In questo nuovo articolo di Franco Gabbani si cambia completamento lo scenario.
Non avvenimenti storico- sociali, nè vicende di personaggi che hanno segnato il loro tempo.Il protagonista è questa volta è il fiume Serchio, l'attore sempre presente nella storia del territorio, con grandi vantaggi e tremendi disastri.
Ma non manca il tocco di Franco nell'andare ad esaminare grandi lotte politiche e piccoli episodi di vita comune legati al compagno di viaggio nella storia del nostro ambiente.
La deadenza
“Cor un boccone m’hanno ‘nganninato,
pè, bellecché gnudato per benino,
colla pungìa pure m’han dopato,
io, ch’ero ner passato … un principino!”
“Dimórto mi piaceva la pulenda,
ora, nzeppata pari d’un salame,
m’han rinserata dietro la chiudenda,
io, ch’ero la signora… d’un reame!”
“Parete du’ animali ‘sraeliti!
Di morì, a mme, ‘ummen’importa niente,
anco se lla mi’ fine è fra’ bolliti!
Mi devin succhià’ culo, lingua e ..dente
prima di trapassà fra’ digeriti,
io, che ciò di collega… un presidente!”
Il triangolo…alimentare
Tre anime di animaletti sono in attesa di essere ricevute dal Gran Dispensiere di Pace.
I tre, un ranocchio una carpa e una chiocciola, stanno rimirando il loro corpo appena lasciato su una tavola imbandita che un gruppo di pescatori e cacciatori ha preparato in un casotto del padule del lago di Massaciuccoli.
Menù classico dei padulani è il piatto di ranocchi fritti, la carpa arrostita ripiena di salcicce o patate e il tegame di chiocciole in salsa ben piccante. Tutto sottomesso e soprammesso da fiaschi di corposo vino rosso del Piano e poncione finale.
Il ranocchio si lamenta della sorte capitatagli, ben diversa da quella alla quale l’avevano preparato i genitori quando, ancora girino, gli raccontavano di un eventuale futuro rivoluzionario bacio di una fantomatica fiabesca principessa.
La sua fine è stata invece quella di essere adescato da un boccone legato ad un filo e al quale non aveva saputo resistere, maledetto appetito!
Fossero poi finiti i guai!
Gli hanno anche tolto la pelle (‘gnudato) e passata dell’ortica sulla tenera rosea carne, affinché la muscolatura risultasse più grossa e turgida (dopato).
Proprio una vita da principe con una fine da…coglione!
La carpa si lamenta della sua passione alla farina di granturco, quella (pulenda) che i pescatori del lago usano per adescare i grossi pesci, mescolata a formaggio, vaniglia, farina di bacherozzi, pane, anice: una cosa da urlo!
La sua ingordigia l’ha portata invece ad essere allamata, pescata, sventrata, riempita di aromi e robe varie, e messa in un forno (rinserrata dietro la chiudenda). Si domanda poi cosa ci avevano da dire quegli omacci quando la tiravano su:
“Badavà che popò di reina s’è cchiappata! Boia ‘e beschia!”
Proprio una vita da regina presa per le..mele!
La chiocciola guarda i due compagni di sventura e si rivolge loro con un’aria di superiorità e velato orgoglio.
Va bena, va bene, dovrà anche lei morire cotta (fra ‘ bolliti), ma non se ne cura più di tanto come fanno al contrario gli altri lamentosi disgraziati (‘sraeliti) animali.
Anzi!! La chiocciola ben sa come si svolgerà il rito della sua inge-dige…stione. Sa che per essere mangiata deve essere ben succhiata in tutta la sua complessa e completa anatomia dove mescolati vi stanno: apparato masticatore, apparato digerente-evacuatore, apparato locomotore, tutto mescolato a quello riproduttore per cui, essendo lei ermafrodita, è sì dotata della sua …lei, ma si porta sempre appresso anche il suo…lui.
E brava la chiocciolina birbantina!
Gli altri si vantano di essere stati “potenziali” principi o regine?
Ebbene, lei allora si gloria di avere addirittura il Presidente della più potente nazione del mondo come “collega”.
E chi non ci crede vada a leggersi il piccante fascicolo “Lewinski contro Clinton”!
Fra curiosità e natura
Questa e le successive ricette mi sono state date dal caro e rimpianto amico Giuliano, figlio di Menotti, colui che diede il nome all’altrettanto rimpianto ristorante in quel meraviglioso e incantevole luogo di riposo e di ristoro sul lago di Massaciuccoli, dove l’indimenticato fondatore ha pescato e cacciato per notai e braccianti, per gitanti e professori e dove le tinche e i lucci saltavano dall’acqua nella padella o sulla brace e dove le folaghe e i germani piovevano dal cielo nei tegami o nelle pentole.
Ranocchi fritti
“I ranocchi vanno pescati in estate che sono più grassi per l’abbondanza degli insetti o del grano. La pesca, a volte viene considerata caccia, si può fare di notte con il lume ad acetilene, detto foone, girando per i campi dove sono stati alzati e ammucchiati i covoni e dove i ranocchi si radunano per grandi abbuffate e dove se ne possono fare abbondanti sacchettate, oppure sull’acqua con l’aiuto dello stesso lume. Con un barchetto, qui bisogna essere in due, si va nei canaletti fra le cannelle, i calatini e si illuminano gli animaletti che se ne stanno all’asciutto sulle grandi foglie galleggianti delle bianche ninfee, le parapotte. Anche in questo caso i ranocchi restano abbagliati dalla vivida luce e si fanno prendere senza problemi. Un altro modo per catturare la preda consiste nell’andare, solamente con il sole alto, lungo i fossi ricchi di erbe palustri con una canna, un filo lungo quanto questa e una chiocciola senza guscio come esca. Legato il boccone al filo, si fa saltellare il finto pasto davanti alla bocca del ranocchio che si getta su di essa ingollandola. A questo punto si tira la canna verso di noi in modo che l’animale arrivi all’altezza della cintola e della mano libera, attenzione alla lunghezza del filo, e si agguanta decisamente prima che quello si accorga dell’inganno e cerchi di sputare l’esca.
I più professionali si legano un pezzo di incerato sul petto dove il ranocchio batte e casca in un sacchetto di rete o una balla fissata, con l’imboccatura aperta, alla vita.
A casa poi si prendono le prede per le lunghe gambe di dietro, si batte loro la testa sullo spigolo di una tavoletta, si decapitano, si spellano e si sviscerano. Dopo averli ben lavati si asciugano e, se sono destinati alla vendita al mercato o casa per casa, si fanno a mazzetti di dodici dopo averli strofinati nell’ortica che ne ingrossa il corpicino con l’azione “urticante” dei suoi peletti. Se invece i ranocchi sono per l’uso casalingo o per i clienti, devono essere ben infarinati asciutti, scossi e infarinati di nuovo e immersi in tuorli di uova sbattute e salate. Si fa scaldare a fuoco lento una padella di ferro con abbondante olio di oliva e si immergono i ranocchi facendoli cuocere, sempre a fuoco lento, fintantoché la copertura d’uovo sia rassodata, per poi aumentare il calore per la doratura finale”.
Carpa arrosto
Le carpe che vivono nel lago sono di due varietà, la carpa vera, detta reina, marrone scuro, con la pelle ricoperta completamente da squame e la carpa a specchio, color bronzo, con pochissime grosse squame che lasciano libera la pelle lucida da sembrare appunto uno specchio. Ambedue sono ottime arrosto specialmente quando pesano intorno al chilo.
Questi pesci possono raggiungere facilmente i 20 anni e anche più e un peso di oltre 10 chili. Si pescano con la canna e con la pazienza, “appastando” i luoghi prescelti con granturco o polenta messa in calze da donna legate ad un sasso. L’altra pesca, più veloce e sicura ma meno sportiva, è quella che si fa con il tramaglio. Il tramaglio è un “arnese” da posta, formato da tre tipi di rete: due esterni a maglie grossissime e uno interno a maglie fitte e tenuto sul fondo da una serie di piombi intervallati sulla fune bassa e in tensione verso la superfice da un’altra serie di sugheri legati sul trave alto.
Si cala di notte intorno ai “cestoni” e, se non vi sono guardie in giro (la pesca con il tramaglio oggi è proibita), si fa anche una “scaccia” battendo con una lunga canna sui bordi del fosso o del lago, vicino alla rete.
“La carpa va squamata, pulita, lavata e riempita di fette di pancetta e di un trito grossolano di aglio, rosmarino e salvia, tutto misto a sale e pepe. L’avanzo di questa miscela si passa anche sull’esterno del pesce che si lega strettamente con filo di rocchetto. Quando il forno è ben caldo si prende un grosso tegame dove sul fondo si saranno sistemate, tipo gratella, delle canne tagliate a metà, con il taglio poggiato sul fondo, e non molto olio. Il letto di canne farà in modo che il pesce non si attacchi al fondo e non si impregni del condimento che però sarà preso con un lungo cucchiaio e riversato sulla carpa quando questa sarà arrivata quasi a fine cottura”.
Ma il piatto re del padule è un primo: il risotto con la tinca, no, meglio, sulla tinca!”.
Risotto sulla tinca
La tinca è uno dei più bei pesci del lago. Il colorito è bruno-verdastro o bruno-olivastro, la pancia dorato-giallastra a volte con riflessi rossicci e l’iride rosso vivo. Come tutti i pesci dalle minute e minutissime scaglie, (vedi per tutti l’anguilla) la sua è una carne prelibata, tenera e grassa. La pesca è simile a quella della carpa, anche se con la canna è meglio usare come esca vermi di terra, e questa è la preparazione del pescato.
“Prima di tutto andrebbe trovata una tinca femmina pregna perché le uova sono decisive per la riuscita del piatto. Il pesce va pulito al solito modo e lasciato intero. Si fa un battuto fine di tutti gli odori in piccola parte: l’odore delle erbe aromatiche non deve superare quello del pesce! Si usa l’immancabile prezzemolo, l’aglio, la cipolla, il sedano, la prezia e il pepolino. Si fanno soffriggere e rosolare pochissimo in olio di oliva, si mettono pomodori freschi spellati, sale pepe e peperoncino e si fa cuocere a fuoco basso. Non si gira mai la tinca, eventualmente si scuote la padella, e si cuoce per un’ora, sempre a fuoco basso. Fin qui la preparazione è simile a quella che si fa, sempre con la tinca, in un altro tipico e delizioso piatto: tinca con i piselli. A noi interessa il risotto quindi andiamo avanti con la parte più difficile: la spolpatura. Il pesce cotto deve essere tolto “intero” dal tegame e spolpato “a mano” e “alla svelta” perché non deve freddare. Si levano religiosamente le uova, se presenti, mentre la testa, le grosse lische, le pinne e la coda si mettono di nuovo al fuoco in un pentolino d’acqua. Bisogna fare attenzione alle piccole lische biforcute che farebbero decadere il risultato finale se trovate in bocca e si rimette tutto al fuoco, polpa e uova, per altri quindici minuti. Aggiunto poi il riso necessario, si cuoce aggiungendo l’acqua colata del brodetto degli avanzi e ci viene in mente un detto di padule: “Disse la tinca al luccio: vale più la mi’ testa der tu’ buzzo!” . Un motivo ci deve essere!
Mi raccomando: l’acqua va aggiunta poca alla volta perché venga assorbita piano piano e non arrivare alla fine che, per eliminarla, il riso stracuocia”.
Grazie Giuliano, attramagliami du’ angioli ‘ndove siei, che ci vieng’anch’io, prim’o ppoi!