Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Stay hungry, stay foolish!
Avevo previsto che il mio post «stay hungry, stay foolish» proteso a commemorare le gesta di Steve Jobs, avrebbe indotto qualcuno a insinuare il sospetto, a rielaborare secondo una propria distorta percezione della realtà l’idea, a fomentare meschinamente il pregiudizio che tanta e cotale ammirazione per il visionario fondatore di Apple sia contraddittoria, incongruente e inconciliabile con le inclinazioni politico-filosofiche tanto spesso manifestate e dibattute.
Avevo previsto, nondimeno, che qualcuno si sarebbe lasciato orgogliosamente andare, formato al demagogico insegnamento della più iperbolica grettezza, della più insaziabile ablezione e della più irriducibile spossatezza intellettiva, ad un impietoso quanto insensato e caricaturale paragone tra Steve Jobs e Ingvar Kamprad, o a spingersi oltre in un inveterato raffronto fra il paradigma stesso dell’innovazione, Apple, e quello della mediocrità e del «non-c’è-mai-fina-al-peggio», rappresentato da Ikea.
Avevo avuto sentore persino che ad esprimere cotanta abulica insensatezza, cotanto sprezzo per il buon senso e per la conoscenza e cotanta deforme e faziosa inconsistenza, potesse essere il solito «Cittadino» - mi auguro sentitamente - «come Punti», anziché «come Pochi», il postulante che con il minore ritegno e con la massima disinvoltura si è votato con partecipe e quasi religiosa devozione alla manifestazione della più spregiudicata bassezza, alla rappresentazione puntuale di tutti i più infimi istinti umani, alla raffigurazione integrale - seppur caricaturale - di quanto di più meschino e retrivo possa insorgere dall’animo di una psiche contorta e corrotta.
Ciò che invece non sarei mai riuscito a prevedere è che questo abnorme coacervo di pessime inclinazioni, questo turpe e deforme - ancorché puntualissimo - modo di rielaborare informazioni molto spesso incomplete, faziose, edulcorate o addomesticate a mestiere, questa relativa scarsità di dati a suffragio delle proprie opinioni congiuntamente ad una «visione di complesso» frammentaria e molto spesso fondata sul «sentito dire» potesse essere frutto di una regressione al non atipico manicheismo adolescenziale in ragione del quale qualunque cosa possa piacere ad un presunto avversario-competitor, sia esso l’inopportuno contendente della «ragazzina della 2a C», sia il fiero e contrapposto tifoso calcistico, sia l’acceso e piccolo leader politico che ipnotizza le assemblee studentesche fino a indurle alla mobilitazione e all’interruzione del regolare andamento scolastico, non può in alcun modo e per alcun motivo essere condivisa, in una specie di grottesco ribaltamento di tutto lo scibile umano, di qualunque prospettiva o tema di discussione.
«Pensare differente» è decisamente un’altra cosa ma, per appagare l’insaziabile sete di sconfitta intellettiva della psiche del «Cittadino come Pochi», voglio spingermi a suggerirgli che, oltre ad essere dichiaratamente Marxista, e apertamente affetto da Apple-filia, il sottoscritto è anche accanito tifoso della AS Roma, tiepidamente seguace della McLaren per quel poco che si interessa di Formula 1, in tutte le competizioni sportive avversa la nazionale italiana - a meno che il suo avversario non sia Israele, la Polonia, gli USA o la Gran Bretagna - adora l’Irlanda e la Scozia, ama il Latino, il Francese e - quando può - tenta di addomesticare il Greco, il Russo ed il Gaelico, ancorché siano lingue estremamente ostiche da apprendere, mentre non sopporta l’Inglese, ama il Rock Progressive, la Musica Colta, la Musica Classica ed il Poema Sinfonico, mentre non tollera il Blues, il Jazz e Giuseppe Verdi, beve il caffè amaro, prediligendo la prevalenza di Arabica, adora il Fragolino, l’Albana, i vini piemontesi, la Birra Guinness ed il Jameson le due o tre volte l’anno che mette in bocca qualche modesta quantità di alcolici e abolirebbe seduta stante il ciclismo sportivo... così «Cittadino come Pochi» - guidato dalla propria curiosa affezione psichica - saprà da cosa ragionevolmente guardarsi!
Ma per tornare prepotentemente all’oggetto del mio post e sgomberare il campo dalle inconsistenti ed insinuatorie storture e difformità che si accompagnano metodicamente alle frenetiche e ingiuriose invettive di «Cittadino come Pochi», sempre proteso a scagliare i propri velenosi dardi inconsapevolmente contro sé stesso, ma pericolosamente verso il nulla, tipica ed irrefrenabile fonte di attrazione per gli stolti, Steve Jobs rientra a pieno titolo in quell’iconografia a lui scomoda, da stigmatizzare, comprimere, delegittimare e disconoscere laddove sia possibile, da neutralizzare, rendere massimamente inoffensiva, edulcorare, debilitare e parodiare quando non lo sia, perché rappresentativa di idee, moti dell’anima, modelli di sviluppo e tematiche che al proprio gretto opportunismo non è consentito confutare teoreticamente, complice il preconcetto, l’ignoranza, la scarsa lungimiranza, l’avidità, l’ingordigia e lo sprezzo per l’interesse di tutti.
Steve Jobs lascerà un vuoto incolmabile, al pari di ogni altro essere umano, nella vita della sua compagna Laurene Powell, suo principale mentore e ispiratore, dei loro tre figli e della figlia Lisa Brennan-Jobs, messa alla luce con la pittrice Chris-Ann Brennan e riconosciuta tardivamente, ne lascerà uno ai vertici di un’azienda che si è nutrita della sua follia, della sua lisergica creatività, della propria perfetta sintesi fra arte e prodigio ingegneristico, della sua inesauribile vena onirica, a partire da quell’angusto garage di Palo Alto fino alla magniloquente possanza dell’insediamento di Cupertino, ne’ lascerà uno - e questo non è per niente comune - nella iCommunity, fatta di tanti affezionati e veterani Mac-User e di tanti nuovi scoppiettanti cultori dell’«iCoso», che avvertiranno la mancanza di chi ha permesso loro di liberare tutta la propria creatività attraverso macchine e software nati per essere i migliori, i più belli, i più efficienti, i più sicuri, i più produttivi, i più «vivi», di affrancarli dal giogo delle major discografiche e della grande editoria multi-nazionale attraverso meccanismi distributivi accessibili come iTunes Music Store, etc. e, ne lascerà uno anche presso i suoi principali antagonisti e competitor, come il vecchio amico-nemico Bill Gates o come gli anonimi e tracotanti abitanti della Silicon Valley asiatica, presso le stesse major discografiche, televisive e cinematografiche - prima fra tutte la «sua» Disney Corporation - cui ha impunemente sottratto il monopolio di un mercato, presso i vertici di aziende planetarie dai rapporti alterni con Apple, come Google o Facebook, presso la comunità Open Source che non ha mai smesso di sostenere economicamente e dalla quale ha tratto le migliori risorse intellettive per lo sviluppo delle proprie piattaforme, e presso tanta altra gente comune non in possesso di nessun iCoso, magari partecipe marginalmente di uno straordinario progetto per aver installato iTunes o Safari sul proprio PC Windows.
Ma Steve, a dispetto dei cinque sovracitati vuoti che lascerà, ne colmerà uno nella storia, collocandosi di diritto nell’olimpo iconografico - quello stesso di cui fanno parte anche Che Guevara o John Lennon - e costituendosi personaggio degno di onori e attenzioni, di prestigio che alla memoria storica americana mancano dalla scomparsa di Toro Seduto, Geronimo Cocis e Nuvola Rossa.
Non abbiamo a che fare con l’inetto giusnaturalista estensore della Dichiarazione di Indipendenza Americana, atto che sancisce la fine dell’ottuso e retrivo dominio inglese sulle terre d’Oltreoceano e l’inizio della barbarie sanguinaria, tracotante, sfrontata e ingerente degli Stati Uniti, non con l’ennesimo Presidentuccio che faccia bella mostra di sé scatenando tutta la potenza di fuoco dell’aviazione Yankee su questi o questi altri regione e relativo popolo del Mondo, ma con un sognatore, un pensatore e un comunicatore che ha fatto della propria follia visionaria un credo e un invito al mondo a «pensare differente».
Chi affilia lo Steve Jobs business-man al classico stereotipo bocconiano, chi lo avverte come l’adespoto magnate del petrolio, delle assicurazioni o del sistema finanziario e bancario, o come l’impenitente speculatore di borsa, o l’insipido immobiliarista, si sbaglia di grosso: Steve è stato fondamentalmente un umanista, un impavido sognatore capace di conferire progettualità e forma concreta alla propria dimensione onirica, un inguaribile hippy che, nato e vissuto nell’American Dream of Life, non avrebbe potuto concorrere all’emancipazione dell’umanità in altro modo se non quello con cui l’ha fatto, da imprenditore accorto, avveduto e sensibile ad ogni sollecitazione dall’esterno, e non da insipido uomo d’affari immerso nella sua gretta contabilità senza alcun principio illuminante, senza alcun sogno da perseguire e senza alcuna motivazione filosofica e letteraria da rincorrere.
Niente a che vedere - neanche lontanamente con Ingvar Kamprad - mercante di fumo, freddo calcolatore fin dai suoi albori, padre di un core-business diametralmente opposto a quello di Apple, e sì, come sostenuto dal sottoscritto tempo fa e, più recentemente dal buon scalpitante Dylan Dog, Nazista di nome e di fatto, visti i suoi trascorsi negli Engdahl’s Pro-Nazi dal 1942 al 1945, e la sua militanza in Nysvenska - formazione apertamente neo-nazista - a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Steve Jobs era un Democratico americano, Buddhista e vegano, non certamente un Comunista e sicuramente, non è stato neanche un uomo o imprenditore irreprensibile: lo testimonia il riconoscimento tardivo della figlia Lisa, caldeggiato dall’impegnatissima moglie Laurene, senza bisogno di scomodare lo sfruttamento del lavoro sottopagato in Cina.
La sostanziale differenza con Ikea è che un Mac o un qualunque altro iCoso non nasce per essere buttato quanto prima, come invece le anonime creazioni del McDonald del mobilio: i prodotti Apple rappresentano l’High Quality, il non-plus-ultra, il meglio del meglio, la loro durevolezza non necessita di certificazione, tante e diffuse sono le testimonianze degli utenti in tale direzione, la loro produttività e la loro contenutissima curva di apprendimento, incorniciate da un design superlativo, e l’architettura di prim’ordine sono la ragione per cui, con cadenza pressoché annuale, una moltitudine di Mac-user rinnovano il loro parco-macchine, non perché si siano disaffezionati a ciò di cui sono in possesso, ma per i nuovi scenari, le nuove prospettive e potenzialità che la generazione successiva di macchine è in grado di spalancare; l’attaccamento a questi prodotti non è insolitamente morboso, quasi feticistico e, difficilmente chi ne è in possesso se ne separa - quand’anche sia nella condizione di doverlo cambiare con uno di nuova generazione - finché non abbia la certezza di ricollocarlo in mani altrettanto premurose e accorte.
Ciò cambia le carte in tavola? No, Apple, come qualunque altra azienda ha la prerogativa di dover produrre profitto e, in quanto tale, il suo fondatore non gode del privilegio di essere (stato) migliore o peggiore di altri imprenditori: è la sua parabola umana che ne ha fatto qualcosa di straordinariamente anomalo, la sua capacità di dare ascolto anche alle critiche più decise - come quelle reiterate di Green Peace - per cercare di far tornare la quadra del cerchio; Steve Jobs ha sempre saputo che l’unica strada perseguibile come CEO di Apple sarebbe stata inevitabilmente quella di estendere la propria follia visionaria a quante più persone gli fosse stato possibile, indurle a «pensare differente» ed è per questo che non ha mai esitato a «guidare con l’esempio» mettendosi in discussione costantemente; i dipendenti Apple non hanno mai lamentato trattamenti economici di second’ordine, anzi, non hanno mai fatto mistero di essere i meglio pagati del settore; casomai hanno sofferto quella componente del marketing, che, non ci dimentichiamo, non è fatto soltanto della tagliente e abrasiva dialettica di Steve e delle sue straordinarie doti di comunicatore, ma anche e soprattutto dell’effetto sorpresa ingenerato dalla dimensione della forbice tra il rumor di turno intorno alle novità introdotte con l’«ultima uscita» e quelle effettivamente riscontrate all’atto della presentazione.
La scelta del segmento High Quality ingenera investimento in ricerca senza soluzione di continuità e fabbisogno di grandi competenze, di grandi ed eclettiche menti che si ripercuote positivamente finanche sul più basso livello produttivo, quello cioè della manodopera cinese che, per quanto indiscutibilmente sottopagata, è comunque la meglio retribuita del comparto.
Va inoltre ricordato che Apple non controlla «politicamente» la produzione: il core-business della IT House di Steve Jobs è il progetto, il prototipo, non generalmente l’assemblamento di componenti; Apple estende le proprie commesse a industrie elettroniche (ma non solo) che vivrebbero comunque senza la sua presenza (altra sostanziale differenza con Ikea) e commercializza i propri prodotti finiti secondo un modello che non ha repliche e/o precedenti nel mondo.
E per finire, il benedetto Campus Apple di Cupertino, 280 acri (circa 13 Ettari) all’angolo della Interstate 280: stiamo parlando di un Paese - gli USA - di quasi 9 milioni e 400.000 Km2, con una popolazione di quasi 310 milioni di abitanti per una densità di circa 34 abitanti per Km2, con aree super-popolate ed una distesa sconfinata di terre «quasi» disabitate, in cui la struttura in questione rappresenta lo 0,0000000138% del territorio americano; l’Italia ha invece una superficie di poco più di 300.000 Km2, una popolazione di quasi 61 milioni di abitanti con una densità di oltre 200 abitanti per Km2, una configurazione geo-fisica decisamente più frastagliata, impegnativa e, talvolta impervia degli USA: il progetto Ikea sull’Ovaio avrebbe avuto un impatto sull’intero territorio italiano dello 0,0000017588%, ovvero qualcosa come circa 127,5 volte quello che il Campus Apple ha su quello americano.
Dovrebbe essere in questo modo che si leggono i dati e se ne riproducono rielaborazioni e sintesi se si vuole evitare che si ritorcano contro la propria opinione, trasformando un’ipotesi in un’abietta congettura.
Detto questo, raccomando al «Cittadino come Pochi» di lasciarsi nutrire con maggior distesa convinzione dalla curiosità, anziché dal proprio agonizzante, recalcitrante e intontito modo di procedere e di relazionarsi alle cose del mondo, non per addomesticare la storia, non per ergersi al di sopra di essa, ma per evitare di fare la consueta figura barbina da anti-Comunista da fiera per vocazione, innalzando a proprio vessillo - come del resto fu a suo tempo in nome di una spregevole avversione per il Bolscevismo, per l’ex-piccolo fiammiferaio di Ljungby, padre di mobili alla formaldeide, uno uguale all’altro, figlio di una macchinazione della mente e di uno scempio intellettivo che ha uguali e precedenti solo nel McDonald - qualunque bandiera - liberal o neo-fascista che sia -, che inneggi al capitalismo più barbaro, speculativo, non-meritocratico e figlio del clientelismo e della malversazione più diffuse e italiane.
Steve Jobs ha creato i contenitori che - quasi a volersi far beffa della morte - hanno dato notizia della sua dipartita in tempo reale, in un necrologio affettuoso, premuroso e capace di sintetizzare in una foto in bianco e nero e due date la straordinaria, incomparabile grandezza della persona di cui ha comunicato la scomparsa: e il mito si è istantaneamente mutato in leggenda con la complicità di quegli strumenti che con grande compostezza e dignità hanno portato seco e continueranno a portare la fiammella di vita accesa dal loro creatore, emulo della parabola cinematografica de Il Tagliaerbe di Brett Leonard del 1992.
Tutto questo è straordinario, incredibile e non ha niente in comune la declinazione più in voga del concetto di imprenditore o impresa: il garage di Steve Jobs non il luogo in cui il titolare di un’anonima agenzia di assicurazioni o immobiliare parcheggia ogni sera la propria automobile, dopo aver inconsapevolmente lavorato al servizio (o più precisamente come «dipendente») di una perversa e clientelare dialettica tra leggi dello stato e l’abulica impresa privata, non è il luogo in cui il dozzinale impresario edile parcheggia gli strumenti di lavoro attraverso cui succhierà il sangue dei propri malcapitati clienti, ma il luogo in cui sono stati coltivati sogni; ciò rende Steve «uno di noi», cioè un artista, un artigiano, un creativo e non una vetusta palandrana inneggiante alle tipiche parole d’ordine della Bocconi o de Il Sole 24 Ore, non un «concreto» ometto d’affari, figlio dell’ordinario e della consuetudine, ma qualcosa di leggendario.
Non si inizia a «pensare differente» quando si compra un Mac: si compra generalmente un Mac perché «si pensa differente», perché si è curiosi come i bambini, perché si ama la conoscenza, la crescita armoniosa, perché si prova un senso di umanità non comune, perché non si conosce il significato della parola «paura», specie se dell’«Altro», del «Diverso», dello «Strano», dello «Straniero».