Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Mi spiace, ma non me la sento di parlare di Viareggio-Pisa di Coppa Italia (non l’ho vista, ma abbiamo vinto 3 a 1!). E allora, col solito permesso del paziente supervisore megaculturale Ovidio, mi lancio in una rievocazione che riguarda i miei ricordi di atletica leggera.
Parlerò di salto in alto e in particolare del mitico saltatore sovietico (era ucraino) Jaschenko. Come ho già accennato una volta, ho dei (lontanissimi) trascorsi atletici: già a 13 anni mi allenavo nel Cus Pisa proprio nel salto in alto (mi allenava Danilo Pacchini e tra le atlete della società c’era Ida Niccolini, lunghista-ostacolista). La passione mi era venuta vedendo in televisione un altro leggendario saltatore russo, Valery Brumel, grandissimo atleta capace di battere non so più quante volte il record mondiale. A Pisa tra l’altro a quei tempi (si parla degli anni ’60) c’erano tanti campioni di questa specialità. Ricordo ad esempio Roberto Galli, che fu primatista italiano con 2 metri e 8 centimetri, che io spiavo cercando di carpirne i segreti. E poi Paolo Spencer, che mi pare abbia detenuto per qualche tempo il primato italiano juniores; ho in mente nitidamente la finale dei campionati studenteschi del 1964 all’arena Garibaldi; forse qualcuno non se lo immagina, ma all’epoca le gare di atletica erano seguitissime, la tribuna coperta era piena di tifosi e non mancavano zuffe e baruffe, soprattutto tra quelli del Dini e dell’ITI. Spencer (che frequentava appunto il Dini) rimase presto solo in gara e tentò così di saltare due metri, che sarebbe stato il record italiano; a quei tempi i salti si svolgevano nel silenzio più assoluto, e nessun atleta sollecitava –come avviene oggi- il pubblico a battere le mani; ebbene, mentre Spencer si concentrava nel silenzio dell’arena, dalla tribuna partì un gigantesco pernacchio, suppongo di un fan dell’ITI (e poi Spencer sbagliò); altri tempi. Ma parlando di Pisa non ci si può dimenticare della grandissima Osvalda Giardi, pluricampionessa e primatista italiana, con la quale a volte, emozionantissimo, mi allenavo. Saltava “all’Horine” (dal nome dell’atleta che aveva inventato questa tecnica), mentre negli anni ’60 quasi tutti utilizzavano ormai il cosiddetto scavalcamento ventrale. Epperò nella mia scuola media (Carducci), il severo professore di ginnastica Meschini obbligava inesorabilmente tutti gli alunni a saltare “all’Horine”. Nella gara scolastica del 1964 alla quale partecipavo (ero uno dei favoriti) io, che saltavo con lo stile ventrale, arrivai fino a 1 metro e 45 saltando appunto all’Horine; in gara eravamo rimasti solo in due e a 1 metro e 50 superai l’asticella saltando, però, con il ventrale; successe allora un putiferio, perché il mio avversario protestò vibratamente col professore dicendo che avevo barato! Bah, bei tempi.
E Jaschenko? Calma, ci arriviamo. Facciamo un salto (è il caso di dirlo!) di qualche anno e arriviamo al 1978; a 26 anni avevo ormai smesso di fare atletica, ma mi era rimasta (e ce l’ho ancora) una passionaccia per questo sport. E così, con l’amico Massimo Palla, gran competente, si decise nientemeno di andare fino a Praga a vedere i campionati europei di atletica leggera. Anche se partecipavano tanti grandissimi atleti (la Simeoni, che fece il record, Mennea, e tanti altri), io aspettavo soprattutto la finale del salto in alto. Il favorito era appunto un giovanissimo sovietico (aveva 19 anni!), alto e magro, completamente diverso dall’immagine che si aveva allora degli atleti dell’URSS: aveva capelli lunghi e biondi, esultava in modo assolutamente poco politically correct e pare non disdegnasse vodka e sigarette. Ma saltava come un Dio: leggerissimo e con una rincorsa assolutamente non forzata, con uno stacco morbido e apparentemente lieve. Tutto questo con naturalezza e quasi senza sforzo. Ero subito rimasto colpito dal suo stile, così diverso da quello degli altri: quasi tutti usavano ormai il Fosbury (stile che io allora consideravo addirittura eretico, essendo sempre rimasto un ventralista ortodosso, forse per difendere i ricordi della mia gioventù), e fu lui l’ultimo grande ventralista della storia del salto in alto. L’avevo visto in televisione vincere i campionati mondiali al coperto a Milano con il nuovo record del mondo.
Ma torniamo a Praga e alla finale del salto in alto. Eravamo proprio davanti alla pedana; c’erano dei gradoni, ma il settore era considerato “posti in piedi”, per cui se ti sedevi un attimo veniva un soldato a dirti più o meno gentilmente di alzarti. Era freddo e umido e la gara si svolse sotto i riflettori. Mi ricordo che Jaschenko aveva sotto la canottiera rossa con il simbolo della falce e martello una magliettaccia azzurra. La sua apparizione mi emozionò moltissimo: era meraviglioso e mirabile, armonioso, aereo e stupefacente. Mi ricordo che anche il pubblico praghese, che ovviamente non aveva nessuna simpatia per gli atleti sovietici, tifava per lui, probabilmente perché la sua immagine era così distante da quella dei celebrati campioni del mondo comunista. Nei primi salti non fece nessun errore, ma poi, come gli accadeva spesso (era molto discontinuo), fece due errori a 2 metri e 24, rischiando l’eliminazione; l’amico Massimo, di fronte alla mia perplessità, sentenziò: “Tranquillo, lo fa alla terza prova, poi fa 2 e 30 e vince alla grande”. E infatti il terzo tentativo a 2 e 24 fu straordinario e perfetto. A 2 e 30 nel silenzio assoluto dello stadio (non eravamo all’arena Garibaldi!) oltrepassò dolcemente l’asticella e stravinse appunto il titolo. Giovane com’era, con un talento naturale enorme, gli fu predetta una lunga e gloriosa carriera, ma non sempre i sogni più belli si avverano. E infatti già l’anno dopo il suo ginocchio sinistro cominciò a fargli male, ma fu costretto (pare) a continuare a gareggiare dai suoi allenatori, fino a rompersi i legamenti. Da allora la sua carriera praticamente ebbe termine: non riuscì mai più a saltare e finì, spossato dalla depressione, col darsi all’alcool e con l’ammalarsi gravemente. Morì nel 1999, aveva solo 40 anni. Come succede con tutti i miti, mi è rimasta una forte nostalgia del suo ricordo, e infatti spesso vado su youtube a rivedermi un video nel quale, accompagnato da una musica struggente, continua a saltare all’infinito quei 2 metri e 30 a Praga, dove quella sera c’ero anch’io. Perché nella fantasia -si sa- gli eroi son tutti giovani e belli, ma qualche volta lo sono anche nella realtà.