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Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative. 

E non c'è da cambiare idea. Dopo aver sostenuto la .....
. . . sul Foglio.
Secondo me hai letto l'intervista .....
L'intervista a Piazza Pulita è di 7 mesi fa, le parole .....
Vedi l'intervista di Matteo Renzi 7 mesi fa da Formigli .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Arabia Saudita
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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Dalla pagina di Elena Giordano
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storie Vere :Matteo Grimaldi
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Indaco il colore del cielo
non parimenti dipinto
Sparsi qua e là
come ciuffi di velo
strani bioccoli di bambagia
che un delicato pennello
intinto .....
tutta la zona:
piscina ex albergo
tutto in stato di abbandono

zona SAN GIULIANO TERME
vergogna
Le argomentazioni di Alessio Niccolai
Stay hungry, stay foolish!

9/10/2011 - 21:51

Stay hungry, stay foolish!
 
Avevo previsto che il mio post «stay hungry, stay foolish» proteso a commemorare le gesta di Steve Jobs, avrebbe indotto qualcuno a insinuare il sospetto, a rielaborare secondo una propria distorta percezione della realtà l’idea, a fomentare meschinamente il pregiudizio che tanta e cotale ammirazione per il visionario fondatore di Apple sia contraddittoria, incongruente e inconciliabile con le inclinazioni politico-filosofiche tanto spesso manifestate e dibattute.
Avevo previsto, nondimeno, che qualcuno si sarebbe lasciato orgogliosamente andare, formato al demagogico insegnamento della più iperbolica grettezza, della più insaziabile ablezione e della più irriducibile spossatezza intellettiva, ad un impietoso quanto insensato e caricaturale paragone tra Steve Jobs e Ingvar Kamprad, o a spingersi oltre in un inveterato raffronto fra il paradigma stesso dell’innovazione, Apple, e quello della mediocrità e del «non-c’è-mai-fina-al-peggio», rappresentato da Ikea.
Avevo avuto sentore persino che ad esprimere cotanta abulica insensatezza, cotanto sprezzo per il buon senso e per la conoscenza e cotanta deforme e faziosa inconsistenza, potesse essere il solito «Cittadino» - mi auguro sentitamente - «come Punti», anziché «come Pochi», il postulante che con il minore ritegno e con la massima disinvoltura si è votato con partecipe e quasi religiosa devozione alla manifestazione della più spregiudicata bassezza, alla rappresentazione puntuale di tutti i più infimi istinti umani, alla raffigurazione integrale - seppur caricaturale - di quanto di più meschino e retrivo possa insorgere dall’animo di una psiche contorta e corrotta.
Ciò che invece non sarei mai riuscito a prevedere è che questo abnorme coacervo di pessime inclinazioni, questo turpe e deforme - ancorché puntualissimo - modo di rielaborare informazioni molto spesso incomplete, faziose, edulcorate o addomesticate a mestiere, questa relativa scarsità di dati a suffragio delle proprie opinioni congiuntamente ad una «visione di complesso» frammentaria e molto spesso fondata sul «sentito dire» potesse essere frutto di una regressione al non atipico manicheismo adolescenziale in ragione del quale qualunque cosa possa piacere ad un presunto avversario-competitor, sia esso l’inopportuno contendente della «ragazzina della 2a C», sia il fiero e contrapposto tifoso calcistico, sia l’acceso e piccolo leader politico che ipnotizza le assemblee studentesche fino a indurle alla mobilitazione e all’interruzione del regolare andamento scolastico, non può in alcun modo e per alcun motivo essere condivisa, in una specie di grottesco ribaltamento di tutto lo scibile umano, di qualunque prospettiva o tema di discussione.
«Pensare differente» è decisamente un’altra cosa ma, per appagare l’insaziabile sete di sconfitta intellettiva della psiche del «Cittadino come Pochi», voglio spingermi a suggerirgli che, oltre ad essere dichiaratamente Marxista, e apertamente affetto da Apple-filia, il sottoscritto è anche accanito tifoso della AS Roma, tiepidamente seguace della McLaren per quel poco che si interessa di Formula 1, in tutte le competizioni sportive avversa la nazionale italiana - a meno che il suo avversario non sia Israele, la Polonia, gli USA o la Gran Bretagna - adora l’Irlanda e la Scozia, ama il Latino, il Francese e - quando può - tenta di addomesticare il Greco, il Russo ed il Gaelico, ancorché siano lingue estremamente ostiche da apprendere, mentre non sopporta l’Inglese, ama il Rock Progressive, la Musica Colta, la Musica Classica ed il Poema Sinfonico, mentre non tollera il Blues, il Jazz e Giuseppe Verdi, beve il caffè amaro, prediligendo la prevalenza di Arabica, adora il Fragolino, l’Albana, i vini piemontesi, la Birra Guinness ed il Jameson le due o tre volte l’anno che mette in bocca qualche modesta quantità di alcolici e abolirebbe seduta stante il ciclismo sportivo... così «Cittadino come Pochi» - guidato dalla propria curiosa affezione psichica - saprà da cosa ragionevolmente guardarsi!
Ma per tornare prepotentemente all’oggetto del mio post e sgomberare il campo dalle inconsistenti ed insinuatorie storture e difformità che si accompagnano metodicamente alle frenetiche e ingiuriose invettive di «Cittadino come Pochi», sempre proteso a scagliare i propri velenosi dardi inconsapevolmente contro sé stesso, ma pericolosamente verso il nulla, tipica ed irrefrenabile fonte di attrazione per gli stolti, Steve Jobs rientra a pieno titolo in quell’iconografia a lui scomoda, da stigmatizzare, comprimere, delegittimare e disconoscere laddove sia possibile, da neutralizzare, rendere massimamente inoffensiva, edulcorare, debilitare e parodiare quando non lo sia, perché rappresentativa di idee, moti dell’anima, modelli di sviluppo e tematiche che al proprio gretto opportunismo non è consentito confutare teoreticamente, complice il preconcetto, l’ignoranza, la scarsa lungimiranza, l’avidità, l’ingordigia e lo sprezzo per l’interesse di tutti.
Steve Jobs lascerà un vuoto incolmabile, al pari di ogni altro essere umano, nella vita della sua compagna Laurene Powell, suo principale mentore e ispiratore, dei loro tre figli e della figlia Lisa Brennan-Jobs, messa alla luce con la pittrice Chris-Ann Brennan e riconosciuta tardivamente, ne lascerà uno ai vertici di un’azienda che si è nutrita della sua follia, della sua lisergica creatività, della propria perfetta sintesi fra arte e prodigio ingegneristico, della sua inesauribile vena onirica, a partire da quell’angusto garage di Palo Alto fino alla magniloquente possanza dell’insediamento di Cupertino, ne’ lascerà uno - e questo non è per niente comune - nella iCommunity, fatta di tanti affezionati e veterani Mac-User e di tanti nuovi scoppiettanti cultori dell’«iCoso», che avvertiranno la mancanza di chi ha permesso loro di liberare tutta la propria creatività attraverso macchine e software nati per essere i migliori, i più belli, i più efficienti, i più sicuri, i più produttivi, i più «vivi», di affrancarli dal giogo delle major discografiche e della grande editoria multi-nazionale attraverso meccanismi distributivi accessibili come iTunes Music Store, etc. e, ne lascerà uno anche presso i suoi principali antagonisti e competitor, come il vecchio amico-nemico Bill Gates o come gli anonimi e tracotanti abitanti della Silicon Valley asiatica, presso le stesse major discografiche, televisive e cinematografiche - prima fra tutte la «sua» Disney Corporation - cui ha impunemente sottratto il monopolio di un mercato, presso i vertici di aziende planetarie dai rapporti alterni con Apple, come Google o Facebook, presso la comunità Open Source che non ha mai smesso di sostenere economicamente e dalla quale ha tratto le migliori risorse intellettive per lo sviluppo delle proprie piattaforme, e presso tanta altra gente comune non in possesso di nessun iCoso, magari partecipe marginalmente di uno straordinario progetto per aver installato iTunes o Safari sul proprio PC Windows.
Ma Steve, a dispetto dei cinque sovracitati vuoti che lascerà, ne colmerà uno nella storia, collocandosi di diritto nell’olimpo iconografico - quello stesso di cui fanno parte anche Che Guevara o John Lennon - e costituendosi personaggio degno di onori e attenzioni, di prestigio che alla memoria storica americana mancano dalla scomparsa di Toro Seduto, Geronimo Cocis e Nuvola Rossa.
Non abbiamo a che fare con l’inetto giusnaturalista estensore della Dichiarazione di Indipendenza Americana, atto che sancisce la fine dell’ottuso e retrivo dominio inglese sulle terre d’Oltreoceano e l’inizio della barbarie sanguinaria, tracotante, sfrontata e ingerente degli Stati Uniti, non con l’ennesimo Presidentuccio che faccia bella mostra di sé scatenando tutta la potenza di fuoco dell’aviazione Yankee su questi o questi altri regione e relativo popolo del Mondo, ma con un sognatore, un pensatore e un comunicatore che ha fatto della propria follia visionaria un credo e un invito al mondo a «pensare differente».
Chi affilia lo Steve Jobs business-man al classico stereotipo bocconiano, chi lo avverte come l’adespoto magnate del petrolio, delle assicurazioni o del sistema finanziario e bancario, o come l’impenitente speculatore di borsa, o l’insipido immobiliarista, si sbaglia di grosso: Steve è stato fondamentalmente un umanista, un impavido sognatore capace di conferire progettualità e forma concreta alla propria dimensione onirica, un inguaribile hippy che, nato e vissuto nell’American Dream of Life, non avrebbe potuto concorrere all’emancipazione dell’umanità in altro modo se non quello con cui l’ha fatto, da imprenditore accorto, avveduto e sensibile ad ogni sollecitazione dall’esterno, e non da insipido uomo d’affari immerso nella sua gretta contabilità senza alcun principio illuminante, senza alcun sogno da perseguire e senza alcuna motivazione filosofica e letteraria da rincorrere.
Niente a che vedere - neanche lontanamente con Ingvar Kamprad - mercante di fumo, freddo calcolatore fin dai suoi albori, padre di un core-business diametralmente opposto a quello di Apple, e sì, come sostenuto dal sottoscritto tempo fa e, più recentemente dal buon scalpitante Dylan Dog, Nazista di nome e di fatto, visti i suoi trascorsi negli Engdahl’s Pro-Nazi dal 1942 al 1945, e la sua militanza in Nysvenska - formazione apertamente neo-nazista - a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Steve Jobs era un Democratico americano, Buddhista e vegano, non certamente un Comunista e sicuramente, non è stato neanche un uomo o imprenditore irreprensibile: lo testimonia il riconoscimento tardivo della figlia Lisa, caldeggiato dall’impegnatissima moglie Laurene, senza bisogno di scomodare lo sfruttamento del lavoro sottopagato in Cina.
La sostanziale differenza con Ikea è che un Mac o un qualunque altro iCoso non nasce per essere buttato quanto prima, come invece le anonime creazioni del McDonald del mobilio: i prodotti Apple rappresentano l’High Quality, il non-plus-ultra, il meglio del meglio, la loro durevolezza non necessita di certificazione, tante e diffuse sono le testimonianze degli utenti in tale direzione, la loro produttività e la loro contenutissima curva di apprendimento, incorniciate da un design superlativo, e l’architettura di prim’ordine sono la ragione per cui, con cadenza pressoché annuale, una moltitudine di Mac-user rinnovano il loro parco-macchine, non perché si siano disaffezionati a ciò di cui sono in possesso, ma per i nuovi scenari, le nuove prospettive e potenzialità che la generazione successiva di macchine è in grado di spalancare; l’attaccamento a questi prodotti non è insolitamente morboso, quasi feticistico e, difficilmente chi ne è in possesso se ne separa - quand’anche sia nella condizione di doverlo cambiare con uno di nuova generazione - finché non abbia la certezza di ricollocarlo in mani altrettanto premurose e accorte.
Ciò cambia le carte in tavola? No, Apple, come qualunque altra azienda ha la prerogativa di dover produrre profitto e, in quanto tale, il suo fondatore non gode del privilegio di essere (stato) migliore o peggiore di altri imprenditori: è la sua parabola umana che ne ha fatto qualcosa di straordinariamente anomalo, la sua capacità di dare ascolto anche alle critiche più decise - come quelle reiterate di Green Peace - per cercare di far tornare la quadra del cerchio; Steve Jobs ha sempre saputo che l’unica strada perseguibile come CEO di Apple sarebbe stata inevitabilmente quella di estendere la propria follia visionaria a quante più persone gli fosse stato possibile, indurle a «pensare differente» ed è per questo che non ha mai esitato a «guidare con l’esempio» mettendosi in discussione costantemente; i dipendenti Apple non hanno mai lamentato trattamenti economici di second’ordine, anzi, non hanno mai fatto mistero di essere i meglio pagati del settore; casomai hanno sofferto quella componente del marketing, che, non ci dimentichiamo, non è fatto soltanto della tagliente e abrasiva dialettica di Steve e delle sue straordinarie doti di comunicatore, ma anche e soprattutto dell’effetto sorpresa ingenerato dalla dimensione della forbice tra il rumor di turno intorno alle novità introdotte con l’«ultima uscita» e quelle effettivamente riscontrate all’atto della presentazione.
La scelta del segmento High Quality ingenera investimento in ricerca senza soluzione di continuità e fabbisogno di grandi competenze, di grandi ed eclettiche menti che si ripercuote positivamente finanche sul più basso livello produttivo, quello cioè della manodopera cinese che, per quanto indiscutibilmente sottopagata, è comunque la meglio retribuita del comparto.
Va inoltre ricordato che Apple non controlla «politicamente» la produzione: il core-business della IT House di Steve Jobs è il progetto, il prototipo, non generalmente l’assemblamento di componenti; Apple estende le proprie commesse a industrie elettroniche (ma non solo) che vivrebbero comunque senza la sua presenza (altra sostanziale differenza con Ikea) e commercializza i propri prodotti finiti secondo un modello che non ha repliche e/o precedenti nel mondo.
E per finire, il benedetto Campus Apple di Cupertino, 280 acri (circa 13 Ettari) all’angolo della Interstate 280: stiamo parlando di un Paese - gli USA - di quasi 9 milioni e 400.000 Km2, con una popolazione di quasi 310 milioni di abitanti per una densità di circa 34 abitanti per Km2, con aree super-popolate ed una distesa sconfinata di terre «quasi» disabitate, in cui la struttura in questione rappresenta lo 0,0000000138% del territorio americano; l’Italia ha invece una superficie di poco più di 300.000 Km2, una popolazione di quasi 61 milioni di abitanti con una densità di oltre 200 abitanti per Km2, una configurazione geo-fisica decisamente più frastagliata, impegnativa e, talvolta impervia degli USA: il progetto Ikea sull’Ovaio avrebbe avuto un impatto sull’intero territorio italiano dello 0,0000017588%, ovvero qualcosa come circa 127,5 volte quello che il Campus Apple ha su quello americano.
Dovrebbe essere in questo modo che si leggono i dati e se ne riproducono rielaborazioni e sintesi se si vuole evitare che si ritorcano contro la propria opinione, trasformando un’ipotesi in un’abietta congettura.
Detto questo, raccomando al «Cittadino come Pochi» di lasciarsi nutrire con maggior distesa convinzione dalla curiosità, anziché dal proprio agonizzante, recalcitrante e intontito modo di procedere e di relazionarsi alle cose del mondo, non per addomesticare la storia, non per ergersi al di sopra di essa, ma per evitare di fare la consueta figura barbina da anti-Comunista da fiera per vocazione, innalzando a proprio vessillo - come del resto fu a suo tempo in nome di una spregevole avversione per il Bolscevismo, per l’ex-piccolo fiammiferaio di Ljungby, padre di mobili alla formaldeide, uno uguale all’altro, figlio di una macchinazione della mente e di uno scempio intellettivo che ha uguali e precedenti solo nel McDonald - qualunque bandiera - liberal o neo-fascista che sia -, che inneggi al capitalismo più barbaro, speculativo, non-meritocratico e figlio del clientelismo e della malversazione più diffuse e italiane.
Steve Jobs ha creato i contenitori che - quasi a volersi far beffa della morte - hanno dato notizia della sua dipartita in tempo reale, in un necrologio affettuoso, premuroso e capace di sintetizzare in una foto in bianco e nero e due date la straordinaria, incomparabile grandezza della persona di cui ha comunicato la scomparsa: e il mito si è istantaneamente mutato in leggenda con la complicità di quegli strumenti che con grande compostezza e dignità hanno portato seco e continueranno a portare la fiammella di vita accesa dal loro creatore, emulo della parabola cinematografica de Il Tagliaerbe di Brett Leonard del 1992.
Tutto questo è straordinario, incredibile e non ha niente in comune la declinazione più in voga del concetto di imprenditore o impresa: il garage di Steve Jobs non il luogo in cui il titolare di un’anonima agenzia di assicurazioni o immobiliare parcheggia ogni sera la propria automobile, dopo aver inconsapevolmente lavorato al servizio (o più precisamente come «dipendente») di una perversa e clientelare dialettica tra leggi dello stato e l’abulica impresa privata, non è il luogo in cui il dozzinale impresario edile parcheggia gli strumenti di lavoro attraverso cui succhierà il sangue dei propri malcapitati clienti, ma il luogo in cui sono stati coltivati sogni; ciò rende Steve «uno di noi», cioè un artista, un artigiano, un creativo e non una vetusta palandrana inneggiante alle tipiche parole d’ordine della Bocconi o de Il Sole 24 Ore, non un «concreto» ometto d’affari, figlio dell’ordinario e della consuetudine, ma qualcosa di leggendario.
Non si inizia a «pensare differente» quando si compra un Mac: si compra generalmente un Mac perché «si pensa differente», perché si è curiosi come i bambini, perché si ama la conoscenza, la crescita armoniosa, perché si prova un senso di umanità non comune, perché non si conosce il significato della parola «paura», specie se dell’«Altro», del «Diverso», dello «Strano», dello «Straniero».

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16/10/2011 - 18:20

AUTORE:
Osservatore 2

Non ho particolarmente amato il papa polacco, mi è sempre stata sui nervi Diana (bisognerebbe leggere qualcosa su di lei che non sia nei giornaletti di gossip) e non ho mai conosciuto Steve Job se non quamdo ha presentato qualcosa in TV e non conosco particolarmente la Apple.
E vivo bene ugualmente guardando, scrivendo, leggendo, informandomi e domandandomi anche se tutta questa tecnologia hig quality a portata di borsa dei ragazzi e ragazzini sia un miglioramneto della loro vita.
Forse può essere utile per lavoro e ricerca ma quando vedo ragazzini in momenti di attesa che non alzano lo sguardo dal proprio gingillino elettronico e ripondono irritati al richiamo dei genitori ignorando chi li circonda mi domando quanta colpa di questo isolamento debba essere attribuito a questo "santone" della tecnologia.
Forse anche la tecnologia andrebbe presa come le medicine, in piccole e giuste dosi.

13/10/2011 - 13:16

AUTORE:
Alessio Niccolai

Non c'è ragionevolmente multinazionale su questo pianeta che - direttamente o indirettamente - non sfrutti la manodopera a basso costo di qualche Paese terzo; tuttavia, va considerato anche il rovescio della medaglia, ovvero quale impatto una produzione può ingenerare sui consumi nell'opulento (si fa per dire!) Occidente: i prodotti Apple, in virtù non delle straordinarie ed indiscutibili qualità creativo-ingegneristiche di Steve Wozniac, padre di tutti i più spregiudicati e lisergici avanzamenti Apple nel campo dell'IT, ma della visione globale di Steve Jobs, della sua capacità di progettare non tanto la macchina in sé, ma tutto ciò che le deve stare intorno e che deve concorrere a farla essere la migliore del suo segmento, hanno un influsso differente da una serie di altri prodotti analoghi, ma appartenenti alle fasce Middle o Low Quality, o addirittura Disposable.
Il valore d'uso di una merce, in senso più marxiano del termine, può essere determinato oggi da una serie di fattori concomitanti, tra cui - non ultimo - la sua durata e attualità nel tempo, e alla sua complessa e vettoriale consistenza può essere ricondotta ad una fascia di mercato.
Quella di Apple è indiscutibilmente ascritta all'High Quality: i prodotti Apple diventano obsoleti soltanto nel confronto con le rispettive generazioni di altri prodotti Apple, rimanendo per molti anni più evoluti e avanzati di tutti i corrispettivi, analoghi o equivalenti di concorrenza; l'impatto sui consumi di questi prodotti è dunque decisamente diverso da altri e capace di non alimentare circuiti poco virtuosi, come ad esempio quelli della GDO, cui Cupertino ha affidato commercialmente soltanto il settore customer del proprio catalogo e alle stesse condizioni di un qualunque Apple Store.
La fonte di approvvigionamento di componenti è per Apple la stessa di tanti altri suoi competitor, ma l'impatto dei suoi prodotti è decisamente diverso, perché non alimentano il ciclo dei consumi irrefrenabili ed indiscriminati, ma lo circoscrivono in maniera epocale: è questo il grande merito di Apple - dunque di Steve Jobs - e non certo quello di dover produrre profitto al pari di ogni altra impresa.
Intendo dire che alla fine, a parità di «sfruttamento» rispetto ad altre imprese multinazionali, Apple ha il pregio di ingenerare effetti positivi sul mercato e opportunità per una moltitudine di persone, tra cui anche artisti e creativi che altrimenti non avrebbero avuto gioco di emergere; questo non significa che il suo core-business sia etico o chissà quale altra cosa: Jobs ha dovuto rendere conto ad esempio a Green Peace, certamente per calcolo e strategia aziendale, laddove i suoi competitor non l'hanno degnata della minima attenzione.
La cosa ha in qualche modo un suo valore, o no?

12/10/2011 - 23:05

AUTORE:
Francis

C'è da dire che la Apple, come ogni altra multinazionale capitalistica, sfrutta il lavoro sottopagato.
Difatti, molti componenti hardware vengono prodotti in Cina dalla Foxconn (che produce anche per nokia e sony), azienda tristemente nota per l'elevatissimo tasso di suicidi da parte di operai per le condizioni disumane di lavoro.

Sui suicidi http://www.repubblica.it/esteri/2010/05/19/news/suicidi_nella_fabbrica_dell_ipad_il_mistero_cinese_della_foxconn-4197947/

sulla Foxconn
http://it.wikipedia.org/wiki/Foxconn

12/10/2011 - 20:02

AUTORE:
Piero Chicca

Se come dice (anche) Alessio, la Storia ha bisogno di tempo, allora bisogna aspettare. Sul filo dell'emozione i giudizi e le opinioni possono contenere errori e sviare la ragione. La passione è importante, ma può confondere. 17217 caratteri per 2591 parole, compresi 170 fra aggettivi e avverbi, possono essere troppi anche per l'emozione.
“Fare centodue”, lasciar passare un po' di tempo e ascoltare altre voci può servire a cogliere altre opinioni senza per questo dover cambiare la propria.

Ecco intanto due altre opinioni, che non vogliono aprire nessuna discussione, valgono solo a titolo di notizia.

"STEVE JOBS SANTO SUBITO?

Perché non farlo santo subito? I peana che hanno accompagnato la morte del guru della Apple, Steve Jobs, surclassano di gran lunga quelli che hanno salutato la dipartita di altri personaggi illustri negli ultimi decenni, con due sole eccezioni: le celebrazioni della fine di Diana d’Inghilterra e di papa Giovanni Paolo secondo.
Perché queste nuvole di incenso (un genio paragonabile a Leonardo, l’uomo che ha cambiato le nostre vite, l’ingegnere dei sogni e via di questo passo)? Perché quasi nessuno parla (e quando se ne parla lo si è fa in sordina, quasi vergognandosi di uscire dal coro) delle decine di operai della Foxconn che si sono suicidati per le spaventose condizioni di lavoro e di vita che hanno dovuto subire per rispettare gli obiettivi imposti dalla Apple ai propri subfornitori, dei danni ambientali provocati da questa impresa campione di stile ed eleganza, del fatto che il genio di Jobs non è stato certo quello dell’innovazione tecnologica (riconoscimento che spetterebbe piuttosto al suo ormai dimenticato socio, nonché cofondatore di Apple, Steve Wozniak), ma semmai quello di un abilissimo venditore e di uno spietato capitalista che ha retto con pugno di ferro il suo impero (“virtù” che condivide con personaggi quali Zuckerberg e Jeff Bezos)?
È successo perché Jobs rappresenta un simbolo, l’incarnazione vivente dello zeitgeist di un’epoca che sceglie i propri eroi fra i personaggi di successo (a prescindere da come questo sia stato ottenuto), fra i protagonisti di un turbocapitalismo fatto di finanza e tecnologie digitali che ha certamente cambiato le nostre vite, ma per la maggioranza le ha cambiate in peggio, visto che ha provocato crisi in cui ci dibattiamo dall’inizio del secolo, di un’era che ha addormentato le coscienze di cittadini e lavoratori trasformandoli in consumatori (o meglio, in prosumer che lavorano gratuitamente per le imprese ICT e dot.com, come le masse dei fan del marchio Apple iTunes ai quali è dovuta una considerevole percentuale del valore generato dall’industria di Cupertino).
Si adora Jobs in quanto consumatori, perché i suoi prodotti funzionano e hanno un design straordinario, perché rendono la vita comoda (a chi può permettersi i loro prezzi esorbitanti), allo stesso modo in cui si adora (chi ancora lo adora) Berlusconi perché si consumano le sue tv. Paragone irriverente? Irrispettoso accostamento fra un vero, grande innovatore e un guitto di provincia? Forse, ma non va dimenticato che entrambi sono stati a loro modo rivoluzionari e innovatori, e che innovazione è la parola magica con cui vengono legittimate le peggiori malefatte della cultura liberal liberista.
Sui media americani leggo che, finora, il contributo degli Afroamericani e dei Latinos al movimento Occupy Wall Street (l’unica vera, grande novità delle ultime settimane, quella di un popolo che si sta svegliando e comincia a ribellarsi contro chi lo sta riducendo in miseria), mentre tutti insistono sul fatto che i ribelli impugnano come armi gli ultimi ritrovati della tecnologia digitale (fra cui, si presume, molti portano il marchio Apple, prediletto dalla sinistra “creativa”).
C’è da sperare che ne facciano buon uso, senza indulgere nel culto del “divo” Jobs, e che trovino il modo di unirsi alle moltitudini che non possono permettersi tecnologie modaiole".

"STEVE JOBS E EDISON, DIVERGENZE PARALLELE.

«Ha reso questo mondo un posto migliore in cui vivere e ha portato quelli che una volta erano considerati lussi nella vita dei lavoratori. Nessuno nella lunga lista di coloro che hanno beneficiato l'umanità ha fatto di più per rendere l'esistenza facile e comoda». Non è Steve Jobs di cui si parla, bensì Thomas Alva Edison, e queste frasi non sono state scritte l'altroieri, ma ottant'anni fa, esattamente il 18 ottobre 1931 nell'elogio funebre a firma di Bruce Rae che ne pubblicò allora il «New York Times», intitolato Il mondo reso migliore dalla magia di Edison (Fece più di ogni altro per immettere i lussi nelle vite delle masse).
È interessante paragonare le due retoriche che corrispondono non solo a due generi diversi di innovazione tecnologica, ma anche a due stadi differenti della civiltà dei mass-media per due innovatori/capitalisti, cioè per imprenditori che personificano ambedue l'idea del prometeico industriale schumpeteriano, ma in modo totalmente divergente. Certo, una differenza decisiva, che spiega almeno in parte i toni diversi, è che Edison (1847-1931) morì dopo una lunga vita e molti anni dopo che le sue invenzioni erano state rese invisibili dall'abitudine, mentre Steve Jobs è morto relativamente giovane (56 anni) dopo una lunga, pubblica battaglia con un tumore la pancreas, quando le sue innovazioni furoreggiano ancora per la loro «novità».
Ma non è solo per l'età avanzata che negli obituaries di Edison manca la lacrimosità versata invece in abbondanza (e in misura assolutamente bipartisan, da destra e da sinistra) per Steve Jobs, un commuoversi a buon mercato che ricorda altre ondate di (effimeri) struggimenti, quale quello per Lady Diana, e che quindi corrisponde a una figura nuova per i capitalisti o per gli industriali, quella del «divo». Né Edison, né Henry Ford (altro grande innovatore) furono mai star: certo furono famosissimi al loro tempo, ma la natura della loro fama era molto lontana da quella di un divo appunto, assomigliava più a quella di un grande generale (uno Sheridan o un von Moltke) che a quella di un artista di successo.
In questo senso si può dire che il rituale funebre di Edison era tutto immerso nell'idea di progresso, quello di Jobs è invece il trionfo del capitalismo postmoderno (basato sull'eleganza, sull'essere accattivante, oltre che sulla praticità). Dipende in parte dalla natura delle innovazioni di Edison che furono anch'esse, come quelle di Jobs, in gran parte migliorie di invenzioni preesistenti: Edison non fabbricò la prima lampada elettrica a incandescenza, bensì la prima lampada a incandescenza commerciabile. In questo senso contribuì a quella vittoria sul terrore della notte e del buio che secondo Wolfgang Schivelbusch (Luce. Storia dell'illuminazione artificiale, Nuove Pratiche Editrice, 1994) caratterizza la fine del XIX secolo (Parigi, la ville lumière).
Ma il fonografo, quello sì che Edison lo inventò tutto lui. Scrive il «New York Times»: «E poi venne il fonografo - prima una novità, poi un genere di lusso, infine un oggetto comune. Portò le grandi arie dell'opera nei caseggiati popolari. La voce di Caruso s'innalzò per tibetani dalla faccia piatta nei villaggi delle colline del Darjeeling. I commercianti intuirono che grazie a esso africani ancora armati di lancia avevano la possibilità di ascoltare il jazz di Broadway... E tra cinquant'anni, la voce di Caruso e dei suoi contemporanei sarà ascoltata da coloro che non sono ancora nati». Le innovazioni di Edison sono, per così dire, a monte dell'estetica, generano le condizioni perché possa prodursi un'esperienza estetica (grazie non solo al fonografo, ma anche alla cinepresa), mentre quel che colpisce negli elogi funebri di Jobs è che se ne parla come di un Dior o di una Coco Chanel dell'informatica (l'ipod come l'equivalente di quel che fu l'introduzione del tailleur per l'eleganza delle donne), cioè che il suo capitalismo è tutto immerso nella dimensione estetica: anche in questo se ne può parlare come di un «capitalista postmoderno»; non che sfrutti di meno, anzi (come ricordava Benedetto Vecchi a proposito dei beni prodotti negli sweatshops asiatici), ma lo sfruttamento si integra nella cultura del gratuito da cui trae profitto.
L'ultima coincidenza a colpire è che ambedue le morti sono cadute in un periodo in cui la crisi economica non accenna a diminuire: Edison morì due anni dopo il martedì nero 29 ottobre 1929, mentre Jobs è morto a poco più di tre anni dal fallimento di Lehman Brothers (15 settembre 2008). Anche qui però la morte di Edison è intrisa di progresso («le sue invenzioni diedero lavoro - oltre che luce e divertimento - a milioni» poiché crearono dal nulla tutta l'industria elettrica); mentre nell'altra, di posti di lavoro c'è traccia solo nel nome jobs (che in inglese vuol dire «posti di lavoro») oppure in Cina e nel sudest asiatico".