Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Mi sarei aspettato un’organizzazione improntata alla massima sobrietà per l’edizione 2013 della Luminaria, considerata la congiuntura socio-economica tremendamente sfavorevole; e invece no: il nuovo e vecchio Sindaco di Pisa ha pianificato un evento veramente «lumi di lumino ai lumi di ‘andela», complice forse il rinnovo del mandato che un po’ più della metà di un po’ meno della metà dei pisani gli ha voluto accordare.
Complici forse i sensi di colpa per le tante colate di cemento disseminate in un territorio già brutalizzato a più riprese, senza contare ancora quelle «da venì» già messe in preventivo, dal People Mover all’asfaltatura delle strade bianche del Parco, dalla costruzione di rotonde pressappoco anche dove non siano mai esisti incroci all’increscioso ed emblematico ripopolamento dell’area Navicello con la notoria «biodiversità Ikea».
Complice forse l’idea in ragione della quale «meglio un giorno da leoni che cento da pecore», per cui «fiat lux» una bella serata l’anno e siano oscuri gli altri 364 giorni, memore nondimeno del sommo principio cisalpino «date loro brioches».
Complici forse i proventi dalla «tassa di soggiorno» che, pochi o tanti che siano, «a caval donato non si guarda in bocca» e buona pace per gli operatori turistici alle prese con il pesante passivo di presenze rispetto agli altri anni.
Complice forse una serata - una delle primissime di quest’attesa estate - discretamente afosa, segnata da qualche impercettibile alito di vento a partire però dalla sola mezzanotte, dimentica di un interminabile inverno, corresponsabili nel bene e nel male i pesanti cambiamenti climatici di cui si è avuta fino a qualche giorno fa una «monsonica» diapositiva.
Complice forse la fresca e cocente delusione per l’avversa sorte riservata dal torrido pomeriggio pontino alla pattuglia di Pagliari, quindi la puntuale voglia di un riscatto (ma «de che, ahó?!?») che - fin dai tempi della vittoriosa e, ahimè, incontrovertibile impresa delle compagnie di ventura al soldo di Cosimo I De Medici - per i pisani non ha saputo significare nient’altro se non fiumi di alcol e altri trastulli.
Complice forse la voglia di mostrare ai turisti americani (e di ogni altra parte del mondo) convenuti che l’immaginario disneyano è alla portata anche di questa «Italietta» impenitente e senza ritegno (come se i visitatori di Pisa e della Toscana tutta venissero in Italia in cerca di una maldestra replica di ciò che le loro patrie dispensano quotidianamente!).
Complice una volta l’anno la voglia di «stupire con effetti speciali» l’improvvida commistione fra turisti disorientati, increduli e abbagliati, fra gli immancabili stuoli di famiglie convenuti da ogni parte del contado pisano (e anche lucchese, considerato l’interminabile serpentone di auto diretto nottetempo verso il Foro), fra gli habitué della movida pisana per niente distratta dalla calca infernale di gente, incentivata casomai a dare sfoggio di tutta la sua creatività etilica, e fra le legioni di imberbi studentelli universitari a caccia dell’avventura facile all’ombra di una sbronza.
Il mio viaggio in compagnia di due dei miei tre figli - quelli più grandi poiché il piccolo non ama particolarmente gli spettacoli pirotecnici - e di mia moglie attraverso questa improvvida edizione della Luminaria, la prima dell’era Filippeschi 2.0, inizia dalle «Piagge», la riva destra dell’antico «Guato Longo», per imboccare il Ponte della Vittoria e percorrere i lungarni di «Mezzogiorno» attraverso un Bastione Sangallo agghindato a festa, quasi a volerne neutralizzare l’imperiosa alterigia, emblema stesso del soggiacere della città ai voleri di Firenze medicea: appare chiaro fin dall’intersezione del Ponte della Fortezza con il Lungarno Galilei che Pisa è gremita di gente, benché poco prima della proverbiale ansa ancora un gruppo di bambini si possa permettere di raccogliersi in cerchio per giocare a pallavolo.
I lungarni del quartiere «Kinzica» pullulano di gente avvolta dall’oscurità rotta soltanto e tradizionalmente dai lumini disseminati intorno alle alle aperture dei palazzi e dai lampioni «a mezz’asta» posti sulle spallette; il clima che si respira non si avvicina neanche lontanamente a quello dell’antico «Souk» orientale e tra le pavide ombre dei fondaci marinari anziché aggirarsi affascinanti mercanti saraceni o ebrei sotto i loro turbanti, si alternano ad intervalli regolari di tempo e di spazio venditori di chincaglierie luminose di ogni genere - tutte regolarmente «Made in PRC» - e banchetti di mente e croccanti, le insegne fieramente inneggianti ai dolci della tradizione pistoiese; non uno «speziale», non un rappresentante vivente delle antiche arti e mestieri, se non 3 chioschi post-medievali nel giardino di Palazzo Franchetti e gli ormai immancabili costumi di varie epoche della «Fondazione Cerratelli» a fare sfoggio di sé dalle vetrine illuminate del Palazzo Lanfranchi: per poter «toccare» con mano l’aer della Repubblica Pisana è necessario tradurre verso l’Hérault, verso il Rodano o verso qualche altro importante centro sulle rotte dell’antica marineria nostrale ed immergersi in qualche caratteristico borgo di pescatori, ritrovare i capanni di falasco o vedere la commercializzazione delle spezie eletta ad attività lavorativa.
Lo spettacolo pirotecnico non è ancora iniziato, ma dal Ponte di Mezzo transennato, quasi fortificato e invalicabile - se mai non fossero state sufficienti le centinaia di persone poste staticamente a barriera tra le due parti della città - ed eletto quartier generale degli accoliti nostrali di Carlo Rambaldi, due (o forse più) potenti fasci di luce variamente colorata si muovono da un palazzo all’altro a partire dalla gru sulla quale sono state poste quasi a voler evocare l’inquietante occhio posto sulla sommità della «Torre di Mordor» ne «Il Signore degli Anelli» di J.R.R. Tolkien.
Una breve digressione verso Via San Martino per scoprire le iniziative in corso in Piazza La Pera e, ahimè, la constatazione di come le più interessanti testimonianze storiche, il patrimonio culturale più minuto (o, in definitiva le potenziali attrattive turistiche!) siano condannate a dover narrare episodi del passato che nessuno potrà mai ascoltare: una delle tante «Pietre Acheruntiche» rinvenute a Pisa e nei suoi dintorni, posta al crocevia fra l’antica appendice cittadina della Via Fiorentina ed il budello di Via La Pera dimenticata nel suo angolino e relegata ad essere confusa con una qualunque pietra miliare... poco male: con buona pace del compianto Emilio Tolaini, se i pisani «non sanno cosa farsene» di cotali tesori, un ignaro ed indifferente ambulante della consueta chincaglieria luminescente e di chiara discendenza indo-cinese, ha visto bene di eleggere il massiccio litico isteromorfo suo panchetto personale ed adottarlo come complemento di arredo della propria attività!
Dalle parti della vecchia «Tazza d’Oro», retro-bottega della splendida Piazza Santo Sepolcro, un - evidentemente avvinazzato - gruppo di reduci della trasferta di Latina intona cori anti-labronici, forse nella vana speranza che l’irredento spirito di qualche antico «Console del Mare» si manifesti per dare loro lo sprone e condurli vittoriosamente alla riconquista della suprema dignità perduta, magari in una campagna-lampo per espugnare ancora una volta Palermo e Cagliari, per restituire le Baleari e Costantinopoli alla «Res Publica», per vendicare l’onta subita alla Meloria per mano di Genova e per occupare fulmineamente «Palazzo Vecchio» a Firenze, e farli sedere sugli scranni del «Salone dei Cinquecento», banchettando alla salute di Cosimo I e di Matteo Renzi, non prima però di aver rimosso gli oltraggiosi affreschi del Vasari! E magari anche per salpare alla volta dell’Agro Pontino per impossessarsi di Latina e guadagnarsi di diritto un posto in «Lega Pro»!
Ma non finisce qui: l’intento iniziale di raggiungere Palazzo Blu - al secolo «Gualandi» - onde contemplare i motivi marinari delle decorazioni luminose facciali, reso - se non propriamente vano - decisamente arduo dalla marea di gente in transito sul Lungarno Galilei, induce me e la pattuglia dei miei familiari a proseguire nella deviazione di percorso: data come nei propositi una fugace occhiata a Piazza La Pera, intravisto il palco con la consolle pronta per il DJ di turno e realizzato che l’offerta culturale da quelle parti non sarebbe stata nient’altro che una delle tante (e peggiori) declinazioni della movida pisana, si riprende la «diritta via» fino alle «Logge di Banchi».
Lo spettacolo è indescrivibile: lungo la «Via San Gilio», oggi nota come Corso Italia, orfana al suo vertice più meridionale dell’omonima porta - abbattuta con l’Unità d’Italia insieme a diverse centinaia di metri delle mura del 1165 per far posto alla «Barriera» (dunque agli odierni Palazzi delle Poste, della Provincia, alla Statua di Vittorio Emanuele) quasi più brutta della piazza che le è stata «riqualificata» intorno con tanto di parcheggio sotterraneo a 18 carati ed alla vecchia Stazione degli Autobus - si sono riversate decine di banchetti con prodotti tipici del «territorio»; bella cosa, se almeno si fosse saputo «di quale territorio»... la cosa migliore è il solito venditore di mente e cicalini dalla Valdinievole, la - paradossalmente - più rassicurante il «porchettaro», dispensatore fast food sì di sa Dio quali amenità agri-zootecniche toscane, ma almeno noto ai più.
Agghiacciante poi è il dispiegamento di personale davanti al Comune di Pisa: hostess di terra poste immediatamente dietro ad una scatola di cartone recante l’indicazione “vota”, ti guardano con un sorriso che nell’oscurità sacrale della «notte delle stelle» consacrata a San Ranieri pare beffardo (o sconsolato) nella speranza che tu... che tu... che tu che cosa?!? Che tu esprima una preferenza per il palazzo più bello della Luminaria!
Una rapida occhiata d’insieme per capire - senza ancora averlo potuto vedere - che il pre-designato vincitore altri non potrà essere se non il Palazzo Blu, che di lì a poco, ressa permettendo, ci accingeremo ad andare a contemplare... ma naturalmente, «ai posteri l’ardua sentenza» su come veramente finirà!
Il Lungarno Gambacorti è pressoché impraticabile passando dal Palazzo del Comune e, fra le altre cose, mentre ci barcameniamo tra le riserve di lumini lasciate sommariamente sulla pavimentazione dell’atrio comunale, esplodono i primi due o tre «botti» introduttivi, cosicché decidiamo di proseguire su Via Toselli, indi di raggiungere il nuovo polo espositivo-museale passando davanti alla Libreria Blu Book: l’idea si rivela efficace e Palazzo Blu non delude con le sue decorazioni.
Ma intanto la voce dello speaker si leva incomprensibile dalla «Torre di Mordor», raccontando sa Dio quali inenarrabili vicende: la fonica dà l’idea di un sontuoso «matrimonio con i fichi secchi», restituendoci temporaneamente l’idea che le cose siano state progettate in maniera più sobria di quanto si siano effettivamente rivelate; peccato davvero perché la pensata «filippeschiana» non sarebbe stata malaccio: creare movimento e ritmo teatrale alternando e/o sovrapponendo al carosello pirotecnico la narrazione di una storia, unitamente ad una struggente colonna sonora e alle figurazioni rese possibili dacché si sono moltiplicate le piattaforme di lancio sull’Arno, è senz’altro più emozionante di una sfilza ininterrotta di fuochi scagliati ad alta quota nei paraggi degli Arsenali Repubblicani come tradizionalmente avveniva per questa occasione. E, molto probabilmente, meno dispendioso.
Ma affinché ciò potesse avvenire in maniera corretta, anziché piazzare diffusori ad alta potenza in Ponte di Mezzo, sarebbe stato necessario ricorrere ad una filodiffusione più capillare per tutti i Lungarni (qualcosa di simile pressappoco alla fonica utilizzata in occasione del Gioco del Ponte per intendersi, ma con qualche velleità in fatto di qualità del suono in più) poiché le distanze da percorrere per le onde sonore vanno notoriamente ben oltre la loro canonica velocità di 334 m/s nell’area dei Lungarni; le parole dello speaker si confondono e sovrappongono senza permetterne la benché minima comprensione, ma lo spettacolo pirotecnico è magnetico, a tratti - quando in particolare si levano al cielo le note di una versione live corale di «Conquest of Paradise» di Vangelis e qualche frammento della Messa di Requiem Op. K626 di Mozart - quasi ipnotico.
La musica però viene sparata «a tutta gargana» nei diffusori centralizzati che, a mio modesto avviso, si sarebbero prestati più per un concerto di Vasco Rossi che per questa circostanza, cosicché la saturazione fa il suo capolino più volte, complici forse le fonti sonore che non mi sorprenderei pescate per l’occasione tra MP3 di infima qualità; avrei personalmente qualcosa da ridire anche sulla supervisione musicale dell’evento per la scelta forse un po’ sommaria delle tracce, dettata con ogni probabilità dalla sola ricerca spasmodica dell’«epica» che da una sensata capacità di commento sonoro ma, il non aver colto sostanzialmente neanche una parola della narrazione potrebbe indurmi in errore.
Intanto io e la mia famiglia - attraversato pressoché tutto il Lungarno Gambacorti, ci ritroviamo finalmente in prossimità della chiesa di Santa Maria della Spina: come da copione, la vista di questo insulso e maldestro succedaneo dell’originale - visto ahimè soltanto in una delle rare foto in circolazione - mi fa letteralmente saltare i nervi prima, precipitare in uno stato di catarsi onirica dopo, riportandomi alla Pisa di epoca pre-unitaria, il piccolo edificio gotico spostato di qualche metro verso l’Arno più scuro nel suo materiale litico di origine, le affascinanti accidentalità che rendono le sponde del fiume assai più simili a quelle prossime a Ponte Vecchio a Firenze di quanto non ci si possa immaginare.
I miei occhi guardano per l’ennesima volta nella direzione di Via Sant’Antonio in cerca di una traccia della «spina» medievale, l’antica chiusa posta a sbarramento di una delle due «barbacane» scavate nel quartiere di «Kinzica» al fine di impedire i reflussi dell’Arno e sorrido pensando alla diffusa convinzione che - complice l’habitat inspiegabilmente claustrale in cui è stata precipitata Santa Maria della Spina - l’edificio contenga una spina della corona posta sulla testa di Gesù crocifisso e sottratta alla Terra Santa sa Dio da quale campagna militare pisana!
Quando mi ridesto, ci troviamo finalmente al Ponte Solferino e, passando con estrema difficoltà fra una muraglia umana invalicabile, immobile e rapita dallo spettacolo pirotecnico, riusciamo a guadagnarci il quartiere di Ponte a «Tramontana» o - per chi non conosca i rudimenti della storia pisana - «Santa Maria»; facciamo - ahimè - appena in tempo a raggiungere il vertice più orientale di Palazzo Reale che le piattaforme sparano i loro «botti» di chiusura dello spettacolo e cominciano i guai!
Il deflusso verso Piazza Carrara è discretamente ordinato ma sul Lungarno Pacinotti si era assiepata una calca di persone indicibile: mio figlio più grande si improvvisa capo-cordata ingaggiando una gincana spettacolare, mia moglie tiene per mano mia figlia - spaventata e preoccupata - io che invece più volte faccio loro scudo per impedire che siano travolte; si cammina praticamente su un tappeto di bottiglie e lattine di birra che, nei pressi di Palazzo Alliata inizia a farsi sempre più compatto fino a Via della Sapienza, da cui si irradiano le note graffianti di non meno di una chitarra elettrica, un basso ed una batteria in performance in mezzo alla strada fra nugoli di avvinazzati & affini.
La musica non cambia fino a Piazza Garibaldi, dove peggiora in ragione del deflusso e dove mia figlia guadagna anche l’involontaria gomitata al volto di un turista americano; il Lungarno Mediceo non sembra presentarsi meglio, almeno fino alla Piazza della Berlina - ormai consolidato punto di raccolta della movida pisana - dove un altro gruppo rock-blues scaglia i propri anatemi musicali sempre uguali a sé stessi davanti ad una folla scatenata.
Poi d’improvviso la calma: ci possiamo incamminare senza ulteriori peripezie verso l’auto parcheggiata in Via San Michele degli Scalzi nei paraggi del «Lanteri», ancora lontanissima sì, ma non più psicologicamente irraggiungibile.
In definitiva, questa tradizionale kermesse su cui aleggia sempre più - nel bene e nel male - l’ombra del Sindaco Filippeschi mi è parsa nel suo complesso un proverbiale, inopportuno ed in buona parte insensato dispendio di risorse, dato il suo esito non proprio felice; sarà forse che i miei sono occhi «del mestiere» e la mia mania di perfezionismo esagerata, sarà che in definitiva nel corso di tutta la serata non mi è parso di scorgere alcun significativo segno di promozione storico-culturale della città verso l’esterno, di gratitudine ai suoi abitanti e - nel complesso - neanche di consolazione per i suoi tifosi, ma - fatta eccezione per qualche buono spunto - oserei dire che si poteva spendere meno, meglio e centrare qualche obiettivo in più.
La città si sarebbe potuta raccogliere intorno ai suoi tesori e alla sua storia, evitando - almeno per una sera - di incoraggiare la movida, sollecitando iniziative di maggiore spessore culturale, spingendo magari di più sulla rievocazione storica ma, d’altra parte, a Filippeschi l’onore e soprattutto l’onere di amministrare, evidentemente all’insegna dell’«apparenza» più che della sostanza, della voglia di stupire anziché di far riscoprire un territorio.
In definitiva nessuno lo può soffrire a Pisa, men che meno nel suo frammentatissimo schieramento politico, e pur tuttavia i suoi risultati elettorali sono schiaccianti, polemiche sulla reale consistenza del voto a parte dunque...
...dunque temo proprio che si dovrà aspettare la seconda stagione di Da Vinci’s Demons - e sempre che davvero la trama accordi al prode Leonardo di imbarcarsi su un bastimento mercantile per navigare sull’Arno dalla Firenze di Lorenzo Il Magnifico e del fratello Giuliano De Medici alla volta di una Pisa ormai immemore delle sue gloriose gesta (e muovere poi in cerca del «libro delle Lamine» caro al culto di Mitra) - per capire se Inglesi ed Americani, sotto la guida sapiente del regista David Samuel Goyer, abbiano avuto una percezione della storia della nostra amata città più avveduta, conforme e consapevole di quanto non sia accaduto al povero Filippeschi che, oltre agli impietosi tentativi di darle un improbabile volto metropolitano post-moderno, regno incontrastato di cementi e opere pubbliche futuristiche, appare evidente non avere un’organica cognizione di che cosa sia stata la straordinaria «Colonia Julia Obsequens» che si accinge, ahimè, ad amministrare per altri cinque lunghi ed interminabili anni.