In questo nuovo articolo di Franco Gabbani si cambia completamento lo scenario.
Non avvenimenti storico- sociali, nè vicende di personaggi che hanno segnato il loro tempo.Il protagonista è questa volta è il fiume Serchio, l'attore sempre presente nella storia del territorio, con grandi vantaggi e tremendi disastri.
Ma non manca il tocco di Franco nell'andare ad esaminare grandi lotte politiche e piccoli episodi di vita comune legati al compagno di viaggio nella storia del nostro ambiente.
Dal Muro rotto alla tomba di Puccini
Proprio dirimpetto alla villa dei Borboni, situata nel cuore di quella che fu la Selva Feronia, sotto una quinta di lecci secolari, stacca una lastra di dura pietra del Carso su cui è incisa questa epigrafe:
“ Per volontà del Duce Benito Mussolini – Nell’anno IV – Dell’era Fascista - Simbolo la scure romana Venne ristabilito - Il diritto italiano – Sull’antico bosco Feronio “
Con un gesto risolutivo il Duce placava l’ardente, secolare aspirazione del popolo viareggino, di ritornare nel pieno possesso della sua pineta di levante che con quella di ponente, costituisce i verdi e ben ventilati polmoni della luminosa città versiliese. Le lente trattative languivano in interminabili pratiche notarili. Con una permuta, fatta un secolo prima, tra il Comune di Viareggio e la Casa dei Borboni, questi avevano ceduto il Palazzo Cittadella (ora sede del Comune di Viareggio), quello aveva ceduto tutta la selva di levante, che per ben cinque chilometri dilunga lungo il risonante mare. La permuta inceppava ogni conclusione.
Le intricate parentele dell’ ultima legittima proprietaria, Donna Bianca di Borbone, figlia maggiore di Don Carlos, coniugata con l’arciduca Salvatore d’Austria, ma spagnola di cittadinanza e italiana di elezione, complicavano all’infinito la conclusione. Il personale intervento del Duce sciolse in un baleno la complicata matassa, dettando una chiara, esplicita risoluzione, non disgiunta da un grande senso di giustizia, e l’Aprile dell’anno IV dell’era fascista il popolo di Viareggio, rientrava, a vessilli e gagliardetti spiegati, nella pineta tutta vibrante di palpitazioni e di canti.
La romantica pineta di levante è tagliata in due da un Viale alberato di tigli e di pini, che il Municipio fascista di Viareggio ha fatto oggi asfaltare e che il gran via—vai delle sonanti automobili ha brunito e polito.
Quando il Viale, che oggi è denominato “ dei tigli” non era altro che un grande redolone, una via smossa tra lunghe lame dal colore e dallo splendore dell’acciaio, tutta coperta d’un verde smeraldino con edere abbarbicate ai tronchi centenari palipitanti come cuori, fu percorso, di su spumanti polledri nella frenesia della corsa, da Shelley e Byron; le liane avvinte ai tronchi scendevano in una trama serpigna sulla borraccina, alta e soffice come un tappeto. I due immortali poeti ogni poco arrestavano la corsa par ammirare l’incantesimo del mare che balenava tre alte quinte di pini e di lecci. Una immensa buccina tritonia s’intonava al verde ronzio della selva.
Fu ai margini di questa selva, in un groviglio di pagliole silvestri, alghe e sabbione che il luglio del 1821 il mare, spenta una collera improvvisa, restituiva alla terra il corpo efebico di Shelley, che da Livorno, su fragile navicella, aveva tentato far rotta verso San Terenzo ove sul portico della villa Magni-Maccarani attendevano con lacrimante ansia May Godwin e Jane Williams. Fu coi rami di questa selva che il Byron costrusse il rogo che doveva mandare in impalpa cenere il giovane corpo, saldo come una statua.
Col tempo i “ Viale dei tigli” fu lineato di alberatura varia, dal tiglio al platano, al ginepro. Interdetto il passo al pubblico, ed i nuovi padroni errando sovente per le vie del mondo, il viale s’era tappezzato tutto di verde setato, i sedili di rustica pietra che lo limitavano s’erano inteneriti di muschi vellutati, le prunache, fiorite di giallo, parevano fantastici candelabri, un eterno lume d’aprile aliava nell’ombre della boscaglia.
Traverso questo verde incantesimo passò, nei primi anni del secolo Gabriele d’Annunzio di su un sauro trotato di rosso, il quale stampava gli zoccoli nei folti più remoti. Qui è stata concepita la Laude “Anniversario Orfico”, il maestoso approdo sul deserto Gombo del divino corpo di Shelley.
Nel parco, ora squallido e deserto, della villa arciducale, c’è la chiesa e il mausoleo dei Borboni e dei Duchi di Parma; le tombe, una sull’altra, spaziate da una tela di broccato e d’oro, sono rischiarate dai freddi bagliori di una vetrata smerigliata; l’odore della torcia funebre si mischia, talvolta, al profumo della ragia di pino.
Nel mausoleo riposano Enrico di Borbone conte di Bardi, S.A.R. Maria di Borbone duchessa di Parma, S.A.R. Roberto di Borbone duca di Parma, Piacenza e Guastalla, Anastasia, Augusto, Ferdinando, principi di Parma, S. A. R Luisa di Borbone, Carlo Lodovico di Borbone Duca di Vienna e di Lucca, suo figlio Carlo III duca di Parma, Margherita di Borbone moglie di Don Carlos, e in questi ultimi tempi vi è stato sepolto l’unico figlio di lei, Don Jaime, pretendente al trono di Spagna.
Sul luogo medesimo che un tempo fu chiamato il “ Muro rotto” oggi sorge una stele romanica su cui è graffito il fascio littorio.
Il “Muro rotto” ha la sua storia: per molti anni, transitando per il Viale, che oggi s’intitola a Michele Coppino, rasente il bosco feronio, il passante rimaneva colpito da una tritumaglia di pietrame e mattoni e calce e da una breccia larghissima aperta nell’alto muro di cinta della pineta feronia.
Fu il minuto popolino di Viareggio che, verso il 1875, stanco della interdizione della pineta di cui vantava, e non del tutto a torto, una certa comproprietà, aprì a colpi di mazza e di martello la breccia nel muro di cinta; e per qualche tempo da quella breccia, con certa baldanza, passò tutta la gente della via Pinciana e del Varignano, fino a che, ristabilito l’ordine, ognuno ritornò nei limiti di territorio prescritti dalla legge. Ma, per trascuratezza dei legittimi proprietari della pineta, il Muro rotto rimase rotto per diecine di anni e nessuno si dava cura di restaurarlo.
Dalla località, che il popolo viareggino, malgrado il bell’ingresso e la stele, chiama ancona il Muro rotto, si va difilato, percorrendo il magnifico viale alberato di tigli e di pini, a quella che fu la casa di Giacomo Puccini e che oggi è diventata la sua tomba: ara di gloria e di luce al mondo.
Parallela al a Viale dei tigli, oltre larghe stole dorate di campi ubertosi, c’è l’antica Via Aurelia, oggi asfaltata e lineata di oleandri e di tigli; ma tutti, italiani e stranieri, per ridursi sulla tomba del grande compositore lucchese, passano per il Viale dei tigli, le cui deste frappe sono eternamente musicate dagli uccelli di passaggio; dal Gombo s’ode il flautare dei colombacci, lo zampognare delle arzavole, l’anatrare dei germani.
Tutti canti e suoni che, mischiati alla eterna cantilena del mare consolavano ed ispiravano il grande Maestro.
Questo incantevole Viale, da cui pur troppo, le “macchine” passano come lingue di fulmine, vedendolo solamente in una vertiginosa compenetrazione di piani e di macchie, è certo uno dei più incantevoli del mondo. Lo affermava il Maestro, che il mondo lo conosceva in lungo e in largo.
Molto popolino minuto, a cui è stato di bel nuovo concesso dalla amministrazione fascista il diritto di legnatico, staziona davanti alla durevole pietra del Carso su cui inciso, a mezzo tondo, il fascio littorio, e legge la sintetica epigrafe, riconoscente a Benito Mussolini che, rompendo i lunghi indugi, restituì al popolo di Viareggio il secondo polmone verde e ventilato, che imperizia e ingenuità di tardi amministratori gli avevano incautamente mutilato. E pare respiri a pieni polmoni.
LORENZO VIANI