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Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative. 

E non c'è da cambiare idea. Dopo aver sostenuto la .....
. . . sul Foglio.
Secondo me hai letto l'intervista .....
L'intervista a Piazza Pulita è di 7 mesi fa, le parole .....
Vedi l'intervista di Matteo Renzi 7 mesi fa da Formigli .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Arabia Saudita
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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Dalla pagina di Elena Giordano
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storie Vere :Matteo Grimaldi
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Indaco il colore del cielo
non parimenti dipinto
Sparsi qua e là
come ciuffi di velo
strani bioccoli di bambagia
che un delicato pennello
intinto .....
tutta la zona:
piscina ex albergo
tutto in stato di abbandono

zona SAN GIULIANO TERME
vergogna
Le Parole di Ieri
Da Cauterio a Cenciaio (e altri)

22/3/2015 - 18:06

 

CAUTERIO
Lett: CAUTERIO. O cautere. [Strumento utilizzato per la cauterizzazione, cioè la bruciatura di parti del corpo per permetterne la disinfezione e, un tempo, lo scolo degli umori].
Di solito lo strumento di cui si parla era un ferro reso rovente con il fuoco.
In dialetto il termine poteva essere usato per indicare una persona pericolosa, cattiva, ma anche per indicare chi era noioso, incontentabile, irrequieto, indisponente.
Di solito usato come blanda offesa: “Quel cauterio della mi’ suocera!”, ma solitamente senza cattiveria o animosità.
 
CAVOLO STRACIATO (accento sulla “i”)
Lett: nc.
Ricetta della cucina povera in cui il cavolo era cucinato in maniera semplice, non avendo la famiglia a disposizione alimenti o condimenti pregiati, se non quelli presenti nell’orto.
Talvolta la presenza, sia pure sporadica, di "sarsiccie di maiale", arricchiva e nobilitava molto la pietanza.
Pur essendo un alimento cucinato in maniera semplice non era di facile digestione ed era ritenuto, a ragione, responsabile dello sviluppo di abbondante meteorismo intestinale.
Forse da straciato deriva anche il termine stracioni, che ha il significato di steso al suolo in modo scomposto, disordinato ed il verbo straciare: trainare strusciando per terra.
Era lì, per la terra, tutto stracioni!”: era lì, sdraiato in terra, in modo veramente scomposto!
“L’hanno straciato fino a casa”: lo hanno trascinato fino a casa.
 
CAVARE
Lett: CAVARE. [Scavare, render concavo, far uscire].
Era utilizzato in dialetto per indicare operazioni diverse.
Cavare la minestra, cavare le uova e cavare le fosse erano azioni che presupponevano per ognuna un diverso verbo: levare la minestra, raccogliere le uova e pulire le fosse (questo forse il più vicino al significato reale).
Veniva utilizzato anche come lieve offesa, in senso bonario e canzonatorio:
Ma vai a cava’ le fosse” che equivaleva a “ma vai a vanga’ le prode”, “ma va affa’ giali” ed anche a ”ma va’ a spiga’’” in cui ritorna costantemente sia la stroncatura del verbo, molto comune in dialetto, che il motivo del lavoro usato in maniera dispregiativa, per indicare l’incapacità dell’offeso ad argomentare, discutere, analizzare, cioè ad usare la testa.
La parola conteneva l’invito ad occuparsi di cose più semplici e familiari, come il semplice lavoro manuale, lasciando ad altri il compito più alto e nobile del ragionamento.
 
CECCIA
Lett: nc.
Vocabolo di origine sconosciuta, forse derivato da cuccia, una variante umana del comando che si dava ai cani, che si usava soprattutto rivolto ai bambini piccoli per invitarli a mettersi seduti: “mettiti a ceccia” o semplicemente “ceccia”.
Talvolta ancora oggi utilizzato in forma scherzosa: “e ora tutti a ceccia!” o anche minacciosa: “te’ mettiti a ceccia, e ste’ bono!”.
 
CENCIAIO (ed altri)
Lett: CENCIAIO. O CENCIAIUOLO. [Colui che compra e rivende cenci].
Faceva parte di quella schiera di persone che un tempo esercitava il loro mestiere andando di paese in paese offrendo la loro mercanzia, o eseguendo piccoli lavori manuali.


Il cenciaio raccoglieva i cenci, vestiti smessi e logori, cappotti oramai inutilizzabili perché voltati e rivoltati (scuciti e ricuciti rovesciando la stoffa), biancheria talmente malridotta da non poter essere più utilizzata. Venivano pesati alla meglio sulla stadera [bilancia a bracci disuguali, al minore dei quali si attacca l’oggetto da pesare, il maggiore è graduato e vi scorre il marco o romano], e pagati con pochi spiccioli. Poi il cenciaio li impacchettava e li caricava sul carrettino che aveva attaccato alla bicicletta. Ritirava anche suppellettili, arredi di casa malridotti come sedie, vasi di coccio, scarpe, vecchi giocattoli, tutto quello che, pur nelle ristrettezze in cui viveva la famiglia, doveva essere necessariamente buttato perché non aggiustabile né riciclabile.


Quando di un qualsiasi oggetto si diceva che “andava dato ar cenciaio”, se ne indicava non solo il suo pessimo stato, ma se ne decretava anche la sua definitiva scomparsa.


Da cenciaio deriva anche il termine cenciata.
Dare una cenciata”,“dare il cencio” significa passare il cencio umido sul pavimento ma anche colpire con questo il viso di un'altra persona. Da questo prende origine un vecchio gioco o passatempo conosciuto col nome di “cencio molle riverito” , che le mamme facevano con i loro bambini piccoli.
Si trattava di prendere un cencio bagnato e muoverlo davanti alla faccina del bimbo, cantilenando:


Cencio molle, cencio molle

son venuto a riverirle
(e il bimbo doveva rispondere : riverito sia!)
Se tu piangerai,
se tu riderai,
il cencio molle in faccia avrai!


Era un gioco molto semplice e divertente per le mamme che vedevano le smorfie sul volto dei loro figli impegnati a rimanere fermi e immobili fino alla inevitabile risata finale che coinvolgeva entrambi.
Un altro gioco semplice delle mamme con i loro figli piccoli era quello della Staccia Buratta.
Si trattava di tenere in grembo il bimbo e muoverlo avanti e indietro cantilenando:


Staccia buratta
Il gattino è della gatta
La gatta va al mulino
E fa un focaccino
Con l’olio e col sale
Con la pipì del cane
Buttalo, buttalo in mare


Ed il bimbo veniva spinto indietro con grande spavento ma anche con una gran risata.


Dare una cenciata a qualcuno ha infine il significato di infliggere una pesante lezione, una grave umiliazione, simile a quella di ricevere in faccia il cencio umido.
Tizio ha preso proprio una bella cenciata!” è un ulteriore significato di questo termine, con questa frase indicante o una pesante sconfitta (come sopra) od anche una cattiva situazione di salute, come può accadere per o dopo una grave malattia.
Alcuni personaggi, oltre ai cenci, acquistavano anche le pelli dei conigli. Di queste però si occupava, principalmente, un'altra figura che periodicamente faceva il suo giro per i paesi:
il pellaio.


I conigli, come i polli e i maiali, erano animali allevati in grandissima quantità, rappresentando una fonte di proteine animali preziosa per una società che viveva fondamentalmente di cereali e verdura.
Nei paesi esistevano i macelli ma la carne di manzo o di maiale era molto costosa e solo le famiglie più facoltose potevano permettersi di acquistarla regolarmente. I macellai in quel tempo erano considerati, a ragione, persone facoltose e rappresentavano un “buon partito” per le giovani paesane nubili, in cerca di sistemazione.

 

Famosi macellai erano i membri della famiglia Franceschi : Milano (Franceschi) che aveva la bottega a Metato, Treviso a Migliarino, Torino a Filettole. A Migliarino davanti a Figarino, accanto alla bottega di mercerie della Giovanna, c’era anche Palazzino che faceva una pancetta di maiale saporitissima che mio nonno Ettore (babbo della
mia mamma Cosetta) non mancava mai di acquistare quando veniva a trovarci a Migliarino.


I conigli, che quasi ogni famiglia allevava, venivano uccisi tenendoli per le zampe posteriori, a testa in giù, e dando loro uno o due energici colpi sul collo. Alcuni lo facevano semplicemente con il pugno, altri usavano un bastone.
Appena morto, o agonizzante, con un coltellino affilato al coniglio veniva tolto subito un occhio in modo che il sangue potesse defluire e lasciasse chiara la carne. Poi iniziava la pulitura dell’animale con la spellatura, a partire dalle zampe posteriori fino alla testa, che era l’ultima.

 

La pelle che rimaneva non veniva gettata con le interiora ma tirata con forza su di un muro, sul quale rimaneva attaccata a causa della sostanza appiccicaticcia che era all’interno e rimaneva a seccare fino a quando non fosse passato il pellaio a ritirarla.
Su queste pelli, essendo materiale organico, si riproducevano le mosche e ben presto si riempivano di larve, i famosi “baini di sego” (i moderni bigattini), con cui si andava a pescare in Serchio o nei fossi. Ogni pelle veniva pagata poche lire ed erano soldi che spesso venivano destinati ai capricci dei bambini, come quello, straordinario, di comprarsi un gelato quando fosse passato il gelataio.


Il gelataio si annunciava per i paesi con una tromba d’ottone lucido e con grida che mettevano subito i piccoli in grande agitazione. Il gelato era artigianale, prodotto la mattina presto, messo nel carrettino e portato per i paesi fino a sera . Il carrettino con cui arrivava era la solita bicicletta modificata (solo gli ultimi tempi, prima della sua definitiva scomparsa, alcuni avevano un piccolo motore a scoppio), in cui la parte anteriore era formata da un contenitore, di solito di colore bianco e celeste, a punta come la prua di una barca, con all’interno il gelato in un recipiente con un coperchio rotondo in acciaio lucido, con un pomo in cima per favorire la presa.


Il gelato veniva prelevato con una spatola e spalmato su un cono oppure su un biscuino, un piccolo biscotto rettangolare, che veniva posto in uno strano attrezzo che aveva la funzione di regolarne la quantità in base al prezzo pagato. Era costituito da una scatolina rettangolare sul cui fondo si poneva un primo biscuino. Il fondo non era fisso ma collegato, al di sotto, ad un asta graduata che scorreva in un cilindro con un perno sporgente che si incastrava in alcune finestre laterali. Quando il perno era in cima all’asta graduata anche il fondo della scatolina era in cima e la quantità di gelato che veniva fornita, riempiendola, era minima. Man mano che il fondo della scatolina scendeva, la quantità di gelato aumentava, ed anche il prezzo. Stabilita la quantità e riempita la scatolina, alla sommità era posto un secondo biscuino ed il gelato era pronto ad essere estratto dall’ apparecchio e consumato leccandolo oppure chiedendo al gelataio la palettina, colorata, di plastica, di solito contenuta in un contenitore quadrangolare trasparente sulla punta del carretto.
Le tacche andavano a diecini: dieci lire la prima fino alle cinquanta lire dell’ultima tacca. Poi il gelato cominciò a comparire anche nelle botteghe.


A Migliarino il primo gelato fu prodotto e venduto da Fulvio del Bargagna, nello stesso edificio dove in seguito avrebbe aperto il negozio di alimentari con la moglie Rossana. Sul dietro operava il fratello Danilo che faceva invece il lattaiolo, raccoglieva cioè il latte dai contadini che avevano le vacche e la cui produzione eccedeva il fabbisogno, e lo vendeva alle famiglie del paese. I due fratelli possedevano una radio a valvole, un grosso apparecchio che aveva sostituito le vecchie radio a galena (minerale metallico costituito da solfuro di piombo), ed i ragazzi del paese, alla domenica, si ritrovavano alla latteria per mangiare un gelato ed ascoltare le partite del campionato di calcio. Erano i tempi pre-televisivi delle radiocronache appassionate di Nicolo’ Carosio (Palermo 1907-Milano 1984), quello del “…palo, rete, no quasi rete”, radiocronache appassionate in cui l’Italia era sempre all’attacco, pressava, tirava, sembrava schiacciasse gli avversari chiusi nella propria area di rigore e poi, con tre parole, annunciava il gol della squadra avversaria!
                    
Regolarmente per i paesi passava anche l’arrotino.

Il mezzo di locomozione e di lavoro era sempre la bicicletta, in questo caso utilizzata anche per azionare la mola posta al di dietro, con i pedali fatti girare al contrario e collegati con delle cinghie. La bicicletta veniva messa su un grande e solido cavalletto ed il sellino girato all’indietro. Arrotava coltelli, forbici, e attrezzi da lavoro che ogni volta riacquistavano il filo oramai perduto, diventando sempre più sottili.


Talvolta l’arrotino faceva anche l’ombrellaio, riparava cioè gli ombrelli. Rifaceva le stecche di bambù che si erano rotte degli ombrelli d’incerato, rimetteva le stecchine metalliche in quelli normali, riattaccava i manici.


Lo stagnaio o stagnino riparava invece le conche e le pentole di coccio con le “spranghette”, piccoli pezzi di ferro o rame curvi alle estremità che venivano infissi ed incollati fra il pezzo rotto e quello sano in modo da dare solidità all’incollatura; magnano si chiamava invece lo stagnino che riparava i ciottoli bucati.


L’acquettaio portava prodotti per l’igiene della casa e visitava tutti paesi della Val di Serchio. Si chiamava Fanfulla e girava con il suo carrettino a due ruote pieno di bottiglie colorate.


Il carbonaio vendeva il carbone e la carbonella ed era l’unico a non utilizzare la bicicletta, veniva infatti con un barroccio con delle grandi ruote trainato da un cavallo.
In questa zona il carbone lo portava il Melani, che negli anni seguenti si mise con successo a vender mobili, tanto che la famiglia è ancora nel settore con quel grande negozio sulla piazza di Pontasserchio. Così descrive Umberto il carbonaio:
 “ Il vestito era nero, scarpe nere, camicia nera, mani, pelle, tutto nero e con un bianco negli occhi che ti metteva paura. Quando veniva chiamato scendeva con un salto dal barroccio e, arrivando a terra, faceva una nuvoletta nera”.
     
Esisteva anche il madonnaio.

La gente era molto religiosa e il prete una figura di primissimo piano in paese. Egli gestiva in sostanza tutti gli avvenimenti che andavano in qualche modo ad alterare la monotonia della vita nella comunità, irta di lavoro, fatiche, difficoltà, chiusa nel ristretto ambito paesano e con ben poche occasioni di svago e di divertimento. Le feste che si celebrano nei paesi erano quasi tutte a sfondo religioso, poi c’erano i battesimi, le comunioni, le cresime, i matrimoni ed infine i funerali.                                                      
La cresima si faceva da piccoli, prima ancora della comunione. La cerimonia liturgica comportava l’applicazione di una grossa fascia bianca alla fronte, annodata dietro. Per l’occasione di solito arrivava il Vescovo dalla città ed i bambini erano tutti in gran fermento. Non tanto per il valore simbolico della cerimonia o per l’incontro col proprio Vescovo, ma soprattutto perché i più grandicelli avevano detto loro che la fascia che avrebbero dovuto mettere serviva per coprire un chiodo che il Vescovo avrebbe loro piantato nella testa!


Il madonnaio portava sulle spalle una cassettina di legno con degli sportellini. Quando si fermava nel paese posava a terra la cassettina, apriva le piccole imposte e metteva in mostra tutta la sua mercanzia: santini, medagline, croci, corone tutto materiale religioso che aveva un suo mercato.


Ogni tanto passava anche il ciottolaio.
Esiste ancora oggi qualche rappresentante di questo mestiere che si reca, con il suo furgoncino carico di merce talvolta appesa anche all’esterno del veicolo e traballante ad ogni curva, presso le abitazioni situate lontano dai paesi e quindi con famiglie che hanno maggiore difficoltà negli spostamenti. Un tempo viaggiava naturalmente con la bicicletta, cui aveva applicato qualche marchingegno utile a portare la propria mercanzia rappresentata essenzialmente dai ciottoli: tegami, padelle, vassoi, piatti ecc, tutto quello che poteva servire alle massaie per la cucina e per i lavori di casa.
  
Ultimo frequentatore dei paesi, con passaggi meno frequenti degli altri, era il seggiolaio.
Nella nostra zona arrivava addirittura da Belluno. Chi aveva bisogno di seggiole lo chiamava e lo ospitava per tutto il tempo necessario alla loro costruzione. Opportunamente il committente aveva già scelto e preparato il legno necessario: ciliegio per la sua lucentezza, cipresso per il suo profumo, o castagno per la sua robustezza. Il seggiolaio aveva con sé tutti gli strumenti necessari, segava, tagliava, piallava e riusciva a costruire dal niente, e in breve tempo, una o più sedie complete.
Quando le sedie erano più di una, ed il lavoro di conseguenza più lungo, il seggiolaio si tratteneva per tutto il tempo necessario, talvolta anche per diversi giorni presso la famiglia mangiando con loro e dormendo su una balla di fieno nella stalla.

 

FOTO

La Gigliola e le baracche in Bocca di Serchio

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