.
TROMBOFLEBITE
La tromboflebite è una malattia cui spesso è riservata un’attenzione marginale pur essendo responsabile di una patologia gravissima, talvolta fatale, che prende il nome di “embolia polmonare”.
Dentro una vena, di solito dell’arto inferiore, il sangue si addensa e si forma un “trombo”, un coagulo, una specie di ammasso di sangue solido, che chiude completamente il vaso. Compaiono anche i segni dell’infiammazione come dolore, arrossamento, edema (gonfiore), a volte anche un po’ di temperatura.
La gamba tende a gonfiare perché il sangue trova la vena chiusa ed è costretto a trovare un’altra strada per risalire fino al cuore (ricordarsi che le vene, i vasi più superficiali che riusciamo a vedere subito sotto la pelle, portano il sangue dalla periferia verso il cuore).
Nel caso sia interessata una vena superficiale si riesce anche a palpare un cordone duro, dolente, spesso allungato lungo il decorso del vaso, che è l’espressione del coagulo sottostante.
Il trombo che si forma in queste vene superficiali comunque ha di solito la tendenza a rimanere attaccato alle pareti e per questo motivo è raramente causa di embolia polmonare. La terapia che viene proposta tende proprio ad accentuare questa caratteristica di immobilità mediante l’utilizzo di calze elastiche contenitive che hanno lo scopo principale di far aderire il coagulo alla parete e favorire l’opera di fissazione.
La fissazione del trombo alla parete è elemento fondamentale per l’evoluzione della malattia. Se il trombo, infatti, rimane posizionato nella vena, col tempo viene riorganizzato e il vaso sanguigno, a distanza di tempo, si può anche ricanalizzare cioè può riprendere la sua normale funzione di trasporto del sangue venoso verso il cuore.
In caso di mancata fissazione invece il coagulo può staccarsi dalla vena periferica ed essere portato dalla corrente sanguigna fino a cuore (le vene vanno infatti aumentando di calibro fino al cuore e non ci sono ostacoli che possano fermarlo). Dal cuore essere pompato nelle arterie polmonari (le arterie vanno invece in diminuendo di calibro) fino ad arrivare ad una dimensione tale che il coagulo rimane incastrato nel vaso e chiude l’arteria che porta il sangue ai polmoni. La zona a monte dell’arteria non riceve più sangue e muore. Se il trombo era grande anche l’arteria chiusa sarà grande e altrettanto grande sarà il danno che ne deriva a monte, fino a portare, in alcuni casi fortunatamente estremi, alla morte dell’individuo.
Come già detto le vene superficiali, anche per la possibilità di un’efficiente compressione dall’esterno, solo in rari casi sono responsabili di embolia. Ben più pericolose sono le trombosi delle vene interne che prendono il nome di “trombosi venose profonde o T.V.P”.
Il maggior pericolo di questi vasi interni deriva da diversi fattori: dalla impossibilità di un’adeguata compressione esterna, dal maggior calibro di queste vene, da una maggiore difficoltà di diagnosi.
Mancano, infatti, in questo caso, tutti i segni esterni dell’infiammazione per cui la diagnosi di certezza si fa solo con esami strumentali (dopplersonografia). E’ importante quindi pensare sempre ad una trombosi venosa ogni volta si noti un gonfiore improvviso e monolaterale di un arto, non facilmente spiegabile. Una visita medica ambulatoriale in questi casi è consigliata per escludere altre patologie (infettive, da farmaci ecc) e valutare un eventuale iter diagnostico.
Per questa malattia esistono delle sicure condizioni predisponenti come il rallentamento della circolazione venosa negli arti inferiori a causa di una persistente immobilità a letto (malattie, interventi chirurgici), oppure persone con difetti congeniti della coagulazione, ma anche età avanzata e uso di alcuni farmaci piuttosto comuni (pillola).
Fra gli interventi chirurgici predisponenti quelli che statisticamente hanno maggiore incidenza di episodi sono quelli di tipo ortopedico (specie con applicazione di apparecchi gessati e in caso di chirurgia di anca e ginocchio), di tipo urologico e neurologico. Altre condizioni favorenti sono date da traumi, gravidanza, iniezioni di soluzioni per scleroterapie, neoplasie.
La profilassi si fa cercando di migliorare la circolazione del sangue mediante movimenti attivi durante la degenza in letto (più volte al giorno esercizi di spinta con i piedi sulle ringhiere del letto e flesso-estensione di coscia e piede), mediante mobilizzazione precoce ed eventuale uso di compressione pneumatica esterna degli arti.
La terapia farmacologia si basa sull’uso dell’ “eparina” e dei “dicumarolici”.
Entrambi sono farmaci anticoagulanti, che ostacolano cioè, in modi molto diversi fra loro, il normale processo di coagulazione del sangue. Impediscono quindi che il trombo formato da sangue coagulato aumenti di dimensioni e si estenda lungo il decorso della vena aumentando il rischio d’embolia.
L’eparina, o per meglio dire le eparine poiché ne esistono diversi tipi, cominciano ad agire immediatamente dopo la somministrazione; i dicumarolici (antivitamine K) hanno bisogno di due o tre giorni per ottenere un efficace effetto anticoagulante.
Il ritardo nell’effetto dei farmaci antivitamina K ha indotto ad usare questi prodotti anche come un efficace veleno per i topi.
Sono farmaci, infatti, la cui somministrazione serve a ridurre progressivamente la capacità di coagulazione del sangue fino a portare a gravi emorragie. Essendo il meccanismo ritardato nel tempo, il topo “assaggiatore” sopravvive ed i compagni considerano il prodotto commestibile. L’emorragia mortale avverrà dopo alcuni giorni e la comunità non riuscirà a mettere in relazione la morte con l’assunzione del veleno.
Le eparine quindi sono i farmaci di pronto impiego, i dicumarolici di secondo impiego e di mantenimento.
I tempi e le modalità d’assunzione di questi farmaci sono d’esclusiva competenza medica essendo molto limitato il loro “margine di sicurezza terapeutica”, vale a dire la differenza di concentrazione fra la dose utile e quella invece da considerare pericolosa.
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