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Una vicenda tutta personale viene descritta in questo nuovo articolo di Franco Gabbani, una storia che ci offre un preciso quadro sulla leva per l'esercito di Napoleone, in grado di "vincere al solo apparire", ma che descrive anche le situazioni sociali del tempo e le scorciatoie per evitare ai rampolli di famiglie facoltose il grandissimo rischio di partire per la guerra, una delle tante. 

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per pubblicare scrivere a spaziodonnarubr@gmail.com
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Mauro Pallini-Scuola Etica Leonardo: la cultura della sostenibilità
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Domenica 7 Luglio mercatino di Antiqua a San Giuliano T
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Molina di Quosa, 8 luglio
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Casciana Terme Lari-Pontedera, 12 luglio-3 agosto
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Alzarmi prestissimo al mattino
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Mi godo la piacevole
sensazione
del frescolino .....
Nel paese di Pontasserchio la circolazione è definita "centro abitato", quindi ci sono i 50km/ h max

Da dopo la Conad ci sono ancora i 50km/ h fino .....
VECCHIANO Italia
Intervista a Antonio Tabucchi

19/8/2011 - 20:53

INTREVISTA A ANTONIO TABUCCHI
 
Con Antonio Tabucchi l’Unità continua la serie di conversazioni con grandi scrittori italiani.
 
Oltre il disincanto
Tabucchi: «Crolla un sistema, ma dopo chissà...»
“Gli artisti non fanno cadere i regimi, ma con un cerino illuminano l’oscurità e l’abisso”
 di Paolo Di Paolo
 
C'è un nipote adulto al capezzale di una zia morente.

 In televisione passano fotogrammi del Grande Fratello.

 Dice la zia in un sospiro: «Educare il popolo è tempo perso, del resto questo popolo ora ha fatto i soldi e lo ha educato il Grande Fratello, per questo lo votano, è un circolo vizioso, votano chi li ha educati».

 

 È disincanto? È rassegnazione? La zia sembra essersi addormentata: «Invece lei gli sfiorò la mano e gli fece cenno di avvicinarsi di nuovo.

 Ferruccio, sentì che diceva il soffio, ti ricordi com’era bella l’Italia?».

 La domanda risuona in un bellissimo racconto di Il tempo invecchia in fretta, pubblicato due anni fa da Feltrinelli e già tradotto in molti paesi.

 Tabucchi è tra i nostri scrittori più conosciuti nel mondo: ha portato i versi di Fernando Pessoa in Italia, ha raccontato il Portogallo buio della dittatura di Salazar nel memorabile Sostiene Pereira, ha indagato il tempo della memoria pubblica e di quella privata, ha raccolto le luci e le ombre del ventesimo secolo nelle pagine di Tristano muore.

 Le atmosfere per cui lo si conosce sono perlopiù portoghesi, ma in realtà c’è molta Italia nei suoi romanzi e racconti: fin dagli esordi del 1975 con Piazza d’Italia – una micro-epopea dal Risorgimento al secondo dopoguerra – e con Il piccolo naviglio, del 1978, da anni introvabile e a breve riedito da Feltrinelli, storia di cinque generazioni di anarchici.

 «Ti ricordi com’era bella l’Italia?».


 Forse bisognerebbe partire proprio da qui, da questo interrogativo che fa male.

 Ma Antonio Tabucchi, al telefono dalla sua casa portoghese sull’Oceano, cambia subito le carte in tavola.

«Partirei dalla parola “disincanto”, dalla sua etimologia. Come tutti i regressivi, indica la mancanza o la perdita di qualcosa. Se dispiacere è perdita di piacere, disincanto è perdita di incanto…».

 

 Mi sta dicendo che dovremmo prima stabilire se l’incanto è di per sé positivo?

 «Proprio così. Vede? Se partiamo dall’idea che l’Italia, o meglio, la maggioranza degli italiani è rimasta per troppi anni letteralmente “incantata” da un signore chiamato Silvio Berlusconi, va da sé la necessità che l’incanto o incantesimo si dissolva.

Quanto al rischio di malumori diffusi che diventano cinismo, indifferenza, rassegnazione, si possono spiegare con una sensazione a volte legittima di impotenza. La sensazione che non c’è niente da fare, che il potere non è nelle nostre mani. Non viene forse da questo stato d’animo personale e collettivo l’indifferenza al centro del romanzo con cui, nel 1929, esordì Alberto Moravia?

 Nella vita civile e politica, la freccia che dà la direzione al disincanto non dipende solo dai disincantati, ma anche da chi li rappresenta.

 Vuole un esempio concreto?».

 Prego.

«Prenda le migliaia di giovani che nel luglio del 2001 hanno affollato Genova per manifestare contro il capitalismo impazzito, lasciato a briglie sciolte: quei giovani non erano rassegnati. Protestavano contro una forma selvaggia di depredazione della società, difendevano un’alternativa. Se però dieci anni dopo si accorgono che chi li ha pestati a sangue è stato promosso, ha fatto “carriera”, è naturale che il disincanto possa schiacciarli. Ma la colpa non è loro: è dei massacratori e di chi li ha promossi. Ho scritto anni fa che se essere italiani significa digerire la notizia che a Genova ad uccidere Carlo Giuliani sia stato un calcinaccio, dismetto volentieri questa italianità.

 Sulle vicende di quell’estate di dieci anni fa c’è un libro molto bello di Roberto Ferrucci, intitolato Cosa cambia. Manca il punto interrogativo, e questo non è un dettaglio trascurabile: lo scrittore dà l’allarme, denuncia, ma è come se dicesse: non facciamoci più domande, tanto…».

 

 Eppure proprio negli ultimi mesi l’impressione diffusa è stata di un imminente cambiamento, di chiusura di una lunga stagione politica.

 

«Le crepe che ormai mostra questa sorta di regime sono grosse, profonde. Ma il fatto che un regime crolli, non comporta di per sé un cambiamento.

 Cosa viene dopo non lo so e non riesco a sbilanciarmi su previsioni ottimistiche. Faccio un esempio: la grave e dibattuta questione del conflitto di interessi non è stata risolta ovviamente dal governo in carica, ma nemmeno dal precedente governo di centrosinistra.

 Dalla fine di una stagione politica può derivarne un’altra simile, in cui restano intatti i vizi di fondo. Se il terreno resta marcio, se non lo si cura in modo radicale, le fondamenta su cui si costruisce qualcosa di buono sono sempre in pericolo».

 
Da diversi anni, lei vive a lungo lontano dall’Italia. A proposito del tema da cui siamo partiti, nei suoi soggiorni recenti quali umori ha registrato intorno a sé?

 
 «Sicuramente scetticismo, perplessità. Rassegnazione, no. Quando vedo una popolazione battagliera che resiste al perforamento di una montagna spacciato come progresso e modernità, so con certezza che non è rassegnata. Gli italiani non sono arresi: basterebbe dargli un fiammifero perché diventi una torcia. L’accento lo sposterei piuttosto sulla classe dirigente. Quali sono i valori, gli ideali che essa rappresenta?

 Lei riesce a distinguerli? E mi domando ancora: questa classe dirigente ha una percezione della realtà, un contatto con la realtà concreta, tale che la renda in grado di costituire una guida per i cittadini? Il rischio è di scaricare su quella che viene chiamata “la gente” una responsabilità che forse non ha, o non del tutto. È facile cadere in un qualunquismo all’incontrario che vorrebbe gli italiani tutti cialtroni, disonesti, indifferenti, ma sarebbe preoccupante e ingiusto, come qualunque giudizio sommario su un popolo intero».

 

 La letteratura, l’arte in genere possono essere un buon antidoto al disincanto?



 «Sono convinto che, nonostante la stagione di crisi politica ed economica, la produzione artistica italiana degli ultimi anni – letteraria, cinematografica – sia di ottima qualità, e che non sfiguri al confronto con quella di altri paesi europei. Anzi. Quanto poi questa qualità artistica possa avere influenza su una situazione difficile dal punto di vista civile e morale, non so. Gli artisti sono sempre piccoli David di fronte a un enorme Golia. Non sono loro a far cadere i regimi, ma vivendo nell’Attuale, nel loro tempo, nel loro “ora”, se non altro ne osservano le storture; se non altro, tentano di capire il perché e il quando delle cose, di ciò che non va. E capire è già molto.

 Con un cerino gli artisti illuminano l’oscurità, in tempo per mostrare a chi abbia occhi quando il sentiero percorso è sull’orlo dell’abisso».
 

 

Fonte: Fonte: l’Unità, 19 agosto 2011
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