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LAVORO E DIRITTI
23/6/2010-
di TRILUSSA
Il mondo del lavoro in pochissimi anni è molto cambiato e i vecchi concetti che contrapponevano da una parte il lavoratore e dall’altra il padrone trovano oggi qualche difficoltà ad essere applicati nella loro semplicità....
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LAVORO E DIRITTI
Il mondo del lavoro in pochissimi anni è molto cambiato e i vecchi concetti che contrapponevano da una parte il lavoratore e dall’altra il padrone trovano oggi qualche difficoltà ad essere applicati nella loro semplicità. L’economia è ormai diventata globale ed il mercato è diventato enormemente competitivo, specie con l’ascesa economica dei cosiddetti paesi emergenti come Cina, India, Brasile. In quei paesi, oltre a grandi risorse naturali, vi anche è una manodopera a basso costo, che rende i loro prodotti molto compitivi in campo mondiale, principalmente per la mancanza di forme avanzate di tutela dei lavoratori.
In Europa l’ingresso dei paesi dell’est europeo ha bilanciato in parte questa distanza di costo-lavoro da questi paesi e molte aziende hanno iniziato a delocalizzare la produzione in questi nuovi arrivati dove la mano d’opera (e anche altro) rendono più facile e meno costosa la produzione.
L’acquisizione di questo diverso rapporto con la mano d’opera locale in questi paese ha indotto le Aziende ad un diverso atteggiamento nei confronti dei vecchi lavoratori europei titolari di stipendi (e quindi costo per le aziende produttrici) molto superiori e anche di diritti sindacali consolidati, cose che vanno poi incidere sul costo finale per unità di prodotto.
In Europea i vari governi hanno adottato tattiche e proposto misure diverse per opporsi a questo nuovo pericolo di un economia globale che richiede sempre una maggiore competizione per rimanere sul mercato e fare profitti.
Paesi come la Germania hanno puntato soprattutto sull’aumento del plus valore, cioè sul contenuto tecnologico dei loro prodotti che pur avendo un prezzo più elevato rimangono però all’avanguardia nei loro settori di competenza. Basta guardare nel settore auto o anche in quello, da noi completamente trascurato, delle energie alternative.
Altre industrie invece tecnologicamente meno avanzate, o produttori di merce a bassa tecnologia, hanno invece largamente delocalizzato cercando di mantenere il proprio fatturato abbassando il costo della produzione, spesso utilizzando centri di produzione anche molo distanti fra loro, contribuendo in maniera significativa anche all’aumento dei traffici e dell’inquinamento ambientale.
In Italia non abbiamo grandi risorse naturali e la nostra industria è principalmente di trasformazione e di tipo manifatturiero. In alcuni campi siamo di eccellenza, come in quello tessile, dove le varie aziende investono molto anche in ricerca e riescono rimanere sul mercato sia per la perizia, la perfezione, la bellezza dei capi manche per i nuovi tessuti che riescono a produrre.
Purtroppo quello della ricerca nel nostro paese è un settore da sempre caratterizzato dalla cronica incapacità dei Governi di percepire l’importanza dell’investimento in ricerca, che è poi l’investimento sul futuro del paese, come hanno invece capito gli altri paesi europei da cui ci stiamo sempre più allontanando.
In effetti però risorse naturali ne abbiamo, non nel senso di giacimenti di petrolio, gas o minerali preziosi, ma nel senso di una natura bellissima, sole, cibo e beni culturali.
Settori in cui non abbiamo mai avuto l’accortezza di investire con la dovuta
convinzione per cui oggi ci troviamo nella pessima condizione di non avere ricerca avanzata nel settore delle energie alternative, non produciamo che una piccola quota di energia dal fotovoltaico e/o da altri sistemi ecocompatibili, i nostri migliori ricercatori vanno all’estero ed il turismo gode di molti discorsi ma di poche risorse e di scarsa programmazione. In ultimo, e in molti casi, anche di una scarsa cultura dell’accoglienza.
La nostra economia quindi è costretta a basarsi essenzialmente sulla produzione e trasformazione di prodotti, di cui quella dell’auto rimane sicuramente la più significativa.
Gli stessi operai non sono più una categoria omogenea come un tempo. Chi ha il posto fisso, o almeno sulla carta a tempo indeterminato, chi è invece a tempo determinato, poi ci sono i cassintegrati, i lavoratori a progetto, i precari (spesso a vita) e molte altre figure professionali che rendono il panorama molto variegato e complesso.
Questo panorama complesso si ripercuote poi anche a livello sindacale dove si può correre il rischio di mobilitarsi per gli interessi di una certa categoria, magari a svantaggio o trascurandone altre che talvolta si trovano in condizioni addirittura peggiori.
In questo panorama nuovo e complesso si inserisce la vicenda di Pomigliano d’Arco.
Quello di Marchionne non possiamo che considerarlo un vero e proprio ricatto, sia nella forma che nella sostanza, ma è significativo di una realtà. La buona salute dell’Impresa è il bene supremo che deve perseguire un dirigente che non si può far condizionare dalle conseguenze delle sue azioni.
Non è più il padrone di vecchia memoria che si contrapponeva agli operai.
Il padrone non fallisce mai, non ha mai fatto la fame per il fallimento della propria azienda. Se fallisce falliscono gli operai, gli operai e le loro famiglie. Marchionne opera azioni contabili e non possono essere condizionate dal sentimentalismo. Non è il suo ruolo, non farebbe bene il suo lavoro. Può produrre a minor costo da un'altra parte, con maggiori garanzie di efficienza, meno problemi sindacali, è tentato di farlo per avere maggiori garanzie che il grosso investimento programmato vada a buon fine. Il suo diktat cerca di forzare la mano, perché il suo scopo è di avere garanzie.
Dall’altra parte ci sono invece gli operai, la parte più debole, quella messa improvvisamente di fronte allo spettro della cassa integrazione, del licenziamento.
Certo però che hanno dei diritti, sanciti dai contratti, protetti dalla costituzione, dalla Statuto dei lavoratori costato tante lotte e tante vittime. Non si può derogare da questi, è ingiusto oltre che ai limiti della costituzione.
Vedo un errore quello del referendum che non vedrà nessuno vincitore, ma farà solo vittime.
Vedrei con favore invece un sindacato che si fa mediatore, che non si oppone muro contro muro, ma che consapevole di questi cambiamenti del mercato di lavoro assume su di se il ruolo centrale di mediazione. Quella mediazione che possa garantire ai lavoratori i diritti inalienabili di un paese civile e all’Azienda le garanzie necessarie per i propri investimenti.
di Trilussa
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