Una vicenda tutta personale viene descritta in questo nuovo articolo di Franco Gabbani, una storia che ci offre un preciso quadro sulla leva per l'esercito di Napoleone, in grado di "vincere al solo apparire", ma che descrive anche le situazioni sociali del tempo e le scorciatoie per evitare ai rampolli di famiglie facoltose il grandissimo rischio di partire per la guerra, una delle tante.
Perché vale la pena viverci
Capita, girovagando per il mondo, di incontrare persone dall'idioma conosciuto.
Istintivo, scatta l'ancestrale bisogno di riconoscersi, denunciando sì il luogo d'origine, ma soprattutto tentando di individuare l'esistenza di un'amicizia comune.
E' come un'animalesco annusarsi, denunciare razza, specie, ruolo, appartenenza. Questo qualificarsi con ordine e grado, è retaggio biologico del branco e poi del clan e pure retaggio di una pregressa cameratesca vita di gruppo, militare o sportiva che sia stata e ci nasce spontaneo dal di dentro.
E' nella presunta conoscenza dell'altro che affidiamo poi il senso del nostro esistere in un luogo. Eppure, una volta riconosciuto il familiare parlare, basterebbe dire per esempio, " Son di Gello, son di Migliarino, son di Pappiana ",
son d'uno dei tanti paesi posti come diadema attorno al collo della mia bella dama, la mia Pisa. Se il senso di appartenenza al branco è ancora forte, quello relativo ad un luogo è flebile e talvolta inesistente e ci deriva dall'ormai perduta conoscenza. C'è addirittura quasi una vergogna, un mascherarsi che trovo stupido e svilente. Le persone fanno i luoghi, ma è vero anche il contrario, anzi...
Come sarei stato io, se fossi cresciuto senza quel mare di tramagli e sciabiche, senza quelle reti da pulire, aggiogate sugli scalmi dei patini, la mattina all'alba coi piedi nella rena fredda?
Come sarei stato io senza i miei monti d'asparagi aspri e stinchi graffiati dai ginepri?
Come sarei stato io senza l'odore di ragia mista a muffa nelle giornate in san Rossore, all'ombra dei pini imbanditi di tovaglie a quadri e Fiat 500 con gli sportelli aperti?
Come sarei stato io senza il mio fosso, e la pesca dei ranocchi col boccone, da fare a giugno, meglio se nei giorni senza vento?
Come sarei stato io senza la mia cattedrale, scrigno, faro e baluardo, rifugio anche per un miscredente che se poca fede ha nell'oltremondo, di sicuro osanna i nostri avi, capaci più di noi di lasciarci imperiture meraviglie?
Non solo vale la pena viverci, ma varrebbe la pena viverci bene, acquisendo conoscenza della nostra storia e delle nostre antiche imprese, ma anche riappropriandoci delle semplici saggezze contadine che hanno sotteso la vita per millenni.
Basta con l'apparire appartenenti a un branco, cerchiamo di sentirci parte di un luogo, sue creature, tentacoli animati tesi ad operare ed operare bene, affinché altri posteri, magari fra mill'anni, si riconoscano in noi. Noi piccoli tasselli di un mondo unico, coi monti a far corona a tramonti inebrianti, di indaco e violetto.
Sergio Costanzo