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IL PROVERBIO Val più un oncia....
27/7/2010-
Pisa, La Cittadella. Torre dell'antico arsenale della Repubblica (anno 1911)
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Il proverbio di oggi:
Val più un oncia di sorte,
che cento libbre di sapere
Il modo di dire:
Gratta gratta s’arriva allo stollo
Gira e rigira, leva oggi e leva domani , piano piano si arriva alla fine.
(Lo stollo era il palo centrale attorno a cui si ammucchiava il fieno per realizzare il pagliaio)
Dal libro “Le parole di ieri” di G.Pardini
PULA
Lett: PULA. [Tritume o polvere del carbone].
Quello che noi in dialetto chiamavamo “pula” sullo Zingarelli è definito pulone [tritume di paglia].
La pula era quella polverina, molto irritante per gli occhi e per il corpo, che si sprigionava in nuvole biancastre lungo i fianchi della trebbiatrice quando si trebbiava il grano o il granturco.
Il grano era stato in precedenza raccolto a mano nei campi, tagliato con le falci e raccolto nei covoni. L’operazione avveniva con il concorso di amici e parenti, che erano poi ricambiati, ed anche di alcuni lavoranti detti “a opre”.
Oggi le trebbiatrici sono macchine autonome che tagliano e trebbiano i cereali direttamente nel campo (hanno sostituito tutte le altre negli anni dal ’60 al ’70), un tempo invece non avevano motore autonomo e dovevano essere mosse dalla forza motrice di un trattore a cui si collegavano tramite una lunga e grossa cinghia.
Si posizionava la trebbiatrice, si metteva poi il trattore ad una certa distanza fino a mettere in tensione la cinghia e con l’avvio del trattore la macchina si metteva in movimento.
Alcuni contadini, muniti di “forcine”, erano addetti alla fornitura dei fasci del grano mentre altri, saliti sulla sommità della trebbiatrice, cominciavano ad introdurli nella macchina. Il rumore del trattore e della trebbiatrice era fortissimo e copriva tutte le grida delle persone mentre si andava levando un gran polverone. La macchina separava il grano, che fuoriusciva da piccole feritoie quadrate poste sul fianco che veniva raccolto nelle “balle” e caricato sui “barrocci” o sui “pianali”, dalla paglia che veniva espulsa dal fondo e accumulata in grandi mucchi attorno ad uno “stollo”, un palo centrale di legno infisso nel terreno, a formare il pagliaio. Lo stollo aveva sulla cima un bussolo di latta, un barattolo rovesciato ed infilato al vertice, per proteggerlo dalla pioggia che lo avrebbe indebolito. La sgranatura del grano produceva anche una enorme quantità di polvere fina, molto irritante per la pelle e le mucose che era appunto la pula e che formava anch’essa un piccola montagnola vicino al pagliaio.
Mentre il grano veniva raccolto a mano nei campi, assemblato in fasci, e poi introdotto direttamente nella trebbiatrice, per il granturco era invece necessaria una preparazione.
Anche questo, come il grano, veniva raccolto manualmente ed era un’altra di quelle operazioni agricole che potevano essere affrontate solo con la partecipazione di molte famiglie contadine riunite assieme.
Questa organizzazione del lavoro prendeva il nome di “scambio” o “scambia”: l’unione della forza-lavoro di più famiglie in occasione di un lavoro particolarmente impegnativo come una vendemmia o, appunto, il taglio del grano o la raccolta del granturco.
Le pannocchie del granturco venivano prelevate dalla pianta e “arunate” (ammassate) sull’aia, spesso adagiandole su dei teli bianchi che talvolta erano le stesse lenzuola tratte appositamente dai
"canterali”. Prima di essere trebbiate, separati cioè i chicchi dal “cornocchio” centrale, le pannocchie dovevano essere sfogliate, cioè private di quelle foglie dure e taglienti in cui sono avvolti strettamente i chicchi. L’operazione dello sfoglio avveniva di solito alla sera, quando diverse famiglie di contadini, dopo una dura giornata di lavoro nei campi, si riunivano nelle corte e cominciavano l’operazione utilizzando un grosso chiodo od anche un piccolo legno di stipa, appuntito. Le foglie venivano incise, scostate dalla pannocchia e poi, con un colpo deciso, troncate alla base separando i due componenti. Le pannocchie nude potevano così essere trebbiate mentre le sfoglie potevano servire anche per riempire le materasse, anticipando quel vegetale che avrebbe fatto la sua comparsa più tardi.
Il meccanismo del riutilizzo dei prodotti di scarto era un’usanza costante della civiltà contadina e non solo riguardo al cibo (vedi pancotto, pane zuppo, zuppa lombarda, ribollita, pappa col pomodoro), ma anche per altri prodotti come le sfoglie del granturco per riempire le materasse e le penne dei polli per realizzare cuscini.
La sfogliatura delle pannocchie, che si ripeteva per ogni famiglia a turno, era comunque un occasione di incontro e di festa.. Oltre il vino offerto in abbondanza ed il ballo finale sulla musica di qualche organetto, era occasione di incontro, risate, scambio di opinioni, corteggiamenti.
Chi ha partecipato a queste riunioni notturne ne parla con rimpianto e non solo per la giovane età e l’aria di festa. Era il mondo contadino di quel tempo ad essere diverso: le famiglie erano molto più unite, vi era una maggiore partecipazione di tutti alla vita di tutti. Scambiarsi favori era un piacere prima di essere un dovere, la solidarietà non solo una parola, i valori erano più semplici e più
genuini. Pur essendo, quella del contadino, una vita di duro lavoro che spesso cominciava all’alba per concludersi al tramonto, i momenti di festa venivano vissuti con una gioia ed una partecipazione oggi scomparsi, con una serenità oramai perduta, sconfitta dall’individualismo e dalla aggressività che si sono fatti strada nella civiltà moderna.
Il cornocchio, il [torsolo della pannocchia], aveva anche il nome (italiano) di tutolo.
Da questo prende origine la frase “ma vai alle tutole!”, con cui si invitava il soggetto ad andare a fare un semplice lavoro manuale come raccogliere il granturco, operazione considerata più idonea alla sua scarsa intelligenza e inadeguatezza.
PUNGIA (accento sulla ”i” )
Lett: nc.
La pungia è il termine dialettale per indicare l’ortica (urtica membranacea).
Il termine dialettale prende sicuramente origine dalla particolarità della pianta di essere molto irritante al contatto con la pelle, con comparsa di prurito, arrossamento e gonfiore nella parte interessata.
Dalle parti di Cascina la pianta viene chiamata “prungia”, probabilmente a causa del grande prurito che determina.
Umberto racconta di uno strano uso della pungia: i pescatori di ranocchi rimuovevano la pelle coriacea delle loro prede e le strusciavano con la pungia in modo da far lievitare quei piccoli muscoli e vendere più facilmente la loro merce.
Un gioco che veniva fatto da piccoli era quello di passarsi le mani nei capelli e poi raccogliere la pianta senza essere punti. Il segreto era nello strato di unto dei capelli che passava alle dita delle mani (specie quando si usava la brillantina), che impediva il contatto con le cellule urticanti della pianta.
La pungia trova posto anche nella cucina popolare come componente di pietanze e nella medicina popolare per sue azioni utili per l’apparato gastroenterico.
Varietà indiane di questa pianta, dai nomi impressionanti come “ferox” ed “urgentissima”, possono dare nell’uomo reazioni anche molto gravi, talora mortali.
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