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Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative. 

E non c'è da cambiare idea. Dopo aver sostenuto la .....
. . . sul Foglio.
Secondo me hai letto l'intervista .....
L'intervista a Piazza Pulita è di 7 mesi fa, le parole .....
Vedi l'intervista di Matteo Renzi 7 mesi fa da Formigli .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Arabia Saudita
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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Dalla pagina di Elena Giordano
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storie Vere :Matteo Grimaldi
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Indaco il colore del cielo
non parimenti dipinto
Sparsi qua e là
come ciuffi di velo
strani bioccoli di bambagia
che un delicato pennello
intinto .....
tutta la zona:
piscina ex albergo
tutto in stato di abbandono

zona SAN GIULIANO TERME
vergogna
Le Parole di Ieri
Da COCCIA 'OCCIETTO a CONCHIGLIA (LA)

28/6/2015 - 8:30



COCCIA ‘OCCIETTO
Lett: nc.
Era un gioco che si faceva con le palline di terracotta o con i tappini.
I tappini erano i tappi metallici delle bibite dei bar e che venivano fatti muovere sul terreno per mezzo di colpi dati con le dita della mano, i biscotti. Il colpo avveniva col dito medio o con il pollice, a seconda della tecnica e delle circostanze del gioco. Si trattava di colpire, con il proprio tappino, quello dell’avversario che veniva così catturato.
Era un gioco semplice, come del resto tutti i giochi di quel tempo non avendo le famiglie molti soldi a disposizione per l’acquisto di giocattoli. I modesti guadagni bastavano appena per il mangiare, l’affitto della casa, i vestiti e poco altro. Ogni spesa aggiuntiva, come l’acquisto delle prime biciclette o dei primi motorini come l’Itom o la Vespa, avveniva mediante emissione di cambiali che dilazionavano la spesa nel futuro e che sottoponevano gli acquirenti alla impegnativa operazione della firma (le cambiali andavano firmate tutte al momento dell’acquisto del bene). L’operazione della firma delle cambiali è un rito cui purtroppo ho assistito più volte da piccolo e ricordo di essere rimasto colpito dal fatto che mentre le prime venivano eseguite con scioltezza e risultavano tecnicamente perfette, le ultime arrivavano con grande difficoltà, tutte contorte e tremolanti, appesantite dalla mano oramai stanca ma anche dalla consapevolezza della difficoltà di far loro fronte nel tempo. Era un’operazione che metteva sempre in imbarazzo chi doveva firmare tutti quei fogli e per alcuni, che non avevano una gran dimestichezza con la scrittura, anche un vero sforzo fisico eseguito con grande lentezza e grandi sudate.
Dall’uso del tappino semplice si passò poi alle elaborazioni in cui il sughero interno veniva rivestito con un’immagine di un ciclista o di un calciatore, oppure riempito con altro sughero per renderlo più pesante e più veloce. I tappini più ricercati erano quelli dell’aranciata S.Pellegrino, che avevano stampigliata sopra una bella stella rossa. Quando noi ragazzi andavamo in giro con i genitori, facevamo incetta di tappini delle diverse ditte del luogo, per aumentare la nostra collezione e far invidia ai compagni.
A rendere il gioco ancora più appassionante contribuirono delle strane regole, oggetto molto spesso di contestazione e litigi.
Alzini, scambini (lo scambio del proprio tappino sotto tiro con un altro di poco valore), indirizzini (lo spostamento del proprio tappino per mirare meglio mantenendo la distanza) e pulizzini (la pulizia del percorso fra i due tappini) non erano solo strani nomi con un curioso diminutivo finale, erano anche regole la cui applicazione era complicata poiché si basava sulla rapidità del giocatore di dichiararli, in anticipo sul concorrente, il quale poteva con scambini no, indirizzini no e pulizzini no, impedire l’operazione.
 
COCCO
Lett: UOVO.
Forma dialettale per indicare l’uovo, usato anche nella forma diminutiva-vezzeggiativa di cocchino, per indicare affettuosamente un bambino piccolo.
 
COCCOLONE
Lett: COCCOLONE. [Croccolone, Beccaccino maggiore. Plebeo: colpo apoplettico].
Troviamo anche in italiano, se pur declassificato a termine “plebeo”, il significato dialettale di questo lemma indicante una grave ed improvvisa acuta malattia con conseguenze mortali o gravemente invalidanti.
N'é preso un coccolone!” era frase che non specificava il tipo di malattia (colpo apoplettico, infarto) ma ne esprimeva molto bene il concetto di gravità.
 
COLLOTTOLA

Lett: COLLOTTOLA. [Parte posteriore del capo, nuca].
Poco usato in italiano, era abbastanza usato in dialetto col significato di collo: “ti piglio per la collottola”, ti prendo per il collo, in senso reale e non figurativo.
Prendere per la collottola significava afferrare con la mano la parte posteriore del collo e stringere e stintignare (scuotere in avanti e indietro) il malcapitato.
Prendere per il collo aveva invece un significato completamente diverso, non più riferito ad un atto fisico, ma indicante invece la condizione di un approfitto di una persona nei confronti di un’altra.
Si verificava quando quest’ultima, trovandosi in condizioni di grande difficoltà, non era in grado di reagire e quindi era costretta a subirne l’abuso.
 
CONCHIGLIA (LA)
“La Conchiglia” era il nome della sala da ballo di proprietà di Averardo Masoni (proprietario anche del tabacchino accanto al Carnasciali e dell’albergo in piazza della Libertà), posta dietro la trattoria della Lorena (Da Dino) dove ora sorge un palazzo con appartamenti.
Il fratello Renato faceva invece lo spinaciaio, nome che indicava chi faceva commercio di spinaci, produzione agricola in quegli anni particolarmente diffusa in tutta questa zona e fonte di reddito per numerose famiglie e aziende, tanto da essere coniato per essa il termine di “oro verde”.


Negli anni ’70 la Conchiglia era un locale adibito a sala da ballo con una pista in cemento ed un piccolo locale bar. Erano gli anni dei Festival canori, delle “voci nuove”, quando molti giovani ed entusiasti cantanti si cimentavano nei locali di periferia, con il miraggio e la speranza di essere selezionati da “scopritori di talenti” ed intraprendere così una luminosa carriera a livello nazionale. Erano gli anni del mito di Castrocaro e del Festival di Sanremo, seguito ed atteso come uno dei più importanti avvenimenti nazionali. La gente, senza distinzione di età e di classe come è avvenuto invece in seguito per motivi di gusto e di cultura, in quegli anni trepidava all’unisono per i cantanti, partecipava alle loro vicende, alle loro gioie e alle loro tristezze, sia in campo artistico che personale.


Nel 1970, per prendere un anno come esempio, a Sanremo si impone la “coppia più bella del mondo” Celentano-Mori con "Chi non lavora non fa l’amore".  Secondo si piazza quello che sarà il mattatore degli anni seguenti, Nicola di Bari, con "La prima cosa bella", terzo Sergio Endrigo con "l’Arca di Noe'". Fa la sua prima comparsa in Italia Sandie Shaw, la cantante scalza, ed è anche la prima volta di una sconosciuta Nicoletta Strambelli, in arte Patty Pravo, che a Sanremo presenta "La spada nel cuore" in coppia con Little Tony. Il ‘70 fu anche l’anno del divorzio che diventa legge, una grande svolta nel costume degli italiani, e l’anno prima, 1969, l’anno dello scudetto storico della Fiorentina con un’unica partita persa, l’ultima, con la Sampdoria. Nel ’71 si ha la vittoria di Nicola di Bari con "Il cuore è uno zingaro" interpretata in coppia con la livornese Nada e gli italiani scoprono lo straordinario Josè Feliciano (secondo con "Che sarà" assieme ai Ricchi e Poveri). Il ’71 è anche l’anno della morte, a New York, del grande Louis Armstrong, e lo scudetto sarà dell’Inter.
Ma la prima e più intensa emozione regalata da Sanremo a tutto il paese e che lo consacrò come il più grande evento televisivo di quegli anni risale a qualche anno prima, e precisamente al 1964.


In quella edizione tutto il popolo televisivo (in bianco e nero), ma forse tutta l’Italia, trepidò fino a notte inoltrata in attesa della proclamazione della canzone vincente. La vittoria andò ad una giovanissima e sconosciuta interprete, Gigliola Cinguetti, che presentava la canzone "Non ho l’età" che ebbe la meglio sulla rivelazione del momento, il presleyseggiante Bobby Solo, solo secondo con "Una lacrima sul viso".
La storia racconta che la classifica finale fosse condizionata dalla mancata esecuzione in diretta del Bobby, a suo dire affetto da faringite. Fatto sta che anche quella volta Sanremo non si smentì e con l’eccezione del ’58, quando la rivoluzionaria "Nel blu dipinto di blu" riuscì a stracciare il vecchio stile italico di "Edera" (Nilla Pizzi), i giurati premiarono ancora una volta la canzone all’italiana, una stanca e monotona melodia (arricchita comunque dal genio di due battiti in pausa e da una tenerissima Cinguetti) a scapito di una composizione giovane e coinvolgente, che conquistò immediatamente i cuori di tutta la gioventù ansiosa di nuovi ritmi e nuovi testi musicali.


Per fare un esempio di come il coinvolgimento di quel Sanremo fosse intenso ed esteso ricordo che, prolungandosi la trasmissione fino a notte inoltrata, mio nonno Oreste decise ad un certo punto di andare a letto.
Finita la trasmissione trovammo però un suo biglietto sulla tavola di cucina : “Vince la Cinquetti!”, era il suo pronostico, peraltro azzeccato.
Col progredire degli anni ‘70 si ha comunque il declino della manifestazione che viene messa piano piano, ma inesorabilmente, fuori gioco dal cambiamento del costume giovanile, dal mutare dei gusti musicali influenzati ormai grandemente dalla musica anglosassone (musica per molti anni propinata come propria da quasi la totalità dei gruppi beat emergenti), boicottata dagli artisti più importanti tanto che il festival rischia di scomparire. Era il tipo di musica, spacciata per la vera italiana, che era in ribasso. A niente era valso il suicidio di Luigi Tenco nel ’67 all’Hotel Savoy per protestare contro l’eliminazione della sua "Ciao amore ciao" che trattava il doloroso tema dell’emigrazione a scapito di una melensa "Io, tu e le rose" di una incolpevole Orietta Berti.


In questa vacuità di contenuti e di incapacità di rinnovamento bisogna aspettare gli anni ’80 quando il Festival viene riesumato e riacquista la sua forza. Questo per merito di un taumaturgo non nuovo a queste imprese, Pippo Baudo che fra le irruzioni di Cavallo Pazzo, la Bertè falsamente incinta, gli anatemi di Grillo e le prime prove della vita in diretta (il forse finto tentativo di suicidio all’Ariston), riesce a riaccendere interesse per una manifestazione in lento declino fino a riportarla ad evento nazionale. Ciò è dovuto anche allo sviluppo negli anni del mezzo televisivo che riesce a spettacolarizzare anche manifestazioni con interpreti e canzoni mediocri, in alcune edizioni addirittura rilegate in secondo piano. Pur tuttavia nell’83 Sanremo ha dato notorietà ad un artista fra i più validi e innovativi del nostro secolo, quel Vasco Rossi, che con "Vita spericolata" scandalizzò i critici e affascinò i giovani. Li affascinò subito con quel suo fare dimesso, fuori luogo fra i lustrini, sprezzante nel comportamento e nei testi, affrancato dai vincoli del sentire comune, delle convenzioni, delle regole d’oro delle canzonette dove amore doveva far rima con cuore.


Voglio una vita esagerata, una vita piena di guai” rompeva gli schemi, era un colpo al fegato, forse voluto dall’artista proprio per scandalizzare, per rompere col passato.
Sanremo non lo capì e non lo premiò.
Ma Rossi non era una meteora, non uno che “indovina” una canzonetta, aveva già vinto dei premi per i testi che scriveva, era uno preparato e con delle idee. Aveva già pubblicato alcuni dischi, i giovani già conoscevano quella che sarà una delle sue canzoni più famose "Albachiara", inserita nel suo primo Cd uscito nel 1979 e diffuso all’inizio solo in ambito regionale. Arrivò penultimo, superando solo Pupo, qualcuno dice fosse anche un po’ ubriaco, ma possono essere solo leggende. Vasco Rossi usò Sanremo solo per farsi conoscere al grande pubblico, usò una canzone forte, di rottura proprio per stupire (aveva già composto la dolcissima “Ogni volta”, sicuramente più adatta alle atmosfere zuccherine di Sanremo), e dopo questa fugace apparizione seguì la sua strada di grande interprete e grandissimo autore.


In quegli anni, dominati dall’interesse per il Festival e per le canzonette in generale, acquistò una certa popolarità un intraprendente personaggio migliarinese, Loris del Luperini che faceva con discreta arte e buon successo il mestiere di presentatore. Faceva parte dello staff della Phonorosy, una casa discografica piuttosto sconosciuta ma che facilitava molto il suo lavoro di organizzatore di spettacoli poiché il sogno mal celato dell’incisione di un “45 giri” era sempre ben presente nei concorrenti. Dello staff faceva parte anche il Carnasciali, Caruso Alberto, non so a che titolo ma sicuramente non era un effettivo, né uno scopritore di talenti. Aveva però un bel tesserino ufficiale, con tanto di scritte e timbri, con il quale, lui ed io, riuscivamo a superare molte biglietterie di sale da ballo con la scusa di voler ascoltare, “visionare”, l’orchestra che si esibiva. Devo dire però che in queste sale non ci sentivamo in pace con la nostra coscienza, non tanto per essere passati gratuitamente, quando per l’impegno che vedevamo mettere nella loro esecuzione i poveri orchestrali informati della presenza in sala di “visionatori”, miraggio di futuri ingaggi e successi nel mondo dello spettacolo.

 

Lo stesso desiderio di successo spingevano molte giovani ragazze a partecipare ai vari concorsi di bellezza che si tenevano praticamente in ogni sala da ballo.
In uno di questi concorsi risultò vincitrice la signorina Evangelina Evangelisti, da noi conosciuta come Pieranna, in una serata di gala al dancing Lo Sparviero di Molina di Quosa. Per l’occasione si esibì sul palco un giovanissimo Gianni Moranti accompagnato dall’orchestra dei 4 Diavoli.
Era l’11 novembre del 1964.

Erano quelli gli anni in cui anche Goffredo Canarini, dopo le prime incisioni che avevano riscosso un discreto successo in ambito locale, era partito per Milano in cerca di quell’affermazione nazionale che inseguiva e che avrebbe sicuramente meritato. Riuscì solo in parte nel suo obiettivo, non ebbe quella giusta dose di fortuna che in queste occasioni è indispensabile, ma ebbe la soddisfazione di partecipare comunque ad un festival di Sanremo, l’edizione del 1975, in cui presentò una sua canzone "Scarafaggi" che non giunse alla fase finale, ma fu favorevolmente accolta dalla critica per la sua originalità. La sua carriera artistica comprende alcuni 45 giri e due Albums.

Collaborò con molti artisti dello spettacolo, per cui scriveva i testi traducendo spesso dall’originale in inglese, e dalla sua collaborazione con Celentano nacque addirittura una canzone (Una storia come questa), canzone acquistata dal Molleggiato (il nome Canarini non appariva negli autori), che fu lanciata ma non ebbe purtroppo un gran successo. La sua musica semplice, che parlava di piccole cose, spesso derivate dalle sue esperienze paesane, in quegli anni di grandi rivolgimenti sociali e politici andavano un po’ contro corrente. Collaborò soprattutto con i Giganti a cui scrisse vari pezzi. Il loro secondo Album, “Mille idee per i Giganti” è quasi tutto opera sua penna e da questa collaborazione con il gruppo nacque la sua grande amicizia con il batterista, Papes.


Alla Conchiglia si ballava, con orchestra, tutte le domeniche, pomeriggio e sera.
Talvolta veniva organizzata anche qualche serata con cantanti importanti fra cui Little Tony, che si esibì in occasione di una Festa di Maggio di cui non ricordo l’anno.
Le orchestre suonavano dal vivo e in una di queste fece la sua comparsa un nostro paesano, soprannominato lo Schiavone, che era appena agli inizi e suonava il sax. Noi in verità, pur essendo proprio davanti a lui, non riuscimmo a sentire nessun suono uscire dallo strumento, ma forse non udimmo bene o forse era l’emozione di esibirsi proprio davanti ai propri compaesani.
In uno dei festival dei cantanti dilettanti, che ogni tanto si teneva, si presentò come concorrente Italo di Sacco, non ancora medico, che riuscì a piazzarsi ad uno dei primi posti con l’esecuzione della bellissima canzone "La musica è finita" di Ornella Vanoni. Il presentatore era Loris che influenzò sicuramente la giuria, tuttavia l’esecuzione del Di Sacco fu pregevole, nonostante i musicisti non conoscessero perfettamente la canzone (le “basi” musicali ancora non esistevano).
Il Di Sacco fu preparato, musicalmente parlando, da me e dal Canarini Mario con lo stereo del Parabolone a cui era stato applicato un rudimentale microfono, con un risultato acustico che oggi non avremmo difficoltà a definire molto scadente.


Di fianco al bar adiacente alla sala principale c’era una scaletta che conduceva alla terrazza, dove esisteva una seconda piccola sala, circondata da una ringhiera in ferro e con qualche tavolino, in cui si poteva anche ballare. Era un posto buio ed appartato ed era utilizzato dalle coppiette più affiatate per avere una maggiore intimità!


Il dancing “La Conchiglia” dopo diversi anni di attività andò piano piano declinando, come del resto tutte le sale da ballo paesane soppiantate da megaimpianti con megadecibel, fino alla sua definitiva chiusura. I locali rimasero inutilizzati per alcuni anni ma poi riaprirono come bar, gestito dalla Unione Sportiva Migliarino che poi si trasformò in Polisportiva Migliarino, con lo scopo di finanziare le attività calcistiche della squadra locale. Fra i gestori il Faraci, il Papini Agostino, Franco del Baglini, il Vazzoloretto. Non so se avesse un nome ufficiale ma in paese era
semplicemente chiamato “la P2”, nome derivato dalla loggia massonica segreta dell’aretino Licio Gelli. La pista da ballo fu utilizzata in seguito anche come pista di pattinaggio.


Nella storia della Conchiglia bisogna ricordare anche una grande “Festa dello Sport” a cui fu invitato a partecipare Francesco Morini, famoso stopper della Juventus.
Il Morini era stato compagno di scuola della Gigliola ed allenato, in giovane età, dal padre Niccolo con cui erano rimasti molto legati. La partecipazione di Morini fu un grande avvenimento e furono organizzate le cose in grande. L’orchestra vedeva fra i componenti anche Mario d’Anchise, del Luperini, alla batteria mentre Aldo del Capitani ebbe occasione di esibirsi nella sua specialità.
Era infatti un grandissimo ballerino di Boogie Woogie, uno dei balli importati dagli americani nel dopo guerra, e sulle note di In The Mood, vestito con la maglia bianconera della Juve, si profuse in  sala in una scatenata esibizione che gli procurò però, forse per l’impegno elargito nella danza, una grave distorsione al ginocchio. Il giorno seguente infatti, con il ginocchio gonfio e dolente, fu costretto a recarsi in ospedale dove gli fu confezionato un gesso che portò per quaranta giorni.


Per qualche altro anno il bar sopravvisse con alterne vicende, organizzando anche delle serate di tombola, ma poi inevitabilmente declinò e finì per scomparire lasciando definitivamente lo spazio all’attuale palazzo per civile abitazione.
 
Aneddoto
Aldo del Capitani e suo fratello Antonio, detto La Negra, sono individui molto simpatici e scherzosi.
A loro viene attribuito questo curioso scambio di battute quando Aldo, un giorno, si recò a trovare Antonio a casa propria.
Arrivato davanti alla porta del fratello suonò il campanello:
“’Un ci sono!” disse di Antonio dall’interno.
“Ah, meno male ‘un son venuto!” rispose prontamente Aldo, fuori dalla porta.

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