Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Allora… Ci chiedevamo la scorsa settimana del perché le Fonti abbiano preso il nome “Corallo”.
Le acque curative sgorgavano e formavano due ruscelli: uno si chiamava Riseccoli ed uno Corallo, facile scegliere il secondo perché nome più “simpatico” e poi perché rimandava ad una antichissima tradizione livornese: la lavorazione del corallo appunto.
A Livorno c’è anche Via del Corallo: il nome fu assegnato a questa strada nel 1946 con riferimento alla lavorazione del corallo che a partire dal 1565 si diffuse notevolmente in città. Anche l'attuale via Emilio Zola si chiamò via del Corallo da prima del 1816 fino al 1927, così come l'attuale via dell'Oriolino prima del 1846 (ma in questo caso il nome si riferiva al torrente Corallo).
Assurdo sarebbe condensare in un articoletto, o più, di questo giornale una storia millenaria che ha fatto dell’Italia una delle più importanti produttrici dei gioielli di oro rosso nel mondo.
Riassumiamo, sebbene a malincuore e fatica, le fonti della pesca, lavorazione e smercio di questi preziosi doni del mare.
Già nell’antichità era noto il corallo del Mediterraneo e se ne hanno notizie da Trapani, Torre del Greco e Livorno.
Ognuna di queste città pescava e lavorava con il prodotto locale avendo tecniche simili ma sensibilità artistica diversa.
Il prodotto andava in giro per il mondo intero destando meraviglia per la lucentezza, il colore e la raffinatezza.
L’acquisto del corallo non era solamente a scopo ornamentale, ma anche perché creduto provvisto di proprietà farmaceutiche e scaramantiche.
Il Passavanti lo considerava un ottimo rimedio contro le apparizioni del demonio. Per il Sacchetti faceva cessare le folgori e le tempeste, mentre per altri era un ottimo rimedio contro le malie, per cui se ne faceva un enorme spreco sulle culle dei neonati o adornandone il collo a guisa di collane. Il Mongitore sostiene che in Tunisi di Barbaria è stimato antidoto contro i morsi velenosi di scorpione. Scrive il Pugnatore che gli indiani compravano il corallo a gran prezzo giacché esso veniva usato per bruciarsi insieme con i cadaveri, perché preservasse i morti nel regno dell’al di là; mentre i satrapi e gli imperatori lo adoperavano per ornare i sepolcri orientali. Qualche autore arriva ad asserire che in Egitto i coralli furono in uso per ornamento delle mummie. Era persuasione dei sapienti sacerdoti egizi che i rami di corallo appesi al collo dei fanciulli fossero i loro tutori. Gli arabi lo adoperavano per la stessa ragione mentre gli indiani lo gettavano nel sacro Gange in grandi cocci nel giorno della loro festa nazionale
Come veniva pescato il corallo?
Dice il Mongitore nella sua “Sicilia Ricercata”:- col fare una grande croce di legno, alle cui quattro punte pongono delle reti; e nel mezzo un gran sasso. Scendono queste macchine per via di argano in fondo al mare: ed ivi la pietra rompe il corallo, attaccato alle rupi dove nasce cò rami in giù, e s’inviluppa nelle reti.
Il marchese Carlo Andrea Ignazio Ginori (Firenze, 7 gennaio 1702 – Livorno, 11 aprile 1757) è stato un politico e imprenditore italiano. Nel 1746 fu nominato Governatore della città e del porto di Livorno, ma è soprattutto noto per aver dato origine alla Manifattura della porcellana di Doccia. Nel 1735 iniziò gli esperimenti per fabbricare la porcellana nella sua tenuta di Doccia (presso Sesto Fiorentino) dove fondò la seconda fabbrica italiana di porcellane (la Manifattura Ginori).
Questa e quello ora sono attualità, ma, per la nostra storia, va ricordato anche che, come Governatore di Livorno (1746-1757), Ginori inviò suoi incaricati presso l'amico Carlo di Borbone, re di Napoli, perché potessero apprendere le tecniche della pesca del corallo da praticare poi nel mare antistante Livorno.
Al principio del 1800 Livorno si delineava ancora come la piazza più importante per il commercio del corallo greggio. Da una stima statistica effettuata nei primi anni del secolo dall’amministrazione francese per rilevare le reali condizioni dell’industria locale e dei commerci, si desume che su una popolazione ebraica di 4700 persone, circa cinquecento erano occupate nel traffico e lavorazione del corallo, stimando un quantitativo di materiale grezzo di 40 tonnellate annue che, lavorate, garantivano un utile netto di circa 600.000 franchi, da suddividere in 480.000 franchi per i lavoratori ed operai (pagati mediamente 4 franchi al dì) e 120.000 franchi di utile agli imprenditori. Nel 1810 il numero dei lavoranti, di entrambi i sessi, addetti all’industria corallina era raddoppiato e la produzione spaziava in assortimento di forme specifiche per il diverso pubblico.
I grani e i pendeloque sfaccettati, prodotti soprattutto dalle donne, erano molto apprezzati dalle popolazioni della campagna laziale e abruzzese per la confezione di imponenti gioielli tradizionali da matrimonio. All’Africa occidentale erano destinati le cannette, verso il Marocco andavano i maometti, mentre il mercato indiano richiedeva grandi quantitativi di collane di varie grossezze, fasci di 3 filze di corallo ciascuno della lunghezza di 120 centimetri circa e del peso di 100 grammi l’una, e capiresti, fasci con 3 filze del peso di 250 grammi l’una.
Come veniva lavorato il corallo? Ce ne dà notizia il Daneu nell’Arte trapanese del corallo, considerato uno dei migliori testi sull’argomento.
“il corallo grezzo veniva anzitutto liberato dalla scorza con raschietti di ferro, poi lucidato con pietra molara a mezzo d’una terra che s’importava da Tripoli. Il taglio dei rametti nei punti più opportuni, a seconda dei pezzi che si volevano ottenere sfruttando la forza naturale dell’arboscello, si faceva con la lima, mentre quello del tronco si faceva con la tenaglia, dopo averlo intaccato con una lama, lunga circa 40 centimetri e larga 8, chiamata spada. I frammenti così ottenuti si foravano da parte a parte mediante un archetto, con l’accortezza di bagnare la materia con acqua gocciolante. Poi con una pietra molara imperniata sul banco si procedeva all’arrotondatura o sfaccettatura dei pezzi. La pulitura finale si faceva con ruote di smeriglio e con la citata terra speciale. La lavorazione a brillantini si faceva con un sol colpo di lima per ogni faccetta. Il lavoro di scultura a tutto tondo, a rilievo e ad incavo a foggia di cammeo si eseguiva col bulino”.
Gli scrittori sono tutti d’accordo nell’attribuire la paternità della lavorazione ai trapanesi, di cui Genova Pisa Livorno e Marsiglia sarebbero state discepole ma…
Ancora una volta…alla prossima, con sorpresa finale!