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Una vicenda tutta personale viene descritta in questo nuovo articolo di Franco Gabbani, una storia che ci offre un preciso quadro sulla leva per l'esercito di Napoleone, in grado di "vincere al solo apparire", ma che descrive anche le situazioni sociali del tempo e le scorciatoie per evitare ai rampolli di famiglie facoltose il grandissimo rischio di partire per la guerra, una delle tante. 

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per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Bagno degli Americani di Tirrenia
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Molina di Quosa, 8 luglio
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Casciana Terme Lari-Pontedera, 12 luglio-3 agosto
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San Giuliano Terme, 30 giugno
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Marina di Vecchiano -giovedi 4 luglio
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Alzarmi prestissimo al mattino
è un'adorabile scoperta senile
esco subito in giardino
e abbevero i fiori
Mi godo la piacevole
sensazione
del frescolino .....
Nel paese di Pontasserchio la circolazione è definita "centro abitato", quindi ci sono i 50km/ h max

Da dopo la Conad ci sono ancora i 50km/ h fino .....
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SETA di MARE

30/8/2011 - 19:52


 
Il BISSO

Il Lenormant, nei suoi volumi dedicati alla storia e al paesaggio della Magna Grecia, rileva che il Mar piccolo di Taranto è uno dei luoghi più pescosi del mondo, e che vi si contano fino a 93 specie differenti di pesci, che lo frequentano nelle diverse epoche dell’anno, soprattutto vi pullula la piccola fauna marina degli zoofiti, di crostacei e dei molluschi.


 [...]“tanto nell’antichità quanto ai nostri giorni, le peschiere del Mar piccolo formano uno dei grossi proventi dei tarantini, l’occupazione di una gran parte del popolo, una fra le principali fonti della ricchezza della città”[...].


Così scriveva il Lenormant, ma cosa era e da cosa proveniva questa ricchezza?

 

“...esse erano tali ben più allora che non oggi, giacché non solo i pesci costituivano un grande articolo di esportazione e i molluschi un nutrimento altamente apprezzato, ma l’antichità vi trovava materia per le due delle principali industrie di Taranto. Anzitutte la tintura in porpora delle lane,  a mezzo colore estratto da diverse specie di murici.

La porpora di Taranto, narra Plinio, era la più ricercata e costosa dopo quella di Tiro, il suo colore era più rosso di quel che fosse la porpora fenicia e in particolare modo di quella di Laconia, la più violetta di tutte. Inoltre la fabbricazione delle stoffe fatte con i filamenti, morbidi come seta, (il bisso n.d.r)  per mezzo dei quali la pinna marina s’attacca alle rocce.
Per l’industria delle mussole tarantine, rivali di quelle di Cos, con cui si facevano le vesti trasparenti “di aria tessuta”, che noi vediamo indossate dalle danzatrici delle pitture di Ercolano, per la fabbricazione di queste stoffe di gran pregio, alle quali si lasciava il colore naturale della seta o che venivan poi tinte con la porpora, numerosi operai lavoravano in Taranto greca e romana!”...


Si racconta che le danzatrici di quelle pitture di Ercolano, usassero delle vesti diafane dette “tarantinidie” dell’uso e dal lusso dei tarantini  ed Eliano loda l’onestà della moglie di Focione che portava la  veste del marito, non curando la “provocante” tarantina ed Eustarno soggiunge che siffatta veste era propria delle donne, per essere delicata e lasciva al par de’ tarantini inventori, già troppo dediti ad ogni sorta di piacere, tra le cui mollezze si nota ancor l’uso che tenevano di radersi tutti i peli del corpo.


Non è possibile indicare il momento in cui decaddero le due industrie tarantine, del bisso e della porpora. Si deduce che il tempo fosse quello dell’imperatore Giustiniano (sesto sec. d.c.) quando due audaci monaci persiani riuscirono a trafugare, nascoste nel cavo dei loro bastoni, alcune pianticelle di gelso e molte uova di baco da seta, recandole a Costantinopoli, donde si diffuse in tutto il mondo mediterraneo la cultura del baco e quindi l’industria della seta.
La seta è meno costosa del bisso, di qui una facile e vittoriosa concorrenza della seta sul bisso.
L’industria tarantina scomparve industrialmente, ma sopravvisse, lungo il corso dei secoli, come piccola industria, coltivata da artefici isolani, soprattutto donne con attitudini pie, nel silenzio dell’isolamento claustrale.
Nel secolo XVI due stupendi lavori di bisso pendevano dalla parete della cappella del S.S Sacramento della cattedrale di Taranto e nel 1771 risulta che il bisso grezzo si vendeva a 24 carlini la libbra (32, 60 lire al chilo).

Nel 1853 l’industria esisteva ancora e il bisso si lavorava anche a Lecce dove le donne lo filavano e lo pettinavano con delicati cardi e ne lavoravano a maglia calze, guanti e berretti.
Nel 1878 uno scrittore di storia tarantina deplora che l’industria fosse limitata alle sole religiose claustrali dei monasteri di Santa Chiara e San Giovanni.
Nel 1906 un altro scrittore affermava: “...qualche famiglia tarantina prepara ancora del bisso per qualche occasione”, infine, nel 1925, mons. Blandamura doveva lamentare che l’industria fosse morta del tutto e: “le ultime lavoratrici di bisso, ad una ad una, sono scomparse ai giorni nostri, portando seco, nel sepolcro, il segreto della lavorazione dello storico prodotto marino quel morbido pelame di quel lucido di oro bruciato che cangiasi ad ogni volta e rivolta di lume e di occhi


Ed ora qualche notizia sulla provenienza del bisso.
La pinna nobilis appartiene alla classe dei molluschi, è il più grosso bivalve dei nostri mari.
Essa è provvista di un ciuffo di filamenti serici, lungo da 10 a 20 cm. che servono all’animale per far aderire la sua conchiglia, infissa per un terzo della lunghezza nel fondo fangoso o arenoso del mare, ad altri corpi: tale ciuffo è detto bisso, o lanapinna o lanapesce.
La conchiglia, prodotta dalla secrezione del mantello che avvolge l’animale, è conica ed ha due valve uguali unite alla parte dorsale da un legamento di natura elastico-chitinosa. Tale legamento ha funzione antagonista a quello dei due muscoli adduttori e permette all’animale la divaricazione delle valve per poco più di un centimetro. Ogni valva arriva a misurare anche un metro d’altezza ed ha parete sottile fatta da 3 strati: uno esterno di natura cornea, uno medio formato da prismettini calcarei ed uno interno madreperlaceo.
Il piede, che nei molluschi bivalvi ha funzione ambulatoria, nella pinna è statico e alla base presenta una ghiandola, detta bissogena, da cui secerne una sostanza vischiosa: questa sostanza a poco a poco indurisce dando luogo ai filamenti serici molto resistenti e variamente lunghi a seconda dell’età dell’animale.


Nel 1928, anno in cui fu scritto questo articolo, otto barche tarantine pescavano complessivamente dalle 20.000 alle 30.000 pinne all’anno (!!!), solo ed esclusivamente a scopo alimentare da novembre a marzo.
Questa strana epoca di pesca deriva da un preciso ordine salutare; infatti essa viene (veniva) mangiata nei soli mesi invernali perché condita con olio, prezzemolo, cipolla, aglio, origano e pepe, tutti ingredienti di difficile digestione se mangiati d’estate (?).


Oggigiorno la pinna è specie protetta, a buon titolo, e se ne possono trovare piccolissimi esemplari, provenienti  dalle secche della Meloria, sulla spiaggia di Calambrone dopo le grandi mareggiate.


Dal mare croato ho “prelevato” una pinna strappata e rotta dall’ancora di una barca e dalla quale ho tolto "quel morbido pelame di quel lucido di oro bruciato che cangiasi ad ogni volta e rivolta di lume e di occhi”.


Ho rischiato, perché sarebbe stato difficile spiegare ad una guardia che non ero io “l’assassino”!

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31/8/2011 - 11:27

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Non trovavo più il libro dal quale avevo ricavato l'articolo del bisso, ma ora posso mostrarvi alcune vecchissime foto:
la barca è di pescatori di pinne,
l'attrezzo è quello usato per staccarle dal fondo,
una pinna in un parto di posidonie,
una scuola tarantina di allievi
lavoranti di bisso e un oggetto (una borsetta) lavorata "a pelliccia".
Sperando di far cosa gradita,
u.m.