Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Si è parlato tanto...
...di «crisi», di «Italia a due velocità», di quante promesse non è stato capace di mantenere Berlusconi e di come sarebbero potute andare le cose se avesse governato non l’emiparesico Bersani, troppo concentrato sulle sorti delle «sue» cooperative per riuscire ad indirizzare al Premier appelli di maggiore consistenza politica del suo rituale: «Si dimetta!», ma, ad esempio un più audace Vendola, dietro alle cui straordinarie doti oratorie si sono acquartierate vecchie insipide conoscenze dei tempi del Liceo, più intente nella spasmodica ed opportunistica ricerca di un pied-à-terre nei dintorni di uno dei più prestigiosi Palazzi di Roma che - se la memoria non mi inganna e se qualche meccanismo di pseudo-appartenenza non è nel frattempo cambiato - ad esprimere la benché minima tendenza «classista», a condurre battaglie in nome dei più deboli e degli oppressi o a difendere il Welfare State.
Si è dunque parlato di scollamento della «classe politica» dai problemi reali del Paese, dell’auto-referenzialità dei suoi più autorevoli membri, dei costi vertiginosi del loro maldestro incedere nel nome e nell’interesse della collettività e di tante altre belle cose, laddove il sottoscritto andava tentando di mettere in guardia da qualcosa di epocale, da qualcosa in cui e per cui tutto ciò che - nel bene e nel male, in una direzione o nell’altra - si è detto perdeva ogni più ragionevole significato; il malcostume e la malversazione dei Palazzi della politica ci hanno fatto gridare allo scandalo, ci hanno fatto riscoprire - in qualche modo - più cattolico-bigotti di quanto non lo siano i più ferventi mangia-ostie domenicali o i più irriducibili invasati - quasi adepti di un movimento ereticale - del culto di Padre Pio, ci hanno fatto rispolverare la vecchia «Questione Morale» che fu cara a Berlinguer, ci hanno fatto imbattere in un senso profondo di smarrimento e quasi avvertire un ribaltamento involutivo di certune convinzioni che il ’68 aveva liberato nell’immaginario collettivo.
Di fronte alla «Manomorta Brianzola» immersa nel suo harem, le grinze dei più turpi vegliardi celate dietro sapienti lifting, le orribili «pelate» coperte da ordinatissimi parrucchini, le dentature degne del miglior odontoiatra e un’improbabile virilità ottenuta con ogni probabilità a colpi di Cialis e di Viagra, contro le efebiche, innocenti e sinuose pelli di cotante baldanzose giovani, oggi la nipote di Mubarak, domani quella Ministra o quell’altra Consigliera Regionale, abbiamo provato lo stesso umano disgusto del corrucciato chierichetto appena assolto in confessione e illuminato dalla «Grazia di Dio» nella migliore delle ipotesi, invidia nella peggiore, nel caso cioè di quanti vedano nell’esempio del leader indomito un traguardo inarrivabile e un modello di vita da seguire.
Ci siamo guardati perplessi allo specchio, in preda ad una sorta di maxi-crisi identitaria e ci siamo chiesti dove stesse il punto di equilibrio fra le legittime rivendicazioni femministe degli anni ’70 portatrici del sacro verbo dell’emancipazione sessuale, e l’asfissiante ricorso alla pratica del lenocinio di lusso praticato dalla «Cricca dei Potenti», divisi come due tifoserie calcistiche di fronte ad un arbitro togato.
Oserei dire che possa trattarsi dell’ombra vespertina che ogni cosa proietta sulla terra nell’era del grande Ragnarøk - il Crepuscolo degli Dèi - ottundendo i nostri sensi e costringendoci a non avvertire dove realmente stiano i problemi, quale forma possano avere o prendere, chi o che cosa la possa generare e quanto l’una possa essere confusa con l’altra: il degrado morale è un sintomo, ahimè, non la causa - come vorrebbe Santa Romana Chiesa - del grande male che affligge e tormenta la società civile.
Tutto il dibattito sui discutibili costumi privati adottati da talune figure pubbliche di comprovata e inconsistente levatura morale, è una sagomatura caricaturale dell’insipienza sempre più diffusa, della perdita di potere d’acquisto (in caduta libera), della mesta genuflessione dei governanti all’interesse di pochi: con un sordido cinismo e un’avventata spietatezza da una parte si guarda alla Grecia, all’Irlanda, alla Spagna, al Portogallo e, da qualche giorno ormai alla Gran Bretagna (per me non si tratta di un mistero ne’ di una cosa nuova: stiamo parlando di un area in cui le riserve auree hanno prevalso nella logica monetaria sui protocolli di Bretton-Woods) ai paesi del Magreb come fossero site su un altro pianeta, dall’altra tirando un sospiro di sollievo perché «anche questa volta non è toccato a noi!».
L’estrema difesa che le grandi lobbies finanziarie internazionali stanno erigendo intorno al Modo di Produzione Capitalistico è una ridicola barriera mediatica, nella vana speranza di riuscire ad arginare i flutti impazziti di un sistema che giorno dopo giorno pare voler esondare l’imponente diga per travolgere le valli sottostanti, in un’apocalittica e rediviva Longarone socio-economica, un fragile avamposto che pur destinato a rimanere lì fermo e immutabile nei secoli a venire, sarà impietosamente by-passato dalla furia incontenibile delle «acque».
Ma è in questo modo che stanno provando ad allontanare non il temibile spettro della «crisi» in quanto tale, bensì la possibilità che le masse prendano coscienza di come stiano realmente le cose: prosciugare qualsiasi risorsa individuale, finanche i più miseri mezzi di sussistenza, è probabilmente l’imperativo categorico; i margini oggettivi di profittevolezza dell’economia globale si sono pesantemente assottigliati ed è arrivato il momento di consumare l’ultima residuale dignità soggettiva rimasta a ciascun individuo, che si rincoglionisca per mezzo di un Reality televisivo, o si imbottisca dal malsano dispensario alimentare dei Fast Food.
Ed è così che la lunga mano dei capitali finanziari multinazionali si invaghisce dei territori, lusingando dapprima quei quattro o cinque irredenti e insoddisfatti autoctoni dotati di scarsa saggezza, limitata cultura, inettitudine intellettiva e lungimiranza pari a quella di un ameba - nello stesso modo in cui i la Germania Nazista circuì gli Ustascia croati contro i gloriosi Partigiani di Tito -, per poi promettere posti di lavoro e prospettive di guadagno diffuso e immediato: niente di più falso!
Eppure, nella grande baraonda mediatica pare che tutte le fonti di notizie siano concordi - seppur con sfaccettature diverse - nel ritenere che, tra le molteplici facce della «crisi»,ce ne siano alcune cui tributare più comprensione, preoccupazione e interesse di altri, quasi si trattasse di alimentare la fiamma che sospinge l’acciaccato motore di questo mondo rotante: l’ansia delle borse, le preoccupazioni dei mercati, le pressanti richieste dei capitani d’industria delle cosiddette «riforme strutturali», invocate tanto dalla Marcegaglia in Italia, quanto da altri illustri comprimari disseminati per tutto il globo... c’è dunque la faccia delle «martoriate» società per azioni che, soltanto in Europa si sono viste bruciare investimenti per qualcosa come 160 miliardi di euro nel breve volgere di qualche mese, o quella dei cosiddetti «piccoli investitori», alla mercé dell’opprimente sistema bancario, incapace di mantenere le proprie promesse speculative.
Sì, perché grandi investimenti o piccoli risparmi, se conferiti in borsa, altri non sono se non speculazioni a danno della produzione reale, del lavoro che essa induce e del benessere collettivo: comprare azioni, quantunque per la maggior parte dei «piccoli risparmiatori» non sia abbastanza chiaro o facilmente comprensibile, equivale a divenire titolari - una sorta di ministri-senza-portafoglio in attesa dell’agognata rendita - di un’azienda, magari distante migliaia di chilometri, magari responsabile della creazione di questa o quell’altra arma di distruzione di massa, magari produttrice in qualche parte del mondo di OGM pronti a seppellire quella stessa sana agricoltura che con grandi sacrifici era riuscita a generare i risparmi poi malamente investiti, magari così manifestamente sensibile ai problemi sociali e ambientali in Occidente, ma ottusamente disposta all’uso di sostanze nocive, o allo sfruttamento quasi schiavistico del lavoro - talvolta minorile - nel Sud-Est Asiatico.
Ma il nostro vetusto sistema mediatico - ad eccezione del Web - mostra comprensione, affetto quasi paterno per queste realtà, per gli uomini che ogni giorno ne traducono le flotte da un porto ad un altro scampando i pericoli del mare aperto: i rampolli del Capitalismo, quasi costretti a mendicare solidarietà, ora che la fortuna pare loro aver voltato le spalle, eccoli qui pronti ad essere ri-accolti nella collettività, secondo però le loro intransigenti regole e non le consuetudini di quest’ultima, eccoli a invocare sacrifici diffusi e condivisi per sostenere uno pseudo-interesse collettivo che non è nient’altro se non il loro porco interesse privato!
C’è però un’altra faccia della «crisi»: quella degli Indiñados spagnoli, pittoreschi, vigorosi e in qualche modo interessanti perché non attaccati a nessun carrozzone della politica iberica; si possono ascoltare perché le loro rivendicazioni, ancorché - non direttamente ispirate al Marxismo, ma ugualmente - ricolme dei suoi indirizzi, delle sue prospettive e della sua logica, non ne contengono le parole d’ordine, non mettono apertamente in discussione il Modo di Produzione, non sembrano porsi nell’ottica di «abolire lo stato di cose presente» e ancora possono essere spacciate come qualcosa di «democratico» e almeno vagamente funzionale al «Capitalismo»; c’è la faccia del Popolo Viola, volutamente accostato alla mobilitazione iberica per camuffarne la vocazione democratica e celarne gli indirizzi rivoluzionari, intento nella sua irriducibile difesa del Capitalismo dal Volto Umano, figlio dell’instaurazione delle Aristocrazie Operaie, quelle stesse che in questi giorni convulsi trascorsi a precedere il varo di una Legge Finanziaria destinata a passare alla storia come il grande «salto nel vuoto», i Sindacati Confederali hanno degnamente rappresentato nell’incontro tra Governo e Parti Sociali sulla «crisi» che è stato e, ragionevolmente non potrà essere mai più, seppur invocato dalle autorevoli piazze di «Se non ora quando?».
Ci sono poi alcuni interessanti esempi di Indiñados locali, gli amici NO-TAV della Val di Susa, i nostrani NO-Ikea di cui anch’io faccio parte e quelli piemontesi, evidentemente più edotti di noi e più determinati nel ricacciare il «fango nella pozzanghera da cui proviene», ci sono altre mobilitazioni «incolori», quelle del Magreb, facilmente sdoganabili dalla stampa come «rivoluzioni democratiche» - perché tanto come stiano realmente le cose non ci sarà dato saperlo prima di qualche anno -, che hanno rivelato al Mondo tutta la potenza del giovane Mark Elliot Zuckerberg, fondatore e amministratore di Facebook, recentemente emulato da giganti dell’IT come Google Inc. con il suo recente lancio di Google+.
E ci sono infine i sobborghi londinesi, che hanno infiammato l’intera Gran Bretagna suburbana con dei veri e propri moti insurrezionali, culminati in azioni luddiste, devastazioni ed espropri non di generi di primissima necessità, ma di beni hi-tech; questa faccia della «crisi» è senz’altro quella che suscita in me l’interesse maggiore perché avverte che gli scricchiolii del Modo di Produzione Capitalistico si stanno facendo insopportabilmente pesanti; il perdurare di questa situazione potrebbe scatenare l’irredentismo nord-irlandese per cacciare definitivamente il brutale e ottocentenario oppressore dall’Isola di Smeraldo, nonché quello scozzese per portare a compimento il sogno di una terra libera dal giogo britannico che gli eredi del prode William Wallace hanno continuato a coltivare.
Ma senza dipingere o prefigurare scenari apocalittici per la Corona Britannica, che con grande fatica e grazie ai principini novelli sposi era riuscita a risalire la china del consenso, è sufficiente ricordare che i convenuti dai sobborghi, altro segmento attivo del popolo di Facebook, non sono (o non sono soltanto) Black-Block, non sono spumeggianti fuoriusciti dai Centri Sociali: si tratta di chi sta soffrendo questa crisi più di chiunque altro, non del ceto medio londinese ancora convinto che ci sarà una via d’uscita alla «crisi» e che la sua «proletarizzazione» potrà essere scongiurata; si tratta di giovani senza alcuna prospettiva futura, senza lavoro, relegati ai margini della società, un connubio internazionalista non di delinquenza, ma di coscienza di classe che inizia a farsi strada, benché decisamente ai suoi albori.
Non si va a caccia di generi di primissima necessità, ma inspiegabilmente di oggetti hi-tech fra le vetrine fracassate: cosa potrà voler dire ciò?
Che si tratti di un approccio istintivo alla protesta, governato dall’insoddisfazione, o da quell’impertinente e intrusivo sistema di comunicazione attraverso cui le multinazionali captano l’attenzione di chiunque che inizia a rivoltarsi contro sé stesso?
O addirittura di un tentativo di impossessarsi di mezzi di comunicazione evoluti per poter radicare più diffusamente e profondamente la propria rete di contro-informazione?
«Ai posteri l’ardua sentenza» direbbe Manzoni... ma una cosa è certa: per i nostri TG si tratta di facinorosi, delinquenti, animali cui non tributare alcuna comprensione che, non si capisce perché, debba invece essere accordata agli azionisti delle grandi società quotate in borsa in procinto di implodere.
Secondo il mio modesto avviso si tratta di un controverso «proletariato urbano» composto nella capitale britannica da una buona quantità di «sottoproletari»; le proporzioni dovrebbero però cambiare pesantemente nelle città del Nord dove è ragionevole pensare che possa essere composto in gran prevalenza da Operai, Disoccupati e Precari, ciò che mediamente si identifica con la Classe Operaia.
Difficile dire come stiano esattamente le cose ed è abbastanza chiaro che potersi fidare in merito delle notizie diffuse dal sistema mediatico occidentale, equivale ad accogliere il principio per cui l’ondata insurrezionale britannica non debba trovare nei controversi rapporti sociali metropolitani la sua causa scatenante e una sua legittimazione, bensì quello per cui si tratti - qualunque ne sia l’origine - di una brutale e barbara aggressione alla società civile inglese senza se e senza ma.
È mia opinione che si debba prendere progressivamente sempre più familiarità con questo genere di reazione popolare alle sollecitazioni del Modo di Produzione Capitalistico: non credo ci sia ancora da aspettare molto prima che il contagio europeo faccia definitivamente il suo corso, così come non credo che l’Italia riuscirà a mantenersene immune.
Il placido scorrere quotidiano del grande fiume del tempo nella nostra penisola - per intraprendere un parallelo con l’opera musicale “La Moldava” di Bedřich Smetana, e descriverne l’incedere con le parole dell’autore stesso: «La composizione descrive il corso della Moldava, a partire dalle due piccole sorgenti, la Moldava fredda e calda, fino all'unificazione dei due rami in un unico flusso, il corso della Moldava fra i boschi ed i prati, lungo paesaggi dove vengono celebrati matrimoni di contadini, e le danze delle sirene nelle notti di luna piena: sulle rocce vicine che fanno da base a castelli e palazzi in rovina. La Moldava si snoda in turbinii alle rapide di San Giovanni e poi si allarga e scorre verso Praga, passa sotto il Vyšehrad e poi svanisce maestosamente in lontananza, terminando il suo corso nell'Elba» - sta volgendo repentinamente al termine.
A partire dal secondo dopoguerra non si erano attesi grossi sconvolgimenti, seppur la storia contemporanea ricordi importanti turbolenze, alcune delle quali - permettetemi di dire - foriere di cambiamenti epocali, di contenuti positivi in termini di evoluzione dell’umanità e di grandi e perentorie svolte (ognuno si sforzi di ricordare quelli che vuole!); eppure gli scenari che si stanno profilando - per continuare il parallelo con lo scorrere di acque fluviali - mi sembrano sempre più prossimi a tortuose ripide e grandi cascate di cui non si riesce a vedere il fondo.
E - come era prevedibile - questa volta Facebook smette di essere il mezzo con cui si va diffondendo la pretesa - e senz’altro - mal interpretata «rivoluzione democratica» del Maghreb, smette di fungere da araldo del neo-colonialismo occidentale, il banditore di un ingiustificato e mal riposto sentimento anti-islamico vagamente macchiato di una vena xenofoba in rapida diffusione in Europa, per sdoganarne la colpevole immagine del fomentatore di disordini, del sobillatore di masse del turpe capo-popolo che, armato di forcone, si mette a caccia del «povero e indifeso» cittadino qualunque (poco importa se si tratti di un onesto piccolo-borghesuccio, di un operaio in mobilità, di un impiegato di quint’ordine, di un disoccupato o di un correo dirigente o socio azionario di quelle stesse multi-nazionali contro cui tutto l’odio popolare sembra essersi riversato!).
Così due terzi della tripartizione del potere britannico, il legislativo e l’esecutivo, si trovano unanimi e concordi nel condannare il più diffuso Social Network, cagione di cotante angherie: finché si prendevano di assalto le capitali nord-africane o ci si divertiva a giocare a dama - sulla pelle del popolo libico - con il buon vecchio Colonnello Gheddafi, tutto scorreva bene e nessuno avrebbe potuto imputare niente alla laboriosa e collaborativa rete mondiale.
Ma quando si è capito che l’espressione del Diritto di Parola, l’Opinione, poteva condurre a così sostanziali divergenze planetarie nei confronti degli immutabili e granitici dogmi eretti a salvaguardia delle istituzioni del Modo di Produzione Capitalistico, allora tutto è repentinamente cambiato e Facebook si è alienato le simpatie del placido Lord d’Oltremanica.
«C’avrai da ridillo, o Lorde!» si direbbe a Vecchiano... «Vedrai vando la ‘onfusione ‘ncomincerà a spargisi anco per le strade der Ber Paese!»; certo, ci sarà comunque la possibilità di chiudersi in casa e guardare un bel TG di Minzolini, o ascoltare gli appelli alla calma di tutti i leader politici delle forze parlamentari, o mettere il fermo-immagine su un discorso del Premier, intento in un redivivo delirio di onnipotenza a raccontare che la «crisi» esiste solo nella mente dei Comunisti; oppure ci sarà la possibilità di cambiare aria - facendo come avrebbe detto il povero grande Iosce, «Quando ‘rsangue a’riva vi, io mi sposto un po’ più ‘nlà!», cosa che può giovare a quanti si possano auto-criticamente sentire più responsabili dell’andazzo delle cose.
Ma una cosa è certa: dovunque mi giro odo di gente che stenta ad arrivare non a fine mese, ma della seconda settimana, di precari senza la prospettiva di vedersi accendere un contratto a tempo indeterminato, di lavoratori in cassa integrazione o mobilità, di piccoli imprenditori sull’orlo di una crisi di nervi - nella migliore delle ipotesi -, su quello del fallimento - nella peggiore -, di una pressione fiscale insostenibile ad ogni livello, di servizi di prima necessità dai costi sempre più difficilmente sostenibili.
Il guru Gianni Letta, zio - non ce lo dimentichiamo - dell’omonimo Enrico, ha appena preso coscienza del fatto che una «crisi» insiste sul paese e sull’intera Europa... buon per lui: noi ancora continuiamo a non «volercene accorgere», a cercare nella via localistico-provincialistica una soluzione ai problemi planetari, laddove già le fallimentari premesse della Lega Nord si stanno rivelando per ciò che realmente sono (una serie di pensieri scomposti vagheggiati dai valligiani bergamaschi con la pretesa di divenire patrimonio nazionale).
Ma intanto e per concludere, voglio divertirmi ad alimentare l’idiosincrasia verso i politici nostrani, ad incrinare più pesantemente il rapporto tra cittadini e politica con una breve nota di costume, citando pari pari le «Note familiari» di Wikipedia alla pagina dedicata proprio a Gianni Letta:
«Enrico Letta, esponente e per alcuni anni responsabile economico del Partito Democratico, è nipote di Gianni Letta e lo ha sostituito nel ruolo di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, fino ad allora da lui occupato, nel passaggio dal Governo Berlusconi III al Governo Prodi II. L'8 maggio 2008 Gianni ha poi ripreso l'incarico dalle mani del nipote.
Gianni è, inoltre, fratello di:
Giorgio Letta, professore ordinario di Calcolo delle probabilità all'Università di Pisa, socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei e dell'Accademia Nazionale delle Scienze (detta dei XL).
Cesare Letta, archeologo e professore ordinario di storia romana all'Università di Pisa.
Maria Teresa Letta, commissario regionale della Croce Rossa Italiana in Abruzzo.»
E dire che la Borghesia in ascesa durante le «rivoluzioni borghesi» ebbe a rinfacciare all’Ancient Régime, al Modo di Produzione Feudale, il Diritto all’Ereditarietà delle cariche e dei titoli! Non è forse questo, più che un sintomo di malcostume, o l’espressione di una diffusa malversazione politica, l’indice di una decadenza generale di un Modo di produzione Capitalistico ormai al capolinea?
Alessio Niccolai