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Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative. 

E non c'è da cambiare idea. Dopo aver sostenuto la .....
. . . sul Foglio.
Secondo me hai letto l'intervista .....
L'intervista a Piazza Pulita è di 7 mesi fa, le parole .....
Vedi l'intervista di Matteo Renzi 7 mesi fa da Formigli .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Arabia Saudita
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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Dalla pagina di Elena Giordano
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storie Vere :Matteo Grimaldi
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Indaco il colore del cielo
non parimenti dipinto
Sparsi qua e là
come ciuffi di velo
strani bioccoli di bambagia
che un delicato pennello
intinto .....
tutta la zona:
piscina ex albergo
tutto in stato di abbandono

zona SAN GIULIANO TERME
vergogna
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L'ante Meloria
(ancor più dolorosa)

26/12/2014 - 19:35


In anticipo di quarant’anni Pisa si piega a Genova.


Tutti conosciamo la storia della Battaglia della Meloria, la grande sconfitta che Pisa marinara subì  intorno a “lo die de Santo Sisto” nel 1284 e che tutti decretammo subita per colpa di Ugolino della Gherardesca, bollato da codardo, esaltando invece il coraggio dell’esercito pisano.
C’era però chi non vedeva il nemico coraggioso "a par tuo", nobile comportamento (se nobile si può dire delle guerre) che ebbero tante battaglie (una per tutte per rimanere in mare: gli onori dell’ammiragliato inglese ai nostri incursori ricordati giorni fa su flash e cronache) e che il nemico era da uccidere fosse invasore o difensore.  


 Dal “Poema della vittoria” di Ursone notaio sulle battaglie di Palmaria, Portovenere, Vernazza e Levanto (1242): Lo scontro con la flotta pisana, dove, oltre alla retorica virgiliana ben tradotta dal latino da Roberto Cenci per la “Collana di Classici Spezzini” (1993), prevale l’odio genovese per il popolo pisano.


"Appena il mare si è calmato e l’onda si è mostrata cheta ai rematori,  proprio mentre, in una calma assoluta di vento, la rosseggiante Aurora lasciando il vecchio marito sorge dal mare, precedendo la luce, la tromba da il segnale della partenza della flotta. Subito vengono  salpate dai limpidi fondali le ancore e i marinai traggono le scale a bordo emettono in mare i timoni, poi approntano i banchi e saggiano col corpo i remi. Devotamente tributano lodi al Signore e lo pregano affinché li conforti e diriga le loro azioni, perché li illumini e garantisca successo all’impresa. Le navi levano gli ormeggi, prendono il largo e s`aprono la via in un ribollire di onde a forza di remi, agitando la piatta superficie del mare che fa luogo al loro passaggio. Apre la fila, solcando leggera le acque, l’ammiraglia, che porta il comandante supremo e i vessilli della Croce, prospere insegne; la segue il resto della flotta, mantenendo un ordine e una velocita stabiliti; tutte proteggono, da un lato e dall’altro, i fianchi della prima, che a ragione le precede mantenendo una posizione mediana: è come al centro di una mezzaluna ed è la disposizione a darle la priorità.
Cosi s’avanza l’arcuata flotta, a forza di remi, precipitandosi con ardenti propositi contro il nemico. Oh, con quale letizia e baldanza quell’inclita gente va in guerra! Con quali vigore e portamento, con quale convinzione! Come fu desiderosa e pronta nel prendere le armi! Quanto è bene armata quella schiera di navi! Come risplende di scudi, da quanti eroi è protetta! Sembra l’esercito di un regno, non di una città, tanto elevato è il numero dei cunei e delle coorti. Una volta giunta in vista dei crudeli avversari, scorte le profane schiere nemiche, le armate ostili e le loro insegne splendenti sul mare e poi le terre, distrutte da una razzia incendiaria e devastante, la nobiltà genovese, che vanta un’origine frigia, s’indigna e, avvinta oltre ogni misura dalla brama di combattere, più fortemente avvampa, incita i rematori a vogare con maggior forza e già pregusta la lotta corpo a corpo.
Incalza gli equipaggi e, nell’ardore di venire alle mani, brandisce le spade minacciando strage. Mille grida, un agitar di mani e uno straordinario clamore annunciano l’intenso desiderio di guerra. Mentre i nostri si avvicinano, progettano di piombare addosso ai nemici, di spezzarne col ferro le tracotanti minacce e di soffocare con la destra il loro chiassoso parlare: per i Genovesi è vergogna guerreggiare a parole e vincere con la lingua invece che con le armi!
Mentre dunque sulle prore vengono alzate nuove scintillanti insegne, che annunciano l’imminenza dello scontro e la reale intenzione di combattere, il nemico, colto di sorpresa, freme di paura e all’istante abbandona il litorale di cui ha preso possesso, allontanandosi dal lido e lasciandolo deserto; ma non impunemente, giacché gli abitanti del luogo lo incalzano alle spalle e non gli permettono di giungere al mare senza un tributo di sangue: è la soddisfatta vendetta della gente del posto, che vuole rimediare col ferro e con altrettanta ferocia ai danni e alle offese subite. Appena dunque il nemico vede una schiera tanto imponente, le insegne sfavillanti sul mare e le navi cosi perfettamente armate, non osa volgere le prore allo scontro.
Temendo di affidare la vita a un incerto destino, immemore dell’antico fasto e del fragore con cui ha dato inizio all’impresa, e non più rispettando i proclami vanamene spocchiosi, inverte la rotta e -codardo- fugge, solca a remi il mare affidandosi non al suo valore guerresco, ma ad una ritirata sicura.
Ormai Febo, ben alto nel cielo, s’avvicinava alla metà del suo corso, riducendo alle genti il piacere dell’ombra, quando fu chiaro che quella ridicola gente, quella turpe schiera volgeva in fuga senza combattere; con obbrobriosa vergogna, non osando misurarsi e in preda al solo terrore di non fare ritorno in patria, aggiungeva le vele alla forza dei remi, ben degna per questo di subire la pena più grave.
Dove fuggi, Pisano? Dove scappi, Grifone pugliese? Dove t’affretti? Non vieni a combattere? Ammaina le vele, abbandona i remi e incrocia le spade! Fermati! Interrompi la fuga, ricordati delle minacce! Perché fuggi con gli scudi ancora vergini e le armi intatte? Non arrossisci a scappare, dopo che hai tanto abbaiato? Inverti la rotta, misero! Recita una parte da uomo! Vergogna! Dopo tanti proclami, vinto senza neppure combattere.
Allora a tutta forza Genova insegue i fuggiaschi, li incalza da tergo aggiungendo vele ai remi; s’affligge rammaricandosi di una Vittoria senza combattimento; s’affanna e smania, s’affanna e sempre più si adira di un successo ottenuto senza spargimento di sangue, di una via aperta senza colpo ferire; non sopporta il non avere usato le mani, incrociato le spade, scagliato sui nemici le sue aste con forza, lasciando traccia del suo gladio sui loro scudi.
Tuttavia una nave della flotta pisana, l’ultima, più tarda a fuggire, viene catturata. Tutte le altre, in fuga, abbandonata questa al suo destino, guadagnano il largo a forza di vele e di remi. La schiera di Pisa, che per l`incertezza aumenta il mulinare delle palate, in parte cerca di raggiungere il lido, in parte si mantiene in mare aperto.
L’empia schiera, la scellerata coorte, la vile alleanza, il perfido popolo, la famiglia del crudele Faraone, il gregge privo di bontà e infido, la sleale torma che presumeva di violare la forza della Croce e della fede, spregiatrice  del Signore e ignorante del sacro, esule della Giustizia e assassina della Verità, seminatrice di scismi, non regge alla vista di Dio e, senza neppure combattere, è messa in fuga dagli atleti della Croce.
La forza  questi viene dalla destra possente di Dio, che atterra e spezza ogni tracotante orgoglio. Lo imparino tutti i malvagi e lo sappiano i delinquenti: le malefatte si pagano, i peccati portano alla vergogna, il miserabile peccatore con le sue azioni offende Dio e ottiene, invece di  clemenza, dura condanna; inoltre chi è conscio del proprio delitto è il primo a soffrirne: nessun criminale risulta impunito al giudizio di se stesso; la sua sentenza giunge per prima a comminare la pena.
ll nemico dunque, cacciato dai territori conquistati, si ritira e se ne va, fuggendo  senza neanche combattere, preferendo, al cospetto degli audaci, la sicura cautela alla virtù temeraria; raggiunge, nella sua ritirata, recessi e anfratti sicuri. Nel frattempo la schiera di Genova, mentre ormai Febo sottrae dal cielo i suoi raggi al giorno morente, privandolo dello splendore della luce, pone il campo sul mare: il sole nasconde il capo nelle limpide onde. Le truppe si accingono a trascorrere la notte al sicuro, sulle navi alla fonda, proprio nel tratto di mare donde avevano cacciato il pavido nemico. Sono collocate le sentinelle e le guardie e i legni sono affidati alle ancore, non senza che sia raddoppiato l’ormeggio.
Al sorgere del giorno la nostra gente, quando vede il mare sicuro e sgombero da ogni lato, senza quei predoni ostili, volte le prore, intraprende la rotta del ritorno, portando al campo trionfi degni di nuova fama. Ma il nemico, quando si vede disperso, messo in fuga per mare e per terra e condannato all’infamia di un’onta perenne, si vergogna e si affligge, e subito vuole velocemente tornare indietro per combattere. Di nuovo sono radunate le forze e concentrate in un unico luogo, e di nuovo Genova respinge il nemico mettendolo in fuga: per lui, due volte vinto senza combattere, a vergogna s’aggiunge vergogna. Ogni volta che minaccia il territorio di Genova, si deve allontanare sconfitto, fuggendo pieno di paura senza combattere. Se incorre in imprese insensate, quanto più incautamente si impegna a cancellare con la forza l’infamia, tanto più ne accumula."
 

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