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Evento davvero memorabile a san Giuliano Terme il 25 luglio a partire dalle ore 18, all'interno del Fuori Festival di Montepisano Art Festival 2024, manifestazione che coinvolge i Comuni del Lungomonte pisano, da Buti a Vecchiano."L'idea è nata a partire dalla pubblicazione da parte di MdS Editore di uno straordinario volume su Puccini - spiega Sandro Petri, presidente dell'Associazione La Voce del Serchio - scritto  da un importante interprete delle sue opere, Delfo Menicucci, tenore famoso in tutto il mondo, studioso di tecnica vocale e tante altre cose. 

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di Matteo Renzi, senatore e presidente di IV
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Da un'intervista a Maria Elena Boschi
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di Roberto Sbragia - Consigliere provinciale di Pisa Forza Italia
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Una "Pastasciutta antifascista"
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Pontasserchio, 18 luglio
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Pisa, 19 luglio
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di Alessio Niccolai-Musicista-compositore, autore
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Il mare
con le sue fluttuazioni e il suo andirivieni
è una parvenza della vita
Un'arte fatta di arrivi di partenze
di ritorni di assenze
di presenze
Uno .....
Nel paese di Pontasserchio la circolazione è definita "centro abitato", quindi ci sono i 50km/ h max

Da dopo la Conad ci sono ancora i 50km/ h fino .....
A tutto reality: in principio l’auto-conservazione della casta televisiva, in seguito tutte le altre
A tutto reality:a cura di Alessio Niccolai

18/3/2014 - 17:21

A tutto reality: in principio l’auto-conservazione della casta televisiva, in seguito tutte le altre
 
Corre l’anno 1981 e l’imperscrutabile, enigmatico Franco Battiato, che indossa «occhiali da sole» (anche di notte) «per avere più carisma e sintomatico mistero», fulmina - ad un tempo e nel breve volgere di una canzone che quell’estate sarà fra le più gettonate nei jukebox italiani - una stagione ed una generazione; ne fanno le spese fin da subito il grande Bob Dylan («Mr Tamburino», alla cui convinzione che i «i tempi stiano per cambiare» (è evidente il riferimento a «the times they are a-changin’») l’intellettuale siciliano replica allora di indossare un maglione («rimettiamoci la maglia […]» e, in rapida successione, l’italico Alan Sorrenti che dal rock progressivo e sperimentale di «come un vecchio incensiere all'alba di un villaggio deserto» del 1973 si imbranca con i «figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro».
«Bandiera bianca» - questo, come molti avranno capito, è il titolo di quel capolavoro - passerà quindi in rassegna le «Tribune Politiche» di Ugo Zatterin, irriderà la canzone «tutte le mamme» di Gino Latilla e Giorgio Consolini, porrà l’accento sulla più celebre opera del filosofo Theodor Adorno («minima [im]moralia») che il testo della canzone nel suo complesso sembra voler magnificare, lasciandosi ancora lo spazio per un'acre citazione da «the end» dei Doors («The end, my only friend, this is the end»).
Corollario di una caustica riflessione intorno alla società dei consumi di inizio anni ‘80, che Franco Battiato è riuscito ad incapsulare in una canzonetta così gradevole e orecchiabile - pur se capace ad un tempo di non abdicare ai principi, allo stile e al piglio decisamente “sperimentalista” e colto del compositore -, è il verso: «[…] e sommersi soprattutto da immondizie musicali».
La sintesi più estrema della meditazione intorno ai problemi - a quei tempi ancora evidentemente agli esordi - di una società che ben presto avrebbe iniziato a fare i conti con la globalizzazione prima e con l’«Austerity» dopo, è rimandata a questo paradigmatico verso che - nella convinzione di Franco Battiato (perfettamente condivisa dal sottoscritto) - vuole la musica capace di riflettere vizi e virtù dell’intero scibile umano.
Da quell’effervescente inizio dell’ultimo ventennio del XX° secolo è passata molta acqua sotto i ponti, ma ai crepuscolari scenari dipinti in «bandiera bianca» dall’artista catanese il mondo, non soltanto non ha saputo frattanto preferire qualcosa di diverso ma - per contro - su di essi ha inteso edificare un nuovo ordine.
Gli ingredienti di questa straordinaria debacle sociale planetaria erano lì, già sotto gli occhi di tutti e, in Italia, ben oltre ogni umana aspettativa e concentrati all’interno del più potente dei giocattoli: la televisione.
La televisione innanzitutto come ascensore sociale: storie di ogni genere che attraversano il Bel Paese da Nord a Sud, storie che stringono il cuore, storie di bambini prodigio come quella di Gian Luigi Morandi che da garzone nella modesta bottega del padre si ritrova magnificato dalla cultura nazional-popolare con canzoni quali «fatti mandare dalla mamma»; la televisione poi come occasione sociale e premio meritorio, la televisione cioè svagata di metà anni ’50, la televisione di Mike Bongiorno e dei telequiz che - alla stregua della dea bendata - pesca tra le pieghe della società post-bellica tanto il brulicante proletariato suburbano del Nord che quello agricolo e fondiario del Sud, costituendosi mutuo soccorso al suo cospetto ed inoculando nella platea dei telespettatori l’idea che un certo merito alla fine possa essere premiato in qualche modo.
Ma, soprattutto, la televisione come motivo di competizione; una competizione bonaria, amichevole, una competizione fatta assecondando nel modo più disteso il principio latino «ubi major, minor cessat», una competizione che - almeno nelle intenzioni - sembra volersi ispirare a quello spirito olimpico del «primus inter pares», del grande abbraccio collettivo in cui due braccia si rivelano più lunghe e più capaci di cingere di tutte le altre.
Ma nel 1981, a soli sette anni dalla sentenza N° 225 del 1974 e a soli cinque dalla N° 202 del 1976  della Corte Costituzionale in materia di emittenza televisiva privata, le televisioni “altre” scalpitano nel tentativo di aggiudicarsi prerogative fino a quel momento garantite soltanto alla RAI; alcune invece scelgono la via dell’acquisizione di peso politico, come capita a quella holding - nata appena due anni prima e capace di mettere sotto uno stesso tetto aziende del calibro di Milano Due, Italcantieri, Edilnord dal comparto edilizio, ad altre del comparto editoriale come Telemilano o la Società Europea di Edizioni e, via via un numero crescente di altre realtà imprenditoriali - che sarà (tristemente) nota di lì a poco come Fininvest e che, appena tre anni più tardi annovererà fra le proprie fila ben 5.000 dipendenti vedendosi incrementare i ricavi dal 1985 al 1991 dai 1.600 miliardi di vecchie lire ai 10.000.
L’ascesa del gruppo Fininvest sembra non conoscere limiti, fagocitando realtà - soprattutto in campo editoriale - di interesse strategico per la propria affermazione finanziaria ma, soprattutto, politica, fino alla consacrazione del 1995, anno in cui il settore televisivo assume una dimensione autonoma dal resto delle attività con la creazione di Mediaset.
L’offerta profusa fin dall’inizio dai canali Mediaset - Canale 5, ovvero la nuova veste dal 1982, di Telemilano, Rete 4, un palinsesto ereditato dal gruppo Mondadori, e Italia 1, ceduta dall’editore Edilio Rusconi nel 1982 - è fortemente alternativa a quella di stato e, tuttavia, diversamente da altre emittenti, si rivela capace di mantenerne - almeno sulla carta - certuni standard qualitativi.
Il che significa che - potendosi permettere, a differenza di altri competitor, ingaggi elevati in forza del sempre maggiore peso economico ascrivibile al gruppo - la televisione secondo Mediaset non deve essere fatta da quella infinita teoria di promozioni ai servizi erotici che contraddistingue nottetempo la quasi totalità delle televisioni private tra il 1985 ed l’inizio del XXI° secolo, ma di un’offerta fatalmente capace di contendere lo share alla RAI, con un occhio di riguardo al mercato pubblicitario.
Il resto è storia recente: Mediaset è il parassita che - mentre si moltiplica esponenzialmente il potere politico del suo creatore - sottrae alle televisioni di stato linfa vitale, soggiogandole e relegandole progressivamente ad una posizione subalterna, finché non ne divengono una mera appendice, un’occasione accessoria e tremendamente golosa per estendere la propria sfera di influenza tanto editoriale che politica all’ambito pubblico.
Nel 2009 la resa incondizionata delle televisioni di stato allo strapotere della holding della famiglia Berlusconi: Maria De Filippi, eminenza grigia di Canale 5 e sovrana di uno dei più potenti baronati televisivi, si aggiudica la conduzione del Festival di Sanremo, inoculandovi come se niente fosse il veleno mortale della trasmissione «Amici».
Frattanto però e a proposito di Maria De Filippi, a partire dal 14 settembre 2000 - giorno della prima del «Grande Fratello» - anche l’Italia si è piegata, per non dire proprio genuflessa, al flagello del reality show: se ne contano - in circolo tra la moltitudine di canali resi disponibili dall’entrata sulla scena nel 2003 di un competitor assai più potente di Silvio Berlusconi, la piattaforma Sky di Rupert Murdoch - la bellezza di 55, rimessi in onda anche decine di volte per puntata.
Tutto il lavoro svolto dai canali Mediaset nel corso di tutti gli anni ’90 e paradigma delle televisione del nuovo millennio, è stato incentrato principalmente nel radicalizzare una certa funzione, in precedenza svolta incidentalmente dalla RAI: appunto quella di assurgere ad ascensore sociale per antonomasia.
Non è un caso che fra i primissimi ad effettuare il salto della quaglia dalle televisioni di stato ai palinsesti Mediaset sia stato proprio Mike Bongiorno o, sostanzialmente, un’icona di una certa tv e di un certo modo di fare tv.
L’idea che Mediaset è stata capace di inoculare nell’immaginario collettivo, il sillogismo strategico ed irrinunciabile con cui ha deliberatamente scelto di aggredire il suo pubblico distante, è stato senz’altro funzionale all’ascesa politica del suo creatore: l’idea cioè che - nei recinti di un sistema sempre meno equo, sempre meno capace di dare risposte concrete ai problemi della quotidianità - a tutto potesse esistere una soluzione. Una soluzione però devastante sul piano della percezione collettiva e della tenuta sociale: l’individualismo.
I reality show sono stati - in buona sostanza - la ciliegina sulla torta di una strategia della tensione non dichiarata, perpetrata senza far esplodere bombe e/o senza atti di violenza pubblica: uno strumento attraverso il quale eleggere la competizione - e non più quella bonaria e olimpica cui una certa RAI ci aveva abituati nel corso degli anni ‘60 ma quella - all’ultimo sangue, quella della serie «there can be only one», per parafrasare Christopher Lambert in «Highlander», a paradigma di vita e motivo di auto-elevazione sociale.
Gli ingredienti di un successo forse inaspettato, sono da ricercare proprio fra le pieghe dell’esistenza di coloro fra quanti si siano messi in gioco, che sia l’operaio metalmeccanico, il nobile decaduto, il pastore che non riesce a vivere del proprio lavoro, il piccolo imprenditore in affanno, la casalinga frustrata, il pensionato annoiato: una storia, tante storie elette ad esempio, vicende comuni quasi banali, vicissitudini in cui chiunque si può identificare perché specchio - in qualche loro parte - della propria esistenza; storie dunque che hanno la capacità di tramutare l’essere umano in uno spettatore suo malgrado.
C’è poi quella componente psicologica - mutuata dall’inclinazione inamovibile al campanilismo italico, quella in ragione della quale le curve degli stadi non sono mai vuote, quella che trae la sua origine nella contrapposizione di epoca signorile fra Guelfi e Ghibellini - che dissimula necessario schierarsi con qualcuno prescindere dal «non condiviso o condivisibile», quel moto dell’anima cioè che fa precetto di indulgere verso il «sostenere il…» o «parteggiare per…» ancorché non ne esistano le condizioni o le convinzioni.
Ciò che sfugge alla maggioranza dei fruitori passivi dei reality, è il meccanismo attraverso il quale la casta televisiva ricicla sé stessa, innestando occasionalmente qualche nuovo volto - mai e poi mai una Anna Magnani, un Nino Manfredi, un’Alberto Sordi, un Vittorio Gassman, ma quasi sempre un Marco Carta, un Luca Argentero, un Flavio Montrucchio, un Luca Vianello o una Carolina Marconi - ma soprattutto, conservando sistematicamente quelli vecchi, ben curati dalla chirurgia estetica e mai disposti a mollare la posizione di privilegio aggiudicatisi; tutto si basa su un principio caro agli events organizer di professione, più specificamente dediti alla creazione di concorsi a premi: «l’unico vero vincitore di ogni competizione è l’organizzatore; solo incidentalmente c’è almeno un vincitore anche fra i concorrenti».
È qualcosa di piuttosto semplice da capire e trae spunto ed insegnamento da tutte le più grosse competizioni in cui sia stata coinvolta la televisione, prime fra tutti il Festival di Sanremo stesso e Miss Italia: creare un «prodotto televisivo» capace di bucare lo schermo significa investire molto ed esporsi a rischi importanti.
I discografici per primi e proprio attraverso la kermesse “musicale” ligure, hanno compreso come ridurre drammaticamente la propria esposizione economica e massimizzare le possibilità di riuscita in un’operazione che - una volta all’anno - li raggruppi in una sorta di grande consorzio capace ad un tempo di attrarre investimenti pubblicitari, di tenere in auge il proprio parco di artisti navigati e, incidentalmente, di creare qualche nuova fonte di introiti.
Sarebbe stato sufficiente ricongiungere questo principio ben noto alle produzioni televisive, ad un’idea di «democratizzazione» dell’accesso televisivo per ottenere il più efficace risultato che si potesse conseguire da un palinsesto televisivo.
Il reality show è stata la migliore sintesi di tutta questa teoria di venefici ingredienti, partorita - non a caso - negli States, la patria per antonomasia del business: mettendo insieme un «testimonial» un personaggio (o più) di consolidata fama, una truppa di competitors - fatta di gente comune, presunta tale e senza particolari doti comunicative - impegnata ad azzuffarsi in un format televisivo inebriante, seducente ma, soprattutto, capace di legare lo spettatore al personaggio come in una soap opera - ad un certo numero di effetti speciali, il gioco è fatto.
Disgraziatamente la catastrofe che si è abbattuta sulla televisione - a partire dalla diffusione sia del digitale terrestre che di quello celeste - spazzando via quel poco di educativo che a fatica la RAI era riuscita a costruire tra gli anni ’60 e ’70, non è stata circoscritta all’ambito stretto dei reality, ma - ahimè - ha esteso i suoi tentacoli finanche su programmazioni apparentemente «senza peccato»: se prendiamo ad esempio trasmissioni come «Ti lascio una canzone» di Antonella Clerici, scopriamo che il virus letale del reality ha travalicato i confini del buonsenso per aggredire l’innocenza infantile.
Nello specifico, troviamo due volti straordinariamente «nuovi», quello di Fabrizio Frizzi e di Enzo Ghinazzi - in arte Pupo -, ed altri due più «nobili» come quello di Cecilia Gasdia, soprano lirico salito agli onori della cronaca nel 1982 allorché ebbe l’onore di sostituire Montserrat Caballé alla Scala di Milano in «Anna Bolena» di Gaetano Donizetti, e di Massimiliano Pani, compositore e autore discreto, sobrio e - per molti versi - defilato, ma pur sempre figlio di Mina.
Dei quattro, agghiacciante senz’altro è la presenza di Pupo, enfant prodigio e esso stesso - al pari di Gianni Morandi - vicissitudine emblematica del figlio di una famiglia «comune» che raggiunge il successo, ma anche e notoriamente uomo alla cui porta la fortuna si è permessa a bello studio di bussare più volte, non meno di due… cosa che - nel complesso - ci può stare, per carità, se non fosse che a personaggi di ben altro calibro come - ad esempio - Francesco Nuti non ha voluto accordare la stessa premura! Ma, del resto, «la fortuna è cieca», o no?
Un paio di ospiti «deluxe» per serata, il tormentone del televoto ma, soprattutto, bambini tra gli otto ed i quattordici anni che si contendono… che si contendono che cosa?
In verità niente: il vero oggetto della competizione è un certo repertorio musicale, composto talvolta di «sempreverdi», talaltra di canzoni perfettamente sconosciute che, quantunque siano alla fine interpretate da non professionisti (il che non guasta perché abbatte un certo numero di costi!), comunque producono cospicue royalties SIAE; il criterio con cui le opere in lizza vengono abbinate è del tutto - io credo - arbitrario ma, di certo, abbastanza intelligibile nello scopo: quello di far vincere al televoto - in una sfida molto spesso improbabile, se non improvvida - una canzone piuttosto che un’altra in maniera assolutamente prevedibile.
Del resto, mentre lo spettatore si concentra sulla canzone da sostenere e dunque sulla sfida in corso, ai partecipanti - nella loro innocenza infantile assai solidali fra di loro ed avvolti da quell’aura di olimpica partecipazione - non interessa nient’altro se non cantare e farlo davanti ad un grande pubblico, sotto i riflettori di un palco importante, con un’orchestra di tutto rispetto, al cospetto di un direttore come il M° Leonardo De Amicis o di ospiti pregiati.
Ma quest’idea dominante della competizione non può venire meno in nessun modo: conviene a chi vince quanto a chi perde (alla fine le opere in lizza si ripartiranno lo stesso volume di diritti d’autore) ed aumenta lo share.
E intanto, mentre i genitori dei bambini guardano commossi i loro figli cantare, mentre ad almeno uno per puntata viene accordato un certo approfondimento personale (nel pieno rispetto della logica dei reality) i volti della Clerici e degli altri coadiutori si mantengono impressi nella mente degli italiani, non più per il loro valore artistico, ma per la loro implacabile capacità di discernimento… cosa vuol dire ciò? Probabilmente ottenerne una presenza a costo assai più basso del presumibile: del resto potrebbe - che ne so? - Michael Schumacher farsi pagare per cantare un frammento di una canzone di Frank Sinatra quanto si fa pagare per guidare una vettura di Formula 1?
Ma, se questo baby-rovello del sabato sera non dovesse bastare, che dire del tormentone Sky nome in codice «Masterchef»? «Dilettanti allo sbaraglio» (come prescriveva la buona vecchia «Corrida» che fu prima di Corrado Mantoni e poi di Gerry Scotti, quest’ultimo - non a caso - sempre implicato in qualsiasi produzione Endemol) è la parola d’ordine di questo nuovo genere di para-reality per certi versi ancora più grottesco del format da cui trae la sua origine.
Tempi di vacche magre, tempi in cui anche la televisione può fare da ascensore sociale sì, ma per un numero limitatissimo di fortunati; tempi in cui la capacità artistica è un ingrediente velleitario, qualcosa che presuppone ingaggi importanti; la televisione in tempi di «Austerity» non può permettersi il lusso di pagare molto a molte persone: meglio strapagarne un numero limitato e aggiudicarsi pressoché gratuitamente tutto il resto.
Allora perché non unire l’utile al dilettevole? La maggior fonte di profitti televisivi nell’era del web 2.0, non è in fondo la pubblicità? Perché dunque non coinvolgere nei cicli di produzione televisiva possibili imprenditori che possono avvalersi di target promozionali indiretti, come Joe Bastianich, proprietario di una prestigiosa catena di ristoranti con sedi principalmente negli USA e in Italia, o come Carlo Cracco, la cui popolarità è talmente vasta da potersi permettere - pur nella semplice qualità di chef executive del Cracco Peck - di far proclamare una delle tante creature di «Amici», Annalisa Scarrone fra i Big dell’edizione 2013 del Festival di Sanremo con la canzone «Scintille», poi classificatasi al 9° posto?!?
Ma, alla fine della fiera, il risvolto più inquietante di questo baraccone falsamente permeabile dalla società civile che è il mondo patinato della televisione e, probabilmente, la vittoria più importante conseguita dagli strateghi di Mediaset, non è una vicenda di entertainment ma un politica: le «primarie».
Ad un certo punto qualcuno si è reso conto che il tram tram dovuto alla competizione - vera o falsa che fosse - tipico dei reality o dei para-reality, oltre che economico, altamente produttivo e capace di attirare risorse anziché farne spendere, possedeva anche la dote innata di catalizzare le attenzioni del pubblico distante in maniera esasperata; una viral marketing assolutamente gratuito, anzi, sostenuto con le risorse di tutti meno che dell’organizzatore!
Il sillogismo è stato abbastanza immediato: perché non estendere la logica del reality alla politica? In fondo e a pensarci bene, che cosa dovrebbero avere in più le «primarie» di un normalissimo congresso di partito?!?
Le risposte sono semplici e si possono ritrovare immediatamente spulciando sopra in questo articolo: la logica volontaristica inoculata in una competizione - alla base del suo successo - è ciò che rende tutto ciò su cui si regge vittima del culto della personalità, di un potere pre-costituito che andrà a scontrarsi con quello di qualcun altro. E alla fine? «There can be only one».
Ma intanto migliaia di persone si saranno mobilitate - fiduciose nell’efficacia e nel valore dello strumento molto più di quanto in realtà esso valga - nonché inconsapevoli del fatto che l’accesso alla «fase finale» sia precluso alla maggioranza o meglio, alla quasi totalità.
E il paradosso è che, vittima di questa strategia, di questa «americanizzazione a tappe forzate» dell’idea di consenso, non è il campo in cui ha sapientemente annaspato Mediaset, ma il suo presunto contrapposto.
«Meditate gente, meditate…»: di quanti dilettanti si deve farcire ogni segmento della società affinché vi possa trovare - un numero limitato di persone - reddito (o redditività) certo?

 
Dubito che Franco Battiato - alla luce di quanto vaticinato in «bandiera bianca», ma, soprattutto, di quanto non previsto e prevedibile - avrebbe scritto «a Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata, a Vivaldi l'uva passa che mi dà più calorie», ma una cosa è certa: le prossime - per le elezioni del presidente della Repubblica - saranno verosimilmente «nomination»; e nessuno si scandalizzi se i competitor si chiameranno Carlo Cracco, Maria De Filippi o Jerry Scotti!



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23/3/2014 - 14:36

AUTORE:
Roberto

Saggie parole Alessio. Per le persone occorre rispetto.

19/3/2014 - 18:04

AUTORE:
Alessio Niccolai

I riferimenti storici non possono senz'altro essere frutto di un'elaborazione creativa, ci mancherebbe... altrimenti si può tranquillamente collocare Silla nel Rinascimento e il Re Sole fra gli Aztechi.
La riflessione e l'utilizzo ed il dispiegamento dei dati storici sono invece operazione totalmente creativa benché senz'altro qualcuno (mi auguro molti, per la verità) abbia già condiviso il messaggio complessivo che ne scaturisce prima che lo avessi formulato.
Altrimenti di che stiamo parlando? Sarebbe forse meglio concentrarsi sulle teorie formulate, anziché tentare la solita inutile operazione di attacco alla persona: sono quelle e non io in quanto tale su cui obiettare!

19/3/2014 - 17:00

AUTORE:
Io stesso pure

Non vi eccitate troppo, l'articolo del Niccolai è quasi interamente copiato da storia della televisione dei suoi personaggi.

19/3/2014 - 14:32

AUTORE:
Arthur Fonzarelli

Ora che mediaset sia responsabile perfino delle primarie del pd mi sembra un pò troppo.
approfitto di questa critica tutto sommato lusinghiera a mediaset per ringraziarla delle tante ore divertenti spese guardando Happy days, Drive in Striscia la notizia, le iene ecc.
Mi è piaciuta molto la citazione di
There can be only one
che comunque non ha nulla a che fare con le vicende politiche, attiene al mondo della fantasy e qualsiasi trasposizione nel mondo reale è da ritenersi una forzatura, come del resto tutto l'articolo peraltro suggestivo e molto ben scritto, ma senz'altro da catalogare appunto come esempio di prosa fantasy.

19/3/2014 - 13:47

AUTORE:
francesco

..ora che hai dato fondo al repertorio dei luoghi comuni in salsa iperbolica puoi andare pure a desinà. (certo alla voce s'attacano a tutto.. mah)

19/3/2014 - 12:01

AUTORE:
CCP

fossi in te mi preoccuperei, rischi un incontro del terzo tipo senza nemmeno saperlo. Attento e mutande di bandone indossate.

19/3/2014 - 10:00

AUTORE:
me stesso

Ma cosa fumi? qualche passeggiata all'aria aperta no?
ti si fonde il cervello a rimuginare troppo sui mulini a vento sai?

19/3/2014 - 9:50

AUTORE:
Alessio Niccolai

Ti ringrazio dell'apprezzamento, Federico. In realtà il mio augurio, se non quello di mettere in guardia una seppur piccola parte di una platea sempre più passiva e inconsapevole, è senz'altro quello di avviare una doverosa riflessione sugli attuali paradigmi di fruizione mediatica, del tutto - purtroppo - in linea con tutti gli altri modelli dissennati di consumo, forse addirittura loro concausa.
Considero questo articolo una specie di tributo ad un eccellente lavoro teatrale svolto da Iacopo Bertoni, Stefano Nencini e da tutto l'ATS di Vecchiano, benché senz'altro tardivo rispetto a quella proposta.
Si tratta quindi di un primo passo in una certa direzione che da piccolo uomo di spettacolo imprescindibilmente legato all'idea del primato della cultura sull'entertainment avrei piacere di veder imboccare a chiunque, da chi calca i palcoscenici, a chi li frequenta dietro le quinte fino a chi ne è fruitore.
Ci sarebbe molto altro e molto di più da dire in proposito, ma per il momento mi accontenterei se riuscisse il mio ragionamento a innescare qualche ulteriore riflessione.

19/3/2014 - 2:56

AUTORE:
federico farroni fedepoeta

come spesso mi capita mi trovi in sintonia su quasi tutto quello che esprimi ,specialmente su alcuni passaggi tipo sulla trasmissione della Clerici ..., in un modo esemplare .
Io credo che tu sia figlio delle stelle ovvero gli Elohim poichè il livello culturale che possiedi è impressionante
quando mi chiedono alcuni perchè vale la pena vivere su questa terra io potrei tranquillamente rispondere per le donne per la natura e per uomini di cultura come Te
io ho sicuramente tanto da imparare da Te
e ti rinnovo tutta la mia stima
grazie di esistere poichè come pochi hai coraggio fierezza e ci metti la faccia firmandoti sempre anche quando critichi e ti esponi in prima persona

18/3/2014 - 21:57

AUTORE:
Velenoso

Ma 'un ti siei anco venuto a noia? Ci manca la 'orazzata potionki e poi c'è tutto!