Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Anche oggi continuo con i sonetti e la storia locale:
L’innocenti
“Ascórta Otto, ‘vesta è lla mi’ storia,
una vita d’un povero figliolo
passata senz’onore e senza groria
costrett’a vvive drent’un mandriolo.
Mi pà’ batte le feste di partito
e mi mà’ batte ‘nvece alla ‘Ostanza;
o tte?.. e tua? T’hanno ben nutrito
o pensin fa’ vita beata e ganza?”
“O Lino, anco la mi’ sorte è lipperlì
‘vandoché Carlino misse su mi’ pà’
e ora lui crede d’èsse’ chissacchì!
Peggi’è lla vita toccata ch’è a mmi’ mà’,
presa a bbuio co’ ‘vartini a rriempì’
..e lla mattina scordata gliè ddi già!”
I due orfanelli
A Nodica, sull’aione del Mazzarosa, al fresco del maestoso platano oggi scomparso per la demenza di qualcuno, arrivò un giorno una compagnia di saltimbanchi: padre, madre, due figli e uno scimmiotto (Otto).
In un mandriolo, vicino alla concimaia su un lato della grande casa colonica, viveva un maialino (Lino) che, all’arrivo della chiassosa compagnia, uscì dal chiuso attirato dall’odore di una nuova bestia.
Il piccolo animaletto si avvicinò timido alla gabbia dove si trastullava la scimmia e cominciò a lamentarsi della solitudine e della mancanza dei genitori.
Aveva cercato suo padre dove dicevano esserci sempre il maiale: al circolo ARCI lì vicino, dove facevano sempre tante sagre (feste di partito) e dove il suino era servito in tutte le maniere, ma senza risultato.
Era venuto poi a sapere, da cani e gatti di passaggio, che alla Costanza c’erano tante maiale, ma neanche laggiù aveva trovato tracce di sua madre: era tutta roba di lontano, straniere, nere, bianche, maiale sì, ma di un’altra razza, molto, molto peggio della sua.
Lino, rassegnato a dover star sempre da solo, chiese preoccupato al suo nuovo amico se almeno la sua condizione fosse migliore, se avesse i genitori e cos’altro.
Otto rispose che anche a lui la vita era enormemente cambiata da quando suo padre, lo scimmione, aveva saputo che un certo Charles Darwin (Carletto) in un suo libro, “Origine dell’uomo”, aveva scritto che gli umani discendevano dalle scimmie e ora non ci si viveva più!
Abbandonato dal padre, si era messo anche lui a cercare la madre e, spinto da notizie raccolte per via, la cercava in ogni bar, grubbe, circolo, osteria che incontrava e dove gli avventori dicevano sempre che era stata lì la sera prima insieme ai più accaniti bevitori (co’ ‘vartini a rriempì’), ma nessuno, il mattino successivo, si ricordava più dove fosse andata.
Di fronte al dolore di Otto, Lino non potè trattenersi dal ridere e, per non mortificare oltre l’amico, disse:
“O peperone, si vede che siei di fòri e ‘un conosci tanto bene la nostra lingua! ‘Vand’uno è bbriào, si dice che ha preso una bella scimmia, ma la sbornia passa ‘ndella nottata e ‘r mattino doppo se l’è ggià scordata!
Vai, vai, che tu’ mà’ la pé sempre trovà’; son’io semmai che ‘un mi riesce, ma m’han detto che ora posso sperà’ ‘ndella Traversagna.
Caso mai ‘un trovo mi’ mà’, mi metterò a ccercà’ ‘varche finocchio, che ‘r mi padrone dice sempre che ffa bbono ar fegato e cor maiale ci dice!”
Fra curiosità e natura
Al termine dell’autostrada Firenze-Mare chi, fermandosi al casello per il pedaggio, osserva le indicazioni Pisa-Roma o Viareggio-Genova, sulla destra nota anche una fila di strani alberi che costeggiano un profondo fosso e che non aveva mai visto lungo le strade del suo lungo viaggio e neppure nei pressi di casa sua.
Sono alberi alti, con le foglie simili a quelle minuscole del cipresso, al quale somigliano anche i frutti, “le coccole”, ma con una colorazione primaverile di un verde chiaro e una arancio rossa autunnale, prima della spoliazione invernale. Tale somiglianza con il carducciano cipresso: foglie, frutti, legno e profumo, li fa chiamare “cipressi calvi” (Taxodium distichum), calvi per la caratteristica di perdere le foglie durante l’inverno, al contrario dell’altra specie.
I primi esemplari furono introdotti dai Duchi Salviati dall’America, dalle immense paludi della Florida, e si sono acclimatati nella nostra zona a condizione di rispettare la loro voglia di acqua. Sono presenti, con individui maestosi di decine di metri di altezza, nelle lame del Parco: Fiumaccio, Bozzone, Pollini, Unione e nella zona del Ristorante Menotti sul lago di Massaciuccoli. Il tronco di questi giganti si allarga a dismisura verso la base per aumentare la presa sull’instabile molle terreno, e contemporaneamente la stabilità, mentre le radici, altra caratteristica del cipresso calvo, non potendo respirare sott’acqua e sotto il compatto fango, fanno arrivare sopra il livello dello stagno delle appendici dure, legnose e dritte, simili a clave, che fungono da polmoncini. Tali apparati respiratori sono detti pneumatofori, portatori di aria, e formano una bizzarra serie di “paletti” frai quali è anche pericoloso camminare quando si trovano all’asciutto nella stagione secca.
Tutti i luoghi “umidi” di proprietà Salviati furono quindi colonizzati dal cipresso calvo e così fu anche per il ciglio della strada che, lungo un grande fosso, andava dalla villa padronale verso i monti e i fertili terreni pedemontani, sempre della Famiglia, attraverso una vasta zona paludosa, anch’essa di proprietà.
Tale fosso, chiamato “Traversagna“, perché attraversava“ da est a ovest il padule di Malaventre e di Vecchiano, prendeva l’acqua di scolo dai campi e ne scaricava metà in Serchio, quella cioè dei terreni a sud-ovest della Tenuta, coadiuvato dal fosso “Storrigiana o Starnigiana“, e metà nel lago, la parte a nord-est, con i fossi “Barra” e “Barretta”.
I più attenti noteranno infatti che i cipressi calvi non terminano la loro corsa all’Aurelia, nata molti anni dopo il loro impianto, ma, seguendo il fosso di là dalla strada e dalla ferrovia, anch’essa più giovane, vanno fino alla chiesa di San Ranieri e la fattoria.
Mio padre, classe 1915, mi raccontava che gli americani, quando costruirono il loro ponte sul Serchio dopo aver bombardato quello nostro di “muro” e quello di “ferro”, usarono molti cipressi calvi della Traversagna per fare i piloni ed i sostegni del nuovo ponte che fu poi subito fatto saltare dopo il passaggio delle truppe di liberazione.
Ora il fosso ha dato il nome a tutta la zona da esso attraversata, una zona di degrado ambientale ed umano che poco lascia alla fantasia del tempo che fu.