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Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative. 

E non c'è da cambiare idea. Dopo aver sostenuto la .....
. . . sul Foglio.
Secondo me hai letto l'intervista .....
L'intervista a Piazza Pulita è di 7 mesi fa, le parole .....
Vedi l'intervista di Matteo Renzi 7 mesi fa da Formigli .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Arabia Saudita
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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Dalla pagina di Elena Giordano
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storie Vere :Matteo Grimaldi
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Indaco il colore del cielo
non parimenti dipinto
Sparsi qua e là
come ciuffi di velo
strani bioccoli di bambagia
che un delicato pennello
intinto .....
tutta la zona:
piscina ex albergo
tutto in stato di abbandono

zona SAN GIULIANO TERME
vergogna
SENTENZA SU PROVINCE-Gambetta Vianna (Più Toscana): “Pienamente soddisfatto.
Su Province, basta demagogia”

4/7/2013 - 18:16


SENTENZA SU PROVINCE – Gambetta Vianna (Più Toscana): “Pienamente soddisfatto.

Su Province, basta demagogia

 

"Per abbattere i costi della politica andiamo ad intercettare i veri sprechi. Un esempio? Mettiamo un tetto agli stipendi dei grandi burocrati e dei supermanager della politica. Infatti, le Province incidono solo per l’1% sulla spesa pubblica complessiva del Paese e attaccarle è pura demagogia”
 
«Sono pienamente soddisfatto della sentenza con la quale la Consulta ha bocciato un decreto anticostituzionale e demagogico. Non è colpendo le Province che si risolve il problema dei costi della politica». È quanto sostiene il capogruppo di Più Toscana in Regione, Antonio Gambetta Vianna, per il quale «le Province non hanno un costo esorbitante all’interno della macchina amministrativa e governativa e, soprattutto, le loro risorse servono principalmente per svolgere molte funzioni che poi, in caso di taglio, toccherebbero ad altri enti. Alcuni esempi? La formazione professionale, la gestione dei rifiuti, le strade, le scuole…».
Gambetta Vianna ricorda che, «più o meno il personale politico delle Province rappresenta il 5% del totale dei costi della politica mentre, per quanto concerne i costi di funzionamento, le Province sono quelle che pesano meno di tutti, circa il 6% del totale. Inoltre, le Province rappresentano poco più dell’1% della spesa pubblica complessiva del Paese (rielaborazione Upi su fonte Siope/Istat, ndr). Perciò, la spesa degli enti provinciali è davvero irrisoria rispetto a quella degli altri Enti. Quindi, tagliando le Province, dove sarebbe il risparmio? Per risparmiare bisogna andare ad intercettare gli sprechi e a mettere un tetto agli innumerevoli stipendi dei grandi burocrati e dei supermanager della politica, che arrivano ad avere anche buonuscite milionarie e super pensioni».
Per il capogruppo di Più Toscana in Regione, «adesso che si va verso la fusione dei Comuni più piccoli, le Province addirittura assumono un’importanza maggiore per sovrintendere ai piani e ai rapporti tra i vari Comuni del proprio territorio di competenza».




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6/7/2013 - 11:11

AUTORE:
Alessio Niccolai

Attribuire alle Province la responsabilità del prodigioso dissesto finanziario nella spesa Pubblica italiana, equivale pressappoco ad attribuire una morte per cirrosi epatica all'aver mangiato la sera prima una porzione di polenta alla valdostana.
Bisognerebbe chiedersi sempre più spesso, con la massima apertura mentale e con un piglio analitico più deciso, metodico e realistico di quanto in genere non avvenga, come davvero si sia prodotta quella colossale voragine, quanto di essa sia realmente da interpretare come un fatto negativo ma, soprattutto, chi personalmente l'abbia prodotta, anziché limitarsi a "quali fattori" compiendo magari indagini di comodo su una superficie scivolosa senza scendere mai nel profondo.
Disgraziatamente incide su questa conclamata incapacità di indagine (o su questa deliberata volontà di non farlo) un pernicioso sostrato culturale novecentesco in ragione del quale «Pubblico» e «Privato» viaggiano su binari separati in un rapporto anti-storico di netta contrapposizione tale da indurre i tendenziali sostenitori dell'uno e dell'altro ad ingaggiare proverbiali dispute intorno ai massimi sistemi che in realtà non hanno alcun senso o, per lo meno, non ne hanno più uno ricolmo di quegli stessi significati.
Un'interessante rilettura della questione di cui si sono resi protagonisti illuminati personaggi come lo stesso Stefano Rodotà o Ugo Mattei, ha individuato nel rapporto tra «Pubblico/Privato» e «Bene Comune/Beni Comuni» il vero perno della contrapposizione, ma naturalmente la tematica non può essere affrontata in cinque minuti su una testata online e, a onor del vero, mi è utile in questo momento soltanto come concezione sulla quale basare ciò che intendo affermare.
Intanto bisognerà sconfessare chiunque si prodighi con allucinanti arrampicate sugli specchi nel dimostrare che possa esistere una «questione morale» intorno all'esistenza delle Province: in primo luogo quanto più l'Istituzione è vicina ai cittadini, tangibile - prossima anche fisicamente -, tanto più sarà espressione del territorio su cui esercita la propria sovranità; a questo almeno devono aver pensato i padri costituzionalisti nel redigere il Titolo V della seconda parte del dettato costituzionale.
Inoltre la vera «questione morale» in un contesto storico in cui la quasi totalità delle famiglie ha difficoltà non più ad «arrivare a fine mese», ma anche alla sua metà o alla fine della sua prima decade, più che chiedersi quanto incidano le Province nel pesante bilancio dello Stato, dovrebbe consistere nel chiedersi cosa e quanto ha a che fare con l'indice crescente di povertà diffusa il fatto che l'economia reale mondiale rappresenti poco più dell'1,5% dell'economia nel suo complesso.
Detto questo, torniamo al vero tema del contendere: decenni di gestioni privatistiche, clientelari e/o «ad personam» della cosa pubblica, hanno allontanato da essa lo scopo primario per cui è stata storicamente concepita: rappresentare il «Bene Comune».
Oggi il «Pubblico» - in virtù di provvedimenti legislativi scellerati come il Patto di Stabilità o come l'esternalizzazione dei servizi - è finito per diventare il luogo fisico in cui i privati (alcuni naturalmente, non tutti) nelle più variopinte forme giuridiche sono chiamati a spartirsi la grande torta delle commesse in una competizione indisciplinata per mantenere in essere un insieme minimo di servizi costosissimi, ed a seguire per alcuni versi una logica aziendalistica, per altri una clientelare.
Ma non è finita qui: il «Pubblico» nasce con uno scopo tendenzialmente «solidale», per dare luogo cioè ad un'insieme di attività che per definizione devono sfuggire alla logica del profitto come l'insegnamento, come l'assistenza sociale, sanitaria o previdenziale, come la gestione di vie di comunicazione o come la tutela ambientale e del paesaggio, istanze che non possono per loro stessa natura essere considerate «costi» e dunque, che non devono essere retribuiti con la contrazione di un debito ma con un sistema impositivo saldo, equo e proteso a pescare fondi laddove si trovano davvero, anziché raschiare sul fondo del barile.
Invece - fatto incredibile e straordinario - pare che il «Pubblico» in Italia sia condannato a raccogliere risorse attraverso il sistema di tassazione per ripianare i bilanci (la famosa «socializzazione delle perdite») di certune aziende private (o pseudo-pubbliche) ed a contrarre debiti per tenere in piedi un suo livello minimo di servizi ai cittadini.
Le statistiche dicono che Italia e Finlandia sono fra i Paesi con il maggior gravame fiscale ma, mentre la seconda offre ai suoi cittadini (ed anche ai «suoi» immigrati) un welfare state straordinario, d'eccellenza e soprattutto gratuito (con una scuola pubblica presa come modello a livello planetario!), il nostro Paese «emunge» per mantenere commesse inqualificabili come quella degli F35, per procrastinare all'infinito le aggressioni militari alle sovranità di altri Stati, per scongiurare operazioni di nazionalizzazione (opportune per situazioni come quelle di ILVA, di FIAT, etc.), per rinsaldare le aspettative della Merkel, per tenere in piedi grossi baracconi pseudo-pubblici in cui convergono interessi fra i peggiori, come quelli bancari e finanziari, come quelli di costruttori e, in genere implicati nella gestione di processi che dovrebbero essere totalmente pubblici.
Quello che è stato creato in Italia è sostanzialmente una confederazione di baronie di cui il «Pubblico» è soltanto una facciata, una sorta di garanzia formale svuotata di ogni contenuto e ormai al servizio (o al soldo!) di questa o quell'altra azienda privata.
Il vero problema non sono dunque le Province e/o qualunque altro ente locale, ma la dialettica farneticante che si è instaurata fra la loro funzione e l'interesse famelico e predatorio di tante imprese private: proviamo a ricordarci quanto costavano e come funzionavano certuni servizi per loro stessa natura destinati ad essere gestiti come «Beni Comuni» come il ciclo dei rifiuti, dell'acqua, del trasporto scolastico, etc.
Le imprese private o pseudo-pubbliche coinvolte in questi processi raddoppiano, triplicano, quadruplicano competenze (specie quelle dirigenziali e/o funzionariali) che in precedenza erano raccolte dagli stessi quadri degli enti locali, con grande dispendio di denaro e sensibile peggioramento della qualità dei servizi.
Il punto è quindi un altro: al «Pubblico» devono essere restituiti centralità, primato, autorevolezza, autorità, credibilità, trasparenza ma, soprattutto, percezione di lavorare per il conseguimento del «Bene Comune» e per la tutela dei «Beni Comuni»; questo equivale ad invocare efficacia - dunque e sì anche efficienza - ma non totale ristrettezza economica, induzione all'alienazione patrimoniale (che equivale all'induzione alla prostituzione) e dipendenza/accondiscendenza verso questo o quell'altro interesse privato.
Sulle Province è dunque e in effetti pura e semplice demagogia: bisogna incrementare la rappresentatività, bisogna dare ai territori maggiore autonomia gestionale e indipendenza dagli appetiti privati, altro che storie!
Quindi la cosa è terribilmente semplice: restituire al «Pubblico» competenza intorno a ciò che è il bene della collettività, facoltà di agire, autonomia nel condurne l'attività e risorse.
Basta considerare in che cosa si sia ridotto tutto il comparto ispettivo - un tempo saldamente e autorevolmente nelle mani del «Pubblico» - per comprendere come e quanto le cose stiano effettivamente come le ho descritte: in Italia per certificare una responsabilità intorno a qualcosa, alla conformità, alla liceità, all'aderenza ad un disciplinare, alla sicurezza, etc. è sufficiente pagare un corrispettivo ad un ente (spesso privato) accreditato e festa fatta... altrove invece tali funzioni sono saldamente di competenza pubblica e la percentuale di certificazione si riduce drasticamente... come mai?!?

5/7/2013 - 14:20

AUTORE:
Gian Paolo

Le province non costano niente, allora teniamole.
Prima di tagliare le province, tagliamo altro, bene.
Io non capisco più il limite del senso del pudore, a che valore oggi si posiziona l'asticella, sicuramente per alcune persone a livelli stratosferici.
Ma non si rende conto che le province rappresentano un modello di stato e di competenze superate.
I comuni, le province, le regioni devono essere ridisegnate, ma una domanda, prima di pensare ai nuovi modelli organizzativi mi verrebbe da porle, ma(....).