Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Perché vivere qui? Perché sì
Continua la serie aperta da Sergio Costanzo sul perché vale la pena vivere in queste zone Alessio Niccolai, musicista e compositore, noto ai lettori della Voce per i suoi interventi sul Forum.
Perché vale la pena viverci? «Perché sì», sono convinto risponda di getto chiunque da queste parti si senta rivolgere questa domanda: perché è esattamente così che ribatteremmo noi genti della Piana di Pisa, introverse fino al parossismo, sentinelle gelose e spesso inconsapevoli di una gloria ed un orgoglio ancestrali, genti talvolta scorbutiche e vagamente sociopatiche ancorché capaci di regalare intelligenza emotiva a chicchessia; genti - toscane, toscane sì, anzi proprio fino al midollo! - che tuttavia (e purtroppo!) della loro toscanità si accorgono soltanto incrociando fuori dai confini regionali; genti avvezze, nella residente e quotidiana normalità, a camminare mestamente (e forse rassegnatamente) distaccate e inconsapevoli di cosa le circondi - di un patrimonio storico, culturale, ambientale e paesaggistico invidiato in ogni dove - sempre e comunque pronte ad auto-assolversi per cotanta paradossale e circostanziale indifferenza.
«Vale la pena viverci» perché nell’alveo di questo straordinario fiume, croce e delizia dei suoi rissosi dimoranti, tanta acqua è passata, tanta ne sta passando e tanta ancora ne passerà, a volte limpida, silenziosa ed amichevole, a volte torbida, irruenta e minacciosa.
Perché - forse - così è da sempre, dai tempi in cui scorrendo orientale al Monte Pisano, soleva pascere un Arno assai più focoso di come lo conosciamo e incline a spingersi verso i confini più meridionali di ciò che un giorno sarebbe divenuto Sinus Pisanus, o dai tempi in cui uno dei suoi tre rami - il più quieto - lambendo carezzevolmenteOrsiniano e Calidæ Aquæ si spinse fino a San Zeno per imboccare quella linea immaginaria sulla quale oggi si stende Via Contessa Matilde e gettarsi obliquo in quello stesso Arno - già più rettilineo e settentrionale - nei pressi degli Arsenali Repubblicani.
Proprio così, come se i due fiumi vestissero i panni degli eterni amanti - mutevolmente e sfuggevolmente intenti a rincorrersi all’ombra dei dolci colli tra la nostra bassa valle e laLucchesia, il Serchio, mascolino e impetuoso, perennemente in cerca dell’acqueo amplesso, l’Arno dal muliebre e panciuto ventre, sornione, femmineo, falsamente riluttante ad accoglier le virili profferte, nonché millantatore di una verginità in realtà perduta - in una cronaca infinita, signora di tanti e tanti destini abbarbicati alle loro sponde.
Così «vale la pena viverci» perché... perché il Castellaccio di Filettole si guadagnò cotale dispregiativo epiteto appartenendo ai Gambacorti - schiatta che annoveròGiovanni, colui cioè che nella notte tra l’8 ed il 9 ottobre del 1406 aprì le porte di Pisa ai fiorentini - o perché sul suolo immemore di Avane all’ombra di una trasandataVallecchia fu combattuta una (o forse più) delle tante battaglie fra la nostra città eLucca?
O perché a Vecchiano tra il XII° ed il XIII° secolo risiedettero - intorno alla Pieve di Sant’Alessandro - genti che si pregiarono di dare ai loro morti una sepoltura in pietra? O forse perché Migliarino a suo tempo fu un’isola? O forse ancora, perché nelMedioevo Malaventre - o Fossa Magna - fu un nucleo abitato latifondo di sovrani longobardi e sede di ben due parrocchie?
O perché Avane fu unico guado del Serchio per acri e acri, come ben e a proprie fatali spese poté evincere il povero Conte di Alchiberg al soldo di Galeazzo Visconti?
O perché sul Monte Spazzavento le orchidee nascono spontanee fra le mortelle e gli ulivi, mentre i leccini di «Macchia» sono buoni quasi quanto i boleti della Garfagnana e le arselle di Marina di Vecchiano - ancorché a me personalmente non piaccia il pesce - «sono ottime abbondanti» e - intelligenza d’arsellaio permettendo, più che abilità nella pesca - per tutti?!?
E sarà anche per quella cittadella medievale in cui - ogni volta che a Pisa incrocio nel rione di San Francesco - mi figuro di imbattermi, non fosse per quella stramaledetta «pescheria» che fu pretesto ad un’implacabile e perentoria tabula rasa, ne’ ahimè prima ne’ purtroppo ultima?
Come del resto - trascendendo lo squallido inno ad una spuria modernità - detestato da qualunque visitatore prima che da ogni pisano - rappresentato da Piazza Vittorio Emanuele, per quel troncone meridionale di mura del 1150 squarciato per far posto alla «Barriera» e cancellato via insieme alla memoria di Porta San Gilio?
Sarà per quell’«aspro odor di tini» che, allo scoccare di metà autunno, si levava puntualmente dalle cantine del «Palazzone» - l’apprezzata tenuta dominio dei «re italici» che, nella migliore delle ipotesi dette ospitalità, qualche anno prima della mia nascita a felici avvenimenti come il buon vecchio «Gitto d’Oro» e, nella peggiore, al pool di “sapienti” che lo trasformò nella nefanda speculazione edilizia di cui ancora oggi possiamo osservare l’esito impietoso - effondendo il suo inconfondibile aroma per tutta la Cafal Regio avanese e oltre, confondendosi con l’aroma resinoso dei fumi dei comignoli, andando «l’anime a rallegrar», senz’altro la mia?
Sarà per quelle povere navi romane che, non meno delle «Pietre Acheruntiche» di cui gli antichi disseminarono Pisa, saranno condannate al loro sempiterno esilio ipogeo o, al massimo, a ritrovare la fatua luce dell’oblio e della trascuratezza?
E potrei continuare ancora allontanandomi e riavvicinandomi al mio punto di osservazione senza soluzione di continuità, da quella culla ancestrale di saperi che è ilMonte Pisano, attraverso la Media Valle del Serchio fino alle più alte vette dell’Appennino Tosco-Emiliano, volgendo ovunque lo sguardo senza rimanere deluso e a bocca asciutta... potrei continuare con la mirabile sagoma dell’Antro del Corchia - già godibile a partire da quel tratto di Provinciale che unisce Nodica a Malaventre - rifugio di segreti e segrete, sepolti nei secoli di un paesaggio mozzafiato e culla di manieri come il Castello dell’Aquila, potrei continuare con quello spettacolare fortilizio sospeso in aria che campeggia sul capo di San Romano in Garfagnana, potrei continuare con le Mura di Lucca, potrei continuare con i brulli anfratti della Lima o spingermi oltre la Consuma per immergermi nella pace della Verna, nel cuore dellaToscana - in quella lingua di terra che congiunge Pisa, Firenze, Siena e Grosseto - per godere della vista di una teoria infinita di paesini rustici, sobborghi medievali (Volterra docet), chiese diroccate - come la splendida Abbazia di San Galgano - e riaffacciarmi sulla dolce costa, dominio incontrastato di pini marittimi, soffioni boraciferi e... straordinari sapori!
E potrei andare avanti ancora per sa Dio quanto, perché ci sono dieci, cento e mille motivi per continuare a «viverci», benché ogni giorno - spesso senza rendersene conto - qualcuno ne dissipi irreversibilmente una piccola e apparentemente insignificante goccia, tradendo il suo territorio, le sue vocazioni, abiurando alle aspettative della sua caparbia collettività, cancellando la sua memoria storica ma soprattutto, rigettando sé stesso, complice parimenti l’inclinazione istituzionale all’incuria quanto la trascuratezza, la sciatteria e l’ignoranza proverbiale in cui molti - purtroppo e molto spesso quelli dotati della facoltà di decidere anche per gli altri - si sono voluti precipitare.
E allora davvero «vale la pena viverci»?
Me lo chiedo non di rado quando la mia mente travalica le Alpi Marittime per trovare dimora in Camargue, nell’Hérault o nel Narbonese, all’ombra dei Pirenei, laddove cultura catalana e provenzale si uniscono tradendo - tra le altre - una loro comune origine: quella pisana.
Me lo chiedo perché nel Golfo del Leone incrociarono fruttuosamente e a lungo i prodigiosi armi della Repubblica Pisana, installando fondaci in tutta l’Occitania, dirottando su Montpellier, su Marsiglia e su tutta la costa franco-catalana fino alle Baleari.
Me lo chiedo quando vorrei restituire ai miei debilitati sensi un po’ di tempo che fu, vagando col pensiero per le lagune e le saline che da Aigues-Mortes a Narbona - attraversate dal Rhône à Sète, dando riparo a migliaia di fenicotteri rosa e aironi cinerini, circondate da ettari ed ettari di salicornia - si alternano ai generosi vitigni di ottimo Moscato bianco, a spiagge incontaminate - come dovrebbe aspirare ad essere la nostra Marina di Vecchiano - e cinte di malinconiche tamerici, a magici villaggi di pescatori intrisi di tradizioni, usi e costumi fra il lascito culturale pisano, il silenzioso riverbero cataro-albigese e la policroma e multiforme contaminazione gitana.
Me lo chiedo quando - ancora non di rado - la mia mente si sposta nel recesso più occidentale dell’Isola di Smeraldo, presso quel Connemara a cavallo fra sterminate torbiere, piccoli manieri e suggestive fattorie, quel Connemara nel quale ancora è fatto precetto di parlare il Gaelico, all’ombra di solitari e suggestivi fari sperduti in un’oceano azzurro come il cielo, o quando corre sulle «Terre Alte di Alba», l’antico e misterioso regno di un popolo trascorso felicemente ben aldilà del Vallo di Adriano; e me lo chiedo anche quando alle canicole estive delle nostre latitudini, la mia mente preferisce le gradevoli e fresche vallate ladine dell’Alto Adige, fra le rosee e dolomitiche vette coperte di ghiacciai perenni, fra gli sconfinati pascoli pronti a rimpinzare floride mucche dal latte superlativo, fra laboriosi ed umili cacciatori - loro malgrado - di marmotte e, ad un tempo, agricoltori, allevatori ma, soprattutto, gelosi custodi di una tradizione discesa addirittura dai Reto-Romanci.
E qualche volta - lo confesso - scapperei via, lasciandomi irreversibilmente tutto alle spalle, qualche volta prenderei un biglietto di sola andata per me e la mia famiglia verso una di queste terre dove ancora non si è diffusa la dannata abitudine di porre ad un musicista-compositore - quale modestamente mi sento di essere - la rituale domanda: «ma per vivere che lavoro fai?», sbarcando il lunario in qualcuno dei novecento scoppiettanti pub di Dublino - magari in quella magica atmosfera di Temple Bar dove «fare musica» paga e gratifica - o, addirittura, per qualche remoto fiordo della Finlandiadove tale condizione si accompagna anche ad elevati redditi e considerazione.
E qualche volta ancora mi sposterei all’ombra del «Gardienne du Vent» fra Frontignane Vic-la-Gardiole nella Linguadoca marittima sullo sterminato Étang de Thau, cercando magari rifugio in una «Cabane de Gardian» - quanto di più probabilmente simile possa esistere ai dimenticati «capanni di falasco» nostrani - dedicandomi nel tempo libero ad una fruttuosa raccolta di conchiglie, a fotografare fenicotteri (che sono così numerosi da fare loro «Human Watching») e a studiare l’infinita teoria di canali, di reti da pesca e di barche catalane (o forse anche pisane?), o ancora, in un bel maso della Val Badia ad attendere che il lungo inverno ceda il passo alle aromatiche fioriture primaverili, rincuorato dal tepore di un bel camino come una volta se ne dovettero conoscere tanti anche qua.
Ma poi - immancabilmente - ci ripenso perché, alla fine, ciò che andrei cercando in quei luoghi è esattamente ciò che sarebbe sacrosanto ritrovare qui, perché molto di quanto vi troverei - dovrei riconoscere - provenire dalle nostre amate latitudini, ancorché disperso nei cupi meandri di una memoria labile e annebbiata.
Non è amor patrio il mio, per carità: chiunque mi conosca sa bene quanto profondamente internazionalista sia la mia formazione; se casomai di qualche vago sentimento patriottico posso avvertire imbevuto il mio spirito, è senz’altro per la Toscana o, a maggior ragione, per questa straordinaria città che, se Dio guardi (ma la storia non si fa con i «se») fosse mai rimasta la grande e potente Repubblica che fu stata almeno a tutto il XIII° Secolo, oggi avrebbe sapientemente guidato l’evoluzione in una direzione diversa da quella - ahimè - intrapresa dalla storia.
Non ho d’altra parte alcun motivo fondato per ritenere che eventi di grande peso storico-politico come il Risorgimento Italiano dovessero culminare in una sostanziale resa della nostra regione alla malefica dinastia sabauda la quale, per i destini di Pisa fu addirittura più catastrofica e nociva degli stessi Medici e, senz’altro, niente di minimamente paragonabile ai bonari Lorena che - attenti e persino ispirati (utilitaristicamente, certo!) finanche alla Rivoluzione Francese e al Napoleonismo - per contro, le avrei continuato a preferire.
C’è dunque un amore atavico, ancestrale, un qualcosa di irrinunciabile e insaziabilmente proteso a tenermi saldo e ancorato a questa terra, alla sua comunità, ai suoi usi e costumi, ancorché - purtroppo - sotterrati sempre più spesso nell’oblio della memoria; c’è qualcosa che mi fa trascendere l’ingerente e sempre più diffusa presenza del cemento a tenermi fermamente aggrappato alla Piana di Pisa, c’è qualcosa che mi fa scrutare oltre l’appiattimento contemporaneo, la devastazione sensoriale, la riduzione sistematica di ogni cosa - dai sapori ai paesaggi - portandomi a sondare l’insondabile, a coccolare una tradizione e una cultura che - alla stregua della più influente e formidabile sostanza psicotropa - mi impone di studiarne, sempre di più e sempre più a fondo, i precetti, le abitudini, le radici, le vicissitudini storiche.
Mi è più congeniale allora provare a diffondere un verbo - che forse i nostri antichi diramarono presso alcune delle terre di cui sopra e le comunità che le popolarono e ancora le popolano - un tempo già padrone incontrastato di questi luoghi, a loro modo ancora ameni e capaci di saziare la cupida ingordigia dei nostri cinque sensi, quando con una prospettiva mai osservata fino ad ora, quando con un manicaretto di buona cucina della nonna, quando con un aroma che riporta la memoria ad altre epoche.
E del resto non serve poi molto altro per sapere se «vale la pena viverci»: il volto compiaciuto di mia mamma al ritorno da una delle sue non desuete «orette in monte» col suo trofeo di squisiti asparagi alla mano o intenta a preparare la sua «‘nzuppa come Dio comanda», il rapimento di mia moglie - pisana adottiva - nel preparare la sua «torta co’ bischeri», il suo «uscetto dell’orto» o la sua specifica declinazione di «crostino toscano»; e poi c’è il «pesco d’Amulio» in Via Erbosa in Avane che, per la bontà dei frutti, sembra inoculato nel terreno dalla mano di una divinità olimpica, c’è una teoria di argini degna della più struggente e formativa escursione, c’è quella «Torre Mozza» che sorniona guarda invariabilmente il Serchio, in attesa che qualcuno si ricordi della sua esistenza, c’è quel «Castello» sospeso come una sentinella amorevole sopraVecchiano che forse un giorno vomiterà i suoi quaranta sarcofagi del 1100 affinché ai visitatori sia dato in pasto qualcosa di più e di più interessante della Marina di Vecchiano che, non lo dimentichiamo, è un po’ «il ridente giardino di casa nostra» e non una fabbrica di attrattive.
Certo, non c’è più «Giovanni Ir Macellaro», ne’ il campo delle «Faustine» dirimpetto alla scuola di Avane; e, a onor del vero non c’è più neanche l’edicola, l’ufficio postale, il tabaccaio; ma l’olio sul crinale orientale del Monte Spazzavento è ancora il più pregiato, il migliore di tutto il Monte Pisano... e, se solo lo producessero gli amiciTiziano Nizzoli o Nicola Bovoli, - che di cultivar, di olive e d’olio si intendono come mai nessuno - magari restituirebbe anche qualche posto di lavoro...
E, se solo quel ben di Dio che langue - solitario, dimenticato e alla polvere - nei recessi del vecchio - e pur ancor vigoroso - «Frantoio», magari un bel museo potrebbe vedere la luce, ripagando Avane di quello che il compianto Giovannino Lazzerini offrì a Vecchiano per veder esiliato a Venturina, non lontano da dove anche - l’amico e collega musicista -Sauro Scarsini (in arte «Dado») si accasò a suo tempo - pur memore e grato delle sue origini - seguendo un po’ il destino del «Sassicaia», nato nella parte più occidentale del nostro comune, ma migrato e valorizzato sulla Costa degli Etruschi.
Ma c’è sempre una consolazione a tutto: se il «pesco d’Amulio» è uno (forse sei o sette, per la verità!), ci son sempre Dante (detto «Carattere») e la sua fida Argia che ne producono a bizzeffe e di tante varietà in Via dello Stallone, c’è Raffaello in fondo a Via del Poggio che fa anche le «pere cosce» e il caldo «rosso del contadino» - e ci sono ilGrossi a Vecchiano e il Pardini a Nodica che non hanno abiurato alla vocazione agricola di queste terre; e, se ciò non dovesse bastare, c’è ancora Angelo «il Pastore» che non ha più il suo inseparabile gregge di pecore, ma di capre sì e, volendo «ritrovare» la sua opalescente e deliziosa ricotta ovina, si può ancora confidare inViviano a Filettole o nella Chiarina a Vecchiano.
Cosa desiderare di più per stabilire se «vale la pena viverci»? Non molto forse: stamattina, l’undicesima del mese di agosto dell’Anno del Signore 2013, un gruppo di attempati ma ridenti turisti olandesi in bicicletta, incrociando per la Via di Falcata inAvane, mi ha fermato richiedendo in Inglese la mia attenzione; ho risposto loro, con malcelata antipatia per la lingua d’oltre-Manica: «I don’t speak English but I speak French...» e un gentile e corpulento membro della comitiva, spiattellandomi uno stentato Francese mi ha chiesto delucidazioni su dove si trovasse la Via di Cafaggio.
Mostrandomi la stampa di una inconfondibile «Google Map», mi ha fatto capire che la compagnia di veterani andava cercando la Piazza del Mercato: osservando che la destinazione finale non era in particolare nessun numero civico, ho pensato che l’oggetto della loro ricerca fosse proprio la piazza in sé, cosicché, senza difficoltà alcuna - data anche l’esigua distanza - ho dato loro le necessarie delucidazioni.
Poi, trasalendo, ho avuto la sensazione che quanto stava cercando fosse in realtà il «Palazzone» di cui sopra, così, d’istinto mi sono lasciato andare ad un imbarazzato: «Mais attention: il n’y a rien à voir là-bas; le petit marché n’existe plus depuis longtemps et l’édifice historique en face de la place a été complètement bouleversé par la spéculation immobilière!».
Ma il gradevole olandese, sorridendo mi ha risposto: «Ça fait rien, merci...» per poi ripartire seguito alacremente dalla sua comitiva: me ne sono andato anch’io meditando sull’emblematico episodio.
Dapprima ho azzardato l’ipotesi che ad aver inviato la «senior dutchman bike company» fosse stato il buon vecchio amico «Falco» - uno dei figli del nostro sommoGiorgio Giannetti, protesista dentale d’eccezione nonché pittore, musicista e scrittore di grande talento - convolato a nozze in Olanda ormai tanti anni fa.
Dopodiché, rigettata tale improbabile evenienza, mi sono detto che se dal Nord Europaun gruppo di non giovanissimi visitatori si mette in viaggio alla volta della Toscana per appagare la propria sete di curiosità, soltanto visitando la Piazza del Mercato di Avane- una frazione ridotta ormai ad una landa deserta - allora - signori miei - davvero «vale la pena viverci».