Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Perché vale la pena tornarci
di Antonietta Timpano
Dopo Madamadorè e Daniela Sandoni, ecco le riflessioni sul perché vale la pena vivere qui di Antonietta Timpano, insegnante e residente a Molina alta.
“Il ritorno è inerente al corso della natura, / il movimento è circolare, / ogni cosa avviene da sé non appena il suo momento è giunto. / Questo è il senso di cielo e terra”. Da “I CHING”
Mai avrei immaginato di scoprirmi così visceralmente ancorata ai “miei luoghi”. Eppure è accaduto. Sono nata a Molina di Quosa, in Val di Serchio e volentieri me ne andai a vivere altrove, per parecchi anni, senza mai trovare pace. L'insofferenza verso la vita di provincia mi aveva a tal punto afflitta da cogliere la prima occasione per fuggire, alla ricerca di un luogo che non avesse le caratteristiche del mio di provenienza. Un luogo entro il quale poter passeggiare, sgusciare tra la gente senza il rischio di venire fermati, interrogati sui propri fatti privati, senza incorrere nel rischio degli obblighi sociali che un paese di neanche mille abitanti impone. Ho compreso che Molina non aveva colpe, che l'inquietudine è sempre stata un tratto del mio carattere e che il desiderio di essere altrove, idealizzando l'altrove come luogo magico e salvifico, mai veniva appagato; l'altrove si rivelava sempre deludente, poiché lo spostarsi, il “fluire”, lo “sgusciar via”, sono solo le sembianze attraverso le quali si manifesta la “paura del vuoto” che mi abita da sempre.
Grazie all'insofferenza e al bisogno nevrotico di fuga, una persona conosce, cresce e si arricchisce, misurandosi anche con il disagio causato dal trovarsi “senza radici” culturali, in luoghi alieni, entro paesaggi umani portatori di una cultura altra, diversa. Allontanandosi dal luogo dove si nasce e si cresce si scopre il valore del senso di “appartenenza”, il quale determina la nostra salute mentale. Non avrei mai scoperto il valore antropologico della comunità, costituita da persone che mai casualmente si trovano a nascere, crescere e vivere sotto lo stesso cielo e nella stessa unità di tempo. Il valore della comunità di persone, il senso di appartenenza, l'essere con-temporanei ad altri essere umani sono aspetti che ti determinano, che contribuiscono, nel bene e nel male, a far di te quello che sei.
L'appartenenza
Mentre facevo la spesa in un supermercato della zona, indossando dei pantaloni molto vistosi, colorati a grandi macchie, un compaesano, Niccola della Romana del Nicchio, che lavora in quel supermercato, mi apostrofa dicendomi “ti guardo i pantaloni, Antonié, sembri un fo'o di Sa' Ranieri”.
Se mi riconosco come individuo è anche perché ho radici in un luogo della terra, ben caratterizzato, specifico, unico. Il “paesaggio umano” è uno dei motivi per cui valga la pena tornare a vivere nei luoghi che ti hanno visto nascere e che ti adottano. Una comunità che si stringe attorno ad un bisogno di uno dei suoi componenti è quello che io e la mia mamma abbiamo sperimentato in occasione della malattia e della lunga degenza a letto di mio padre.
Un paese, Molina, che per la sua particolare ubicazione, in mezzo a due città importanti storicamente: Pisa e Lucca, è crocevia, è luogo di passaggio di mercanti, di ambasciatori, di soldati, di contadini. Questo essere luogo di passaggio l'ha reso paese “aperto” a nuove realtà, paese “poroso” a nuove storie, come le rocce dei suoi monti.Un luogo poroso assorbe le vite e le storie e le restituisce, come il “calcare cavernoso”, nome delle rocce del monte molinese, fa con l'acqua. La assorbe dalle sorgenti naturali e la restituisce arricchita dei propri minerali.Molina di Quosa si sviluppa con una struttura urbanistica a forma di croce. Dal monte scende sino all'aperta campagna di Colognole e Patrignone e dalla '”barriera” il confine con Rigoli, sfocia nel “vialone di Pugnano”. Ogni braccio della croce possiede ed ha sempre avuto una sua fisionomia culturale ed anche un idioma suo proprio. Il molinese del piano si distingue da quello del monte, che parla e vive diversamente, perché la morfologia del territorio ha richiesto diversi strumenti di adattamento ed ha avuto differenti storie abitative e lavorative.
Gli anziani molinesi, tra cui la mia mamma Franca Roventini, i preziosi 'testimoni del tempo” storico, culturale, sociale raccontano che in monte si parla, si mangia, si vive seguendo abitudini diverse. Ci sono inflessioni lucchesi nell'idioma. A Molina gli anziani omettono la doppia consonante ”r”. Terra diventa “tera” come nel gergo lucchese. La cucina dei “montanari” ha ricette sue proprie e una modalità sua di dosare gli ingredienti. Sembra strano osservare che, ai tempi della globalizzazione economica e culturale, un piccolo paese conservi ancora questo insieme di abitudini, dettate dalla fisionomia e dalla geografia del territorio.
L'eredità
L'insofferenza nei confronti del mio “relativo” terreno, rispetto ad un “assoluto cosmico”, per paradosso, ha contribuito alla formazione dell'attaccamento, del radicamento, senza il quale una persona rischia di vanificare la propria identità.
Massimo Recalcati, nel suo libro “Il complesso di Telemaco”, parla di “eredità” e afferma: “L'eredità non implica il ritrovamento di un'identità già fatta, di radici senza tempo, perché è un movimento che esorbita il familiare (...). Nell'ereditare sprofondo nel mio passato non per ritrovare le mie origini, ma per risalire, per emergere da esse. Questo sprofondamento non è un ritrovamento dell'identità della tradizione”. Prosegue affermando che i veri eredi sono coloro che non trovano i padri, ma che li perdono, dopo aver fatto propri “la possibilità del desiderio e le parole dell'Altro”, di cui i padri o chi c'era prima sono portatori.
Ecco il punto: senza le parole delle generazioni che mi hanno preceduto, senza l'essenza del loro desiderio, delle loro aspirazioni, credo che io, come animale culturale, non potrei essere quello che sento di essere. Ma questa riappropriazione è stata possibile grazie all'allontanamento temporaneo dai luoghi di nascita.
Il ritorno sull'acqua del Rio dei Molini
Vivo qui, in un posto che mi permette la “visione dall'alto”. Un punto di vista privilegiato. Il posto è bello ed è una riscoperta. Nel giardino della casa scorre il Rio, la cui voce accompagna i pensieri foschi e quelli lieti. Ogni luogo geografico possiede i suoi paesaggi, le proprie meraviglie, le proprie tessiture di relazioni sociali, ma i tuoi luoghi ti crescono dentro, li vivi sulla e con la pelle, li apprendi dalla lingua e dai racconti, non li leggi sui manuali di geografia o nelle guide turistiche. Il processo di adattamento, l'addomesticamento, come fenomeno che accorcia le distanze tra noi e l'esterno, è possibile solo qui e non in un altrove qualsiasi.
La morfologia, la geografia sarebbero niente senza la antropologia, senza la storia degli uomini e del loro passaggio su queste terre, dei loro sforzi per adattarsi e sopravvivere laddove la Natura rendeva la vita difficile, o dove la follia della guerra tendeva a distruggere vite e tradizioni. Nel giardino della casa c'è una grotta dove hanno trovato rifugio eremiti e chi cercava salvezza dalle guerre. L'acqua parla e potendola ascoltare racconta molto di più delle parole; diventa corpo, si fa cantore di storie antiche e nuove. Nella grotta c'è silenzio. Potrò innamorarmi di altri luoghi, potrò riascoltare il richiamo dell’”inquieto vento del sud”, che mi sussurrerà di sfuggire dalle angustie del già noto, ma niente potrà cancellare l'esperienza di questo ritorno. A casa.