In questo nuovo articolo di Franco Gabbani si cambia completamento lo scenario.
Non avvenimenti storico- sociali, nè vicende di personaggi che hanno segnato il loro tempo.Il protagonista è questa volta è il fiume Serchio, l'attore sempre presente nella storia del territorio, con grandi vantaggi e tremendi disastri.
Ma non manca il tocco di Franco nell'andare ad esaminare grandi lotte politiche e piccoli episodi di vita comune legati al compagno di viaggio nella storia del nostro ambiente.
I contadini pazientavano per il tempo del raccolto: se avevano voglia della polenta piantavano il granturco aspettando di avere la farina insieme allo spezzatino di maiale.
Pazientavano per il tempo degli acquisti: se avevano voglia di una giacca nuova seminavano le zucche da vendere, mesi dopo, al mercato.
Pazientavano per il tempo dell'amore: se avevano voglia di maritarsi dovevano aspettare che il padrone avesse calcolato di finire tutti i lavori per dare il permesso di maritarsi, era scritto cosi nel contratto di mezzadria.
Pazientavano per il tempo del riposo: piantavano quattro o cinque alberelli in cerchio nei grandi campi per creare una oasi di fresco, se avessero avuto caldo in futuro.
Mettere a dimora delle piccole piantine di platano per avere ombra nell'ora del pranzo per gli anni a venire, credo che sia il massimo della pazienza, o della previdenza.
I merizzi, quei gruppetti di alberi, ora enormi, che si vedono nelle grandi estensioni di campi di qualche tenuta, sono i luoghi dove cent'anni fa si riparavano d'estate i braccianti a mezzogiorno, mangiando pane e cipolle, con la Bianchina e la Rosina che scacciavano e attiravano nuvole di tafanelle.
Andare al merizzo, voce derivante da meriggio, l’ora calda del mezzogiorno, significava entrambe le situazioni di sole e di ombra.
Ma prima che quei ora monumenti arborei fossero tanto alti da dare un po' di refrigerio, era il carro la sola cosa che desse ombra nelle giornate di caldo.
Fino a poco tempo fa si vedevano maestosi merizzi in S. Rossore, verso Piaggerta, dove i gestori non hanno mai avuto bisogno di spazio.
Nelle altre tenute questi alberi, testimoni di un lavoro duro e ingrato, sono stati tagliati per non far perdere tempo al trattorista che doveva girarci intorno ed ora lo spazio e sgombro e si raccoglie mezzo sacco di granturco in più.
In Garfagnana, nei boschi di castagni che davano lavoro e vita a decine di famiglie che erano volute restare sui loro monti senza aumentare l’infinito numero di italiani all'estero, si creavano luoghi puliti da piante e sterpi, per accumularvi le castagne. Imballati con tutto il riccio che le proteggeva, i frutti venivano poi portati in capanne di pietra, liberati dal rivestimento spinoso e messi ad asciugare.
La parte che andava venduta fresca veniva ancora una volta imballata, mentre l'altra messa a seccare in stanze sopraelevate e riscaldate da fascine bruciate nelle camere sottostanti.
I frutti secchi e duri venivano poi macinati in mulini ad acqua, che non mancava certo in quelle zone piovose e montuose, e la farina era serbata per fare pane, dolci e, addirittura, zuppe con il saporito latte delle mucche garfagnine.
Quei luoghi aperti, quegli spazi circolari dove si concentravano le castagne e dove si radunavano i pastori e i montanari, sono chiamati metati, nome trasposto anche alla stanza dell'essiccamento, il posto che riceve subito dopo l'accumulo delle castagne.
A me piace notare, senza che ci sia un legame linguistico o etimologico, che merizzo sta ad indicare un insieme di alberi in un luogo aperto e metato uno spazio libero in un insieme di alberi.