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LA BATTIGIA di Trilussa
23/5/2010-
CAMPIONI
Quando chiesero all’allora allenatore del Brasile Vicente Feola - quello di Djalma Santos, Garrincha, Didì, Vavà e Pelé (Altafini era riserva) che vinse il mondiale del 1958- con quale criterio facesse le convocazioni...
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CAMPIONI
Quando chiesero all’allora allenatore del Brasile Vicente Feola - quello di Djalma Santos, Garrincha, Didì, Vavà e Pelé (Altafini era riserva) che vinse il mondiale del 1958- con quale criterio facesse le convocazioni, lui rispose: «Prima chiamo tutti quelli che sanno giocare a calcio. Poi, nei ruoli rimasti liberi, metto gli altri».
Perché i criteri con cui si fanno le nazionali di calcio sono sostanzialmente due, o si punta sul valore della squadra nel complesso, sulla forza del collettivo, oppure si decide di affidarsi all’estro, alla fantasia, al genio di qualche campione (quando c’è).
E i campioni nel gioco del calcio capitano di rado, non tutti gli anni e quando qua e quando là.
Per rimanere alla sola Europa Gullit, Van Basten e Rijkaard capitarono in Olanda e fecero grande la nazionale, Lato e Gadocha nacquero in Polonia ed anche per quella nazionale furono tempi d’oro, Rossi, Tardelli e Conti (ma perché dimenticare gli altri) capitarono in Italia nell’82 e fu vittoria.
Io credo che quando i campioni capitano in un paese che gioca al calcio dovrebbero essere sempre impiegati in campo, altrimenti succede come quando fu escluso Rivera in una semifinale col Brasile per far giocare Juliano (Rivera fu inserito solo all’84° minuto e perdemmo 4 a 1, era il 14 giugno 1970) oppure quando si soleva tenere in panchina un talento come Roberto Baggio.
A proposito quando Pelè, che è sempre stato un grande campione, dentro e fuori dal campo, seppe che Rivera era stato escluso dalla formazione iniziale fece commenti molto entusiasti perché sapeva benissimo che anche un Rivera non nelle migliori condizioni era in grado, magari con un semplice lancio, anche uno solo in tutti i 90 minuti di gioco, di condizionare un risultato.
E noi di campioni ne abbiamo anche oggi, magari un po’ defilati perché le squadre hanno sempre necessità di vincere (per soldi, fondamentalmente) e comprano assi stranieri a suon di milioni di euro con la conseguenza poi di trascurare i giovani talenti nostrani.
Di campioni ne abbiamo di vecchi, come Totti e Del Piero, e ne abbiamo anche di giovani e giovanissimi, come Cassano e Balotelli.
Il nostro selezionatore pare che voglia basarsi sul primo tipo di squadra, quella del complessivo, e siccome è Campione del Mondo e lo fa di mestiere non posso che adeguarmi alle sue scelte che probabilmente sono proprio quelle giuste. Posso comunque esprimere il mio parere in maniera democratica e da ignorante, ma da passionista di calcio e di nazionale italiana, rimango dispiaciuto che questi nostri campioni rimangano a casa.
Alla domanda sul rifiuto di portare qualche nostro giovane talento il CT ha risposto che le ragioni di questo rifiuto sono essenzialmente psico-tattiche, si psico-squilibra la squadra: i CT ne sanno sempre qualcuna in più dei normali cittadini.
Totti e Del Piero non sono giovanissimi ed hanno perso sicuramente lo slancio atletico dei ventanni ma hanno molta esperienza e mantengono un buon piede, un buon tiro, specie su punizione, e sanno interpretare molto bene il gioco della squadra rimanendo ottimi punti di riferimento per i corridori.
Cassano pare diventato più maturo, ha messo finalmente giudizio, come si dice, ed ha quei lampi di genio che spesso hanno condizionato i successi delle sua squadra in campionato. Se la Sampdoria è in Champion League molto è dovuto a questo piccolo barese sbarazzino che si vanta di avere letto un solo libro ma di averne scritto (!) due. Il tempo finirà per renderlo uomo e quando sarà il momento sono convinto che sarà capace di recuperare tutto il tempo che ha perduto dietro al pallone e alle belle ragazze.
Balotelli sta vivendo in questo momento il trauma del successo, in un ragazzo condannato altrimenti all’emarginazione. Il cognome e la lingua italiana non lo avrebbe potuto proteggere dagli sguardi, dalla diffidenza, dalla emarginazione sociale. Troppo nero, troppo puro come razza anche per avere un cognome italiano.
La sua salvezza:è stato il calcio. Con il calcio il colore nero sbiadisce, il cognome rassicura, le doti calcistiche superano tutti gli ostacoli, anche quelli del più bieco razzismo. Il calcio lo solleva da una vita predestinata alla sofferenza e lo lancia in una vita completamente opposta, destinata, si spera per lui, alla felicità e al benessere.
Ma il salto è troppo grande, enorme per un ragazzo di appena diciotto anni, sedici per il primo cartellino serio, poco più di un bambino.
La gente, improvvisamente, da un giorno all’altro gli sorride, gli dà pacche sulle spalle, sopporta finalmente il suo odore, personaggi importanti telefonano a casa e chiedono di lui, cominciano le proposte, le promesse e i soldi, molti soldi e con i soldi donne, macchine, bella vita.
E’ troppo bello, è troppo, è troppo veloce e la sua reazione è scomposta. Si sente finalmente forte, si sente capace, si sente grande, importante in un mondo che vive di calcio, che mangia calcio e vorrebbe ancora di più e più in fretta, scalpita, protesta, fa brutti gesti e la gente non gradisce. Non gradisce il suo comportamento spavaldo, le sue crisi di nervi, le sue intemperanze, i sui gestacci, più ancora del suo colore nero. Alla fine anche i suoi tifosi perdono la pazienza ed il ragazzo si trova isolato, accusato, ripreso, sfottuto e offeso quando scende in campo.
Cosa può fare, cosa si deve aspettare Balotelli? Deve semplicemente aspettare di crescere, di diventare uomo, di superare le difficoltà, enormi, derivate da questo salto, da questo cambiamento repentino di prospettive di vita che avrebbero messo in difficoltà chiunque, specie un giovane ragazzo, e nero per giunta.
Ma al pallone sa giocare, e come!
Ha tutto per diventare un vero campione: ha il controllo di palla, il dribbling, la potenza atletica, la velocità, ha il tiro. Ed ha anche una cosa abbastanza rara in campo calcistico ma che quando c’è è appannaggio solo dei grandi campioni, quello della fantasia e della capacità di “leggere” l’azione.
Dispiace lasciarlo a casa, magari poteva essere messo in panchina, tenuto in caldo per utilizzarlo magari come “ultima spes” in condizioni critiche, quando stai perdendo e sai che solo un miracolo ti può salvare. In questi casi il collettivo non serve a nulla, in questi casi solo un lampo, una luce, una invenzione, una visone come quella di Majiugorie ti può far rimediare una partita.
Ecco, il Mario, avrebbe potuto farlo.
Trilussa
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