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di Madamadoré



9/4/2009- IL MONDO ALLA ROVESCIA
Il mondo va alla rovescia. Il mondo normale, naturalmente! Lasciamo uscire dalla finestra delle cose per farle rientrare dalla porta...


IL MONDO ALLA ROVESCIA

di Madamadoré




Il mondo va alla rovescia.

Il mondo normale, naturalmente! Lasciamo uscire dalla finestra delle cose per farle rientrare dalla porta.

Buttiamo via con estrema noncuranza tutto quello che i media o lo sguardo diffuso ci dice che non va più bene. Dalla scarpa a punta, al cappotto con le spalle imbottite, alle cose meno materiali come la socialità, i rapporti di vicinato.

Quando ero ragazzetta questo paese con la sua mentalità con la sua gente mi stava stretto, le mie amiche di città quando venivano a trovarmi, mi facevano sempre notare che si vedeva che la gente era di paese, e ovviamente era sottinteso che anche io lo ero.

Era vero, anche io mi accorgevo delle donnette che ti guardavano per strada, che si facevano i fatti tuoi, che non c’era privacy, tutti sapevano tutto di tutti.

Allora butti via questa paesanità e ti ritiri, stai nel tuo, dicendo io non sarò così e per farlo devi isolarti, devi allontanarti, creare distanza fisica e psicologica tra te e loro.

Sbagliato, estremamente sbagliato: l’uomo non è un isola, ha bisogno degli altri, ha necessità di costruire legami.

Si dimentica un fatto importante: la paesanità fatta di chiacchere e pettegolezzi esiste dappertutto è dovuta alla presenza umana, qualsiasi presenza umana, può cambiare la dose e il modo, ma quella è.

La paesanità aveva un lato importante che non avevo valutato, che ho imparato a valutare con l’età: la presenza, la vicinanza, il poter contare su qualcuno, la costruzione di familiarità con i tuoi vicini, la relazione di aiuto…

Tutto negli ultimi 20 anni ha contribuito a rafforzare l’esigenza di individualismo, di atomismo dell’essere umano, in nome della realizzazione personale, del rispetto della privacy, della costruzione dell’indipendenza e della libertà.

Tutti abbiamo costruito recinti materiali e immateriali, per affermare il possesso, per legittimare confini tra me e altro da me.

Ma il mondo va alla rovescia.

Ti fa credere di non avere bisogno di una cosa che possiedi, per fartene disfare. Appena non ce l’hai più comincia a tramare per riproportela, ma ovviamente diventa un business. Ovviamente non per te, ma sempre per i soliti.

Un esempio: gli outlet, le cittadelle dello shopping. Per anni si è predicato di salvare il centro della città dal traffico, dallo smog, dicendo che il centro deve essere valorizzato, conservato…piano piano, anche per gli alti costi, i negozi sono fuggiti dal centro, per trasferirsi in periferia.

Ma come? Organizzandosi, dandosi una struttura architettonica ed estetica somigliante e riproducente una città, un borgo medioevale: icona massima della città come scambio, della città viva, densa di scambi commerciali e di relazioni umane.

Ci hanno fatto abbandonare le nostre città per andare a passeggiare in città finte, in riproduzioni di città. Sappiamo che cosa ha portato su altri piani il nostro abbandono delle città: è diventato territorio da proteggere magari con le ronde o con l’esercito.

Dite che questo esempio è vecchio e che non se ne può più?

Benissimo, ne possiamo fare uno di nuova generazione che collega i discorsi fatti prima sulla paesanità, sui lati positivi dei rapporti che si creano in piccole comunità, i lati positivi che non vedevano i nostri nonni quando abitavano nelle case coloniche con le loro famiglie extralarge.

L’esempio si chiama cohousing.



Il cohousing nasce in Scandinavia negli anni 60, ed è a oggi diffuso specialmente in Danimarca, Svezia, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone.

Le comunità di cohousing combinano l’autonomia dell’abitazione privata con i vantaggi di servizi, risorse e spazi condivisi (micronidi, laboratori per il fai da te, auto in comune, palestre, stanze per gli ospiti, orti e giardini...) con benefici dal punto di vista sia sociale che ambientale.

Tipicamente consistono in un insediamento di 20-40 unità abitative, per famiglie e single, che si sono scelti tra loro e hanno deciso di vivere come una “comunità di vicinato” per poi dar vita – attraverso un processo di progettazione partecipata - alla realizzazione di un ‘villaggio’ dove coesistono spazi privati (la propria abitazione) e spazi comuni (i servizi condivisi).
La progettazione partecipata riguarda sia il progetto edilizio vero e proprio – dove il design stesso facilita i contatti e le relazioni sociali – sia il progetto di comunità: cosa e come condividere, come gestire i servizi e gli spazi comuni.

Le motivazioni che portano alla coresidenza sono l’aspirazione a ritrovare dimensioni perdute di socialità, di aiuto reciproco e di buon vicinato e contemporaneamente il desiderio di ridurre la complessità della vita, dello stress e dei costi di gestione delle attività quotidiane.

Il cohousing offre la garanzia di un ambiente sicuro, con forme alte di socialità e collaborazione, particolarmente idoneo per la crescita dei bambini e per la sicurezza dei più anziani.




Ricercando in internet, ho avuto una sorpresa: un esempio di cohousing sorgerà a Pisa.

“Il villaggio Cohlonia nasce dalla ristrutturazione Villa Rosa Moltoni, immersa in un parco privato da 20.000 mq, separata dal mare da 100 metri di dune protette, ospiterà 60 famiglie che a Calambrone vogliono vivere stabilmente, o per certi periodi all’anno”, così si legge nell’inserto pubblicitario.

Il mondo va davvero alla rovescia.

Chi ha più di 30 anni riconosce in queste descrizioni pubblicitarie un modo di abitare tipico dei nostri paesi: la corte, o, andando più indietro con gli anni, la vita dentro una casa colonica dove abitavano due o tre famiglie di contadini, ma descrive anche un modo di vivere tipico del paese piccolo, di nostri paesi.

Ma se la città ha espulso una serie di attività per collocarle in periferia, per dare vita ad una città diffusa, poi il mercato ci offre la possibilità di vivere in piccoli villaggi? Di organizzare le nostre costruzioni in piccoli agglomerati di famiglie che sviluppino al loro interno una relazione di aiuto?
Una relazione di aiuto elettiva e selettiva, le famiglie che aderiscono al progetto di cohousing si scelgono, costituiscono una sorta di cooperativa e poi con momenti di progettazione partecipata danno il via al tutto.



Il modello di coresidenza è infatti ricco di soluzioni per recuperare spazi e tempi, si fonda su una sorta di destino comune delle community e propugna la creazione di una rete di welfare attivo basato sul coinvolgimento diretto delle persone.( sono da notare le parole nuove usate per significare usi e modi di vita che appartenevano ai nostri genitori).



Ricapitolando: ci hanno fatto credere, e ci abbiamo creduto tutti, che la vita andava vissuta, organizzata e gestita e abitata diversamente per poi dopo anni riproporci valori, case, stili di vita da ricreare, ma attenzione, solo con chi ti scegli, visto che in giro ci sono molte persone inaffidabili…

Il mondo va proprio alla rovescia.

Ma dico noi avevamo un bel po’ di queste cose e non le abbiamo sapute apprezzare, trattenere, far crescere e arricchire, non le abbiamo nutrite, le abbiamo tagliate e buttate.
.
Mi ripeto, ma le corti erano qualcosa di più autentico, la circolazione di buone pratiche di aiuto, sostegno e solidarietà erano più libere, non sapevano certo di villaggio vacanze che dura tutto l’anno. I ritmi di vita e di lavoro, i rapporti familiari e sociali erano gestiti e vissuti in modo diverso rispetto ad oggi che siamo, o vogliono farci diventare drogati di lavoro a discapito di noi stessi.
Le nostre vite sono diventate un ingorgo di tempi e doveri, un ingorgo ingarbugliato che fatica a seguire una logica scelta da noi stessi e per noi stessi.

Il mondo va alla rovescia, ma noi, soprattutto noi abitando in un piccolo paese, il nostro mondo lo potremmo far andare per il verso giusto, apriamo gli occhi e guardiamo le cose che abbiamo, diamogli il giusto valore e non svendiamole per trenta denari, tradendo solo noi stessi.

Madamadoré




 
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