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Una vicenda tutta personale viene descritta in questo nuovo articolo di Franco Gabbani, una storia che ci offre un preciso quadro sulla leva per l'esercito di Napoleone, in grado di "vincere al solo apparire", ma che descrive anche le situazioni sociali del tempo e le scorciatoie per evitare ai rampolli di famiglie facoltose il grandissimo rischio di partire per la guerra, una delle tante. 

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per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Ripafratta, 12 luglio
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Bagno degli Americani di Tirrenia
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Molina di Quosa, 8 luglio
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Casciana Terme Lari-Pontedera, 12 luglio-3 agosto
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San Giuliano Terme, 30 giugno
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Alzarmi prestissimo al mattino
è un'adorabile scoperta senile
esco subito in giardino
e abbevero i fiori
Mi godo la piacevole
sensazione
del frescolino .....
Nel paese di Pontasserchio la circolazione è definita "centro abitato", quindi ci sono i 50km/ h max

Da dopo la Conad ci sono ancora i 50km/ h fino .....
ANNIVERSARIO
La tragedia del Vajont
(9 ottobre 1963)

9/10/2013 - 8:46


La tragedia del Vajont
L'evento fu dovuto ad una frana caduta dal versante settentrionale del monte Toc, situato sul confine tra le province di Belluno (Veneto) e Udine (all'epoca dei fatti, ora Pordenone, Friuli-Venezia Giulia), staccatasi a seguito dell'innalzamento delle acque del lago artificiale oltre quota 700 metri (slm) voluto dall'ente gestore per il collaudo dell'impianto, che combinato a una situazione di abbondanti e sfavorevoli condizioni meteo (forti precipitazioni), e sommato a forti negligenze nella gestione dei possibili pericoli dovuti al particolare assetto idrogeologico del versante del monte Toc, innescò il disastro.

Alle ore 22.39 di quel giorno, circa 260 milioni di m³ di roccia (un volume quasi triplo rispetto all'acqua contenuta nell'invaso) scivolarono, alla velocità di 30 m/s (108 km/h), nel bacino artificiale sottostante (che conteneva circa 115 milioni di m³ d'acqua al momento del disastro) creato dalla diga del Vajont, provocando un'onda di piena tricuspide che superò di 200 m in altezza il coronamento della diga e che, in parte risalì il versante opposto distruggendo tutti gli abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso, in parte (circa 25-30 milioni di m³) scavalcò il manufatto, che rimase sostanzialmente intatto seppur privato della parte sommitale, riversandosi nella valle del Piave, distruggendo quasi completamente il paese di Longarone e i suoi limitrofi. Vi furono 1917 vittime di cui 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri comuni.
Lungo le sponde del lago del Vajont, vennero distrutti i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè e la parte bassa dell'abitato di Erto. Nella valle del Piave, vennero rasi al suolo i paesi di Longarone, Pirago, Maè, Villanova, Rivalta. Profondamente danneggiati gli abitati di Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna. Danni anche nei comuni di Soverzene, Ponte nelle Alpi e nella città di Belluno dove venne distrutta la borgata di Caorera, e allagata quella di Borgo Piave.
 
Nel febbraio 2008, durante l'Anno internazionale del pianeta Terra (International Year of Planet Earth) dichiarato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in una sessione dedicata all'importanza della corretta comprensione delle Scienze della Terra, il disastro del Vajont fu citato, assieme ad altri quattro eventi, come un caso esemplare di "disastro evitabile" causato dal “fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere la natura del problema che stavano cercando di affrontare”.


Passati un paio di giorni, io e l’amico Roberto Petri (Pippo) andammo a vedere di persona quello che era successo e che aveva scosso e colpito tutta l’Italia. Dopo un lunghissimo viaggio notturno in treno fra Migliarino Pisa Firenze Bologna e Venezia Mestre, arrivammo all’alba a Belluno da dove sarebbe stato ben difficile arrivare a Longarone. C’erano file di camion militari che sopperivano ai trasporti e fummo caricati su un mezzo dell’esercito.

Madonna mia che disastro!  Avevo sfiorato la guerra senza averne ricordo data la piccola età, avevo visto al cinema film di catastrofi (molto leggere data la moda del tempo) ed ora mi ritrovavo in un ambiente che era un’apocalisse, una vera guerra da fine del mondo.
Un soldato ci fece indossare delle mascherine bianche e non ne capii il motivo finché non fummo a Longarone: l’aria di morte che avevamo percepito dentro di noi ora era tangibile nel naso, un tremendo odore ti attanagliava il cuore più che le narici e non ci fu altro che credere  sperare volere fosse quello di cani cavalli e mucche sepolti sotto le macerie!
Avevamo tutti e due la cinepresa e andammo indisturbati fra le macerie delle case, i grovigli dei binari della ferrovia che avevano fatto dei nodi come spaghi, fin sotto il campanile della chiesa, il solo edificio ancora in piedi intatto!
Fra le rovine incontrammo due ragazze della nostra età che erano venute a cercare di vedere la casa dei nonni. Passammo l’intera mattinata  con loro e fummo poi invitati a Belluno a pranzo in casa dei genitori di una di esse.
Strana cosa ricordare una giornata così per la compagnia, ma se la faccia della ragazza è svanita, come pure il cibo mangiato e la casa ospite, non lo sarà mai quel camion e quell’odore.

Fonte: u.m.
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