Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Fino a poco tempo fa, rintanato in un angolo della Sacchetta di Trieste (come del resto a Monfalcone ed a Grado), si poteva vedere un trabaccolo in disarmo, uno degli ultimi esemplari di una categoria, che in gran numero aveva battuto in lungo ed in largo le onde dell'adriatico, dalle Puglie e dalla Dalmazia fino al nostro golfo, in trasporti di piccolo cabotaggio visitando ogni porto, ogni approdo, ogni insenatura o ridosso che si fosse prestato con un minimo di fondale.
Eppure il trabaccolo, nel suo genere, è stato un purosangue. Non un barcone qualsiasi ma una vera navicella, principe dei piccoli traffici fino all'avvento della goletta, venuta all'ultimo momento da altri mari per tentare di ridar vita alla navigazione a vela destinata ormai a cedere il passo al motore a combustione interna e, infine, al trasporto su strada.
Lo troviamo, negli anni venti e trenta - basta sfogliare qualche vecchio libro o esaminare vecchie cartoline - ad affollare le rive di Trieste, dalla Lanterna al Porto Franco vecchio, o a Pola, a misurarsi con gli archi dell'arena, o a guadagnarsi un posto di attracco accanto ai vaporini costieri lungo le rive di Rovigno, Parenzo, Pirano, Capodistria e così via, tra file di botti, pile di sacchi, assi e carri, in pazienti operazioni di carico e scarico. I trabaccoli erano al centro di una attività minuta ed incessante come quella delle formiche e delle api, tra mare e terra, terra e mare, capaci di infilarsi anche su per i canali della Bassa Friulana e del litorale Veneto a dare il cambio ad altre barche proprie della navigazione interna.
Lenti, panciuti, pittoreschi, carichi sino all'inverosimile tanto da farsi venire l'acqua in coperta (molto arcuata per tenere fuori il grande boccaporto di carico), portavano e prendevano di tutto, ridotti da ultimo a caricare merci povere di massa come sabbia, pietrisco, mattoni, con equipaggio di pochi uomini, cotti dal sole e dal salso, parsimoniosi, infaticabili e di poche pretese, espertissimi sia nella navigazione marina che in quella lagunare conoscendo a menadito coste, fondali, correnti e venti.
Navicella robusta e capace, il cui carico si misurava in «vagoni», era munita di chiglia con carena ben raccordata, e presentava una robusta ruota di prua un po' rientrante, con mascone rigonfio caratterizzato da due grandi occhi apotropaici stilizzati, testimonianza di antichissime derivazioni, che si riportano alle navi egee. La poppa era pressoché perpendicolare e munita di timone a calumo, cioè con pala più profonda della chiglia, che un paranco poteva sollevare in caso di bisogno. L'attrezzatura velica comprendeva un grande flocco (polaccone), con asta mobile e due alberi fìssi alzanti ciascuno una grande vela al terzo (cioè con Tasta o pennone superiore rissato ad un terzo della sua lunghezza) munita di pennone anche lungo il lato inferiore. Vela, questa, tipica dell'alto Adriatico, generalmente molto alta, dipinta di giallo o di rosso mattone, e talora, ma non frequentemente, con segni ottici di riconoscimento……...
………Del trabaccolo è esistita anche una versione alleggerita da pesca, propria della bassa Romagna e delle Marche (barchet), ma con qualche esemplare anche nelle acque triestine dove veniva chiamato «bacalo».
Navicella robusta, si è detto, e marina. Ne è prova l'impiego in vari servizi espletato in tempo di guerra in centinaia di esemplari non solo come unità ausiliaria ma anche con compiti di prima linea, con la conseguenza di un pesante tributo pagato in vari teatri della guerra marittima, dall'adriatico all'egeo e al Mediterraneo centrale […]
Aldo Cherini & Paolo Valenti, Il mare di Trieste e dell'Istria, Associazione Marinara "Aldebaran", Edizioni Luglio (Trieste, 2004)
Il 9 febbraio 2008 l’Unione degli Istriani – Libera Provincia dell’Istria in Esilio, ha conferito ad Aldo Cherini il PREMIO ALLA CULTURA “HISTRIA TERRA” per la sua decennale attività e per la vita consacrata alla ricerca storica, alla raccolta di documenti, alla produzione degli scritti ed alla vergatura magistrale a testimonianza della cultura istriana.
Sarà perché a giorni andrò in Istria, terra dei miei nonni materni, sarà perché sono rimasto un poco imbarazzato dal “dialogo” che nel forum hanno preso una piega assolutamente e assurdamente disdicevole le risposte dei lettori alla semplice domanda di una lettrice su cosa fosse un trabaccolo, sarà perché era da molto tempo che questa sezione stazionava, voglio dire due cose sulla barca e sulla pietanza.
La marineria adriatica era molto più avanzata di quella tirrenica, sia come quantità di imbarcazioni che come qualità di costruzione.
Il trabaccolo, iI pielego,la brazzera,il bragozzo,il topo,la battelle e la battanala gaeta, il leuto e il guzzo, lo zòppolo di Santa croce, lo spiffero o gaietta, il bragozzo, la bragagna, la tartana da guerra e peschereccia, la batana, la batela, la caorlina e altre delle quali il nome si è perso, sono le barche da pesca e da carico che battevano l’Adriatico e che ancora oggi fanno bella mostra nella Barcolana di Trieste e in qualche porto turistico.
I pescatori veneti, nel significato allargato del termine geografico, sono stati attirati dal nostro mare e molti si sono spostati con le famiglie dalle nostre parti portando con loro tradizioni e i loro “mezzi”.
A Viareggio ve ne sono parecchi, (notissimo è Nane con la sua bottega di reti e attrezzi da pesca) e anche nella forma delle nostre barche vi è un qualcosa di quel Trabaccolo e agli inizi del secolo nel nostro mare si pescava con questi battelli o simili che a volte venivano proprio chiamati così.
Bovo, brigantino a palo e brigoletta, nave goletta, paranza, navicello, goletta, pinco a gabbiola, tartana, sono i nomi dei tipi di barche che la grande marineria viareggina ha costruito dal lontano 1853 nella mitica Darsena Lucca - 89 barche fino al 1907!
Nel 1874 nasce la Darsena Toscana e sforna 140 bastimenti fino al 1915!
Nel 1934 vara il barcobestia “MIGLIARINO” (nota bene lettore!)
Le Darsene Italia ed Europa ultime nate, ne hanno varate alcune centinaia fra cui il famoso Nabila costruito dai fratelli Benetti per l’arabo Adham Kashoggi e varato nel luglio 1980.
Ecco un racconto di una delle più note fra le barche di Viareggio: la “Emilia madre” / “Santa Monica”
"La sequoia di Marino Canova"
Marino Canova, vecchio marinaio di una Viareggio ormai dimenticata, padrone marittimo al comando del barcobestia "Emilia Madre”, ha navigato per tutto il Mediterraneo dove ha vissuto, a fianco della moglie Emilia, le avventure più belle della sua vita. Tra i suoi moltissimi ricordi ne è stato ripescato uno che ha sapore di aneddoto: l’albero di maestra ricavato da una sequoia cresciuta nelle vicinanze di Lucca.
La sequoia è una pianta di origine americana ed appartiene alla famiglia delle conifere. Le più vecchie possono raggiungere altezze intorno ai 100 metri ed hanno la prerogativa di crescere in posizione perpendicolare per cui si adattano, in particolare, alla costruzione di alberi di natanti. La vita dell’Emilia Madre non fu delle più tranquille: fu costruita nel 1921 per volere della madre di Marino Canova, “la capitana”, dal cantiere Barsanti in darsena "Toscana” e gestita dalla famiglia fino al 1947. Affondata per ben tre volte durante il secondo conflitto mondiale, ed altrettante volte recuperata, terminò la sua carriera come “night club’’ e ristorante nel porto di Viareggio come “Santa Monica”.
Durante il 1938, per una breve sosta a Viareggio, la barca presentò la necessità di essere sottoposta ad un lavoro particolare: la sostituzione dell’albero di maestra perché presentava notevoli segni di logoramento al livello della coperta ovverosia a circa tre metri e mezzo dalla scassa. In quel momento al comando della nave era Fortunato Canova, mentre Marino era addetto alle macchine: i due fratelli solevano, per ragioni di servizio, scambiarsi i ruoli di capitano e di macchinista. Stabilite tale necessità i Canova, tramite un commerciante di legname di Torre del Lago, reperirono un albero a lungo fusto nei pressi di Gorfigliano in Garfagnana.
Si trattava della sequoia. Il grande albero venne addirittura sradicato con l’apporto determinante di ben sei cavalli e la sua lunghezza venne valutata in 30-32 metri, per un diametro di oltre tre metri. L’impegnativo carico fu sistemato sopra due carri-matti e trasportato a valle con il lavoro di cinque persone. L’operazione di trasporto richiese un’intera giornata attraverso le strade di allora e non senza intoppi. Infatti in due occasioni fu necessario abbattere muri o smussare angoli per permettere il passaggio del carico ingombrante con la logica ricostruzione del danno arrecato. La lavorazione del nuovo albero, che ebbe alla fine una lunghezza di 24-25 metri, fu affidata al cantiere di Giovan Battista Codecasa e all’abile ascia di suo figlio Sandrino. Ma un fatto ulteriore richiamò l’attenzione dì quanti lavoravano in darsena: il nuovo albero presentava nell’interno due colori; un giallo slavato, per una buona metà, e, per l’altra, un colore che assomigliava a quello della fragola. Le tesi tentate furono varie, ma nessuna di esse fu soltanto vicina alla reali. La cosa, per tutti i calafati e maestri d’ascia, fu abbastanza incomprensibile. Infatti nessuno di loro aveva mai visto o lavorato un tronco, o più semplicemente, una tavola di sequoia. L’abile mano di Sandro Codecasa fece il resto: un torno di pialla e gli incastri della scassa dell’albero resero l’opera completa Nella loro generalità le barche viareggine montavano alberi di due e, in alcuni casi, di tre pezzi, poiché risultavano, a lungo andare, più resistenti alla forza del vento; in questo modo potevano sopportare meglio anche il peso della velatura durante i periodi di bonaccia. Il caso volle che i fratelli Fortunato e Marino Canova avessero avuto la possibilità di montare la maestra. notoriamente l’albero pi impegnato nel sopportare il peso e le variazioni del vento, di un solo pezzo. Non conoscendo le possibilità di resistenza della sequoia, i due fratelli giocarono d’azzardo ed ebbero ragione. L’albero infetti ebbe una durata eccezionale e senza creare la minima difficoltà. Durò per il resto della vita del barcobestia, che nel 1979 venne distrutto dopo l’ultima ingloriosa destinazione a ‘restaurant” nel porto di Viareggio.
Da “Il Burlamacca racconta” storia della cantieristica e delle darsene viareggine di Carlo Pezzini. Pezzini editore
Ricapitolando: i pescatori veneti e toscani, o meglio i marinai veneti e toscani passavano una grandissima parte della loro vita sulle barche e sulle barche dovevano arrangiarsi il pranzo che, ovviamente, era principalmente pesce o pescato o barattato.
Da qui sono nati piatti poveri che il progresso e la moda e la voglia di far scena ha ritrovato e riproposto con una moltitudine di aggiustamenti più o meno riusciti in fatto di salse, accompagnamenti e presentazione.
Molti di questi piatti hanno preso in nome dalla barca, primo fra tutti il fritto di paranza ed ora appare la salsa alla trabaccolara servita con spaghetti o fettuccine che niente ha di isole della parte opposta del mondo come appare nel servizio flash a lei dedicato e da altri snaturato.
Tutto qui!
Forse troppo!!