Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Ho visto “La Romagna”, il video di Andrea Vignali. Ho ascoltato la voce che leggeva le pagine drammatiche sull’eccidio del 7 agosto e dell’11 agosto 1944 tratte dal “Diario del tempo di guerra dal maggio al settembre 1944” di Alessandro Pardi. Due minuti e mezzo molto intensi: il monumento, la fotografia di Livia Gereschi, i nomi dei caduti.
Ora vi racconto io un’altra storia. È una storia che comincia il 12 agosto 1944 ed è lunga tre generazioni. La racconta il nipote di una delle vittime della strage di Sant’Anna di Stazzema che, molti anni dopo, ha subito le violenze della polizia alla Diaz durante il G8 di Genova del 2001. Si chiama Lorenzo Guadagnucci, fa il giornalista. Ha scritto un libro molto particolare, si intitola Era un giorno qualsiasi, l’ha scritto con fatica recuperando in parte le memorie scritte dal padre Alberto, che è la voce narrante, all’epoca era un bambino di dieci anni e oggi è un signore ottantenne.
Il 12 agosto 1944 quel ragazzino era sfollato durante la guerra in un paesino dell’Alta Versilia con la madre Elena e quella mattina presto qualcuno correndo gridò: “I tedeschi! I tedeschi!”. Si pensava fosse un rastrellamento, quindi i maschi adulti cercarono di nascondersi, si pensava che i tedeschi cercassero i partigiani e che a donne e bambini non avrebbero fatto nulla.
Quel sabato 12 agosto quel bambino, il padre dell’autore del libro, sarebbe dovuto rimanere con la madre, ma disobbedì e andò con un amichetto che si chiamava Arnaldo che stava seguendo a grandi falcate il nonno in fuga verso il bosco. Dietro ai cespugli potevano vedere quello che stava accadendo. Rimasero lì nascosti tra le frasche e sentivano continue raffiche di mitragliatrice ed esplosioni. Vedevano solo colonne di fuoco che si alzavano da un’altra frazione di Sant’Anna che si chiama Vaccareccia. Poi si rifugiarono in una grotta fino al pomeriggio, quando finirono le raffiche di mitra e le esplosioni. Nel frattempo la mamma di Alberto, Elena, e gli altri di quel paesino furono portati in alcune stalle della Vaccareccia e lì ci fu uno degli episodi che hanno portato poi alla strage di quasi quattrocento persone. Elena fu rinchiusa in una stalla con un centinaio di persone, i nazisti lanciarono delle bombe a mano, poi entrarono e a mitragliate finirono quelli che parevano ancora vivi, e poi dettero fuoco alla stalla. Quel bambino, il giorno dopo, scoprì che sua madre era ferita, ma c’era un rastrellamento in corso e fu impossibile trasportarla a valle per curarla, così Elena morì.
Quel ragazzino di dieci anni di colpo rimase solo, perché Elena era una ragazza madre, quindi per alcuni mesi, sballottato fra varie famiglie, fece la vita di un ragazzo di strada, viveva attorno ai soldati afroamericani della Divisione Buffalo, che si erano posizionati in quella zona lungo la linea gotica. Quei soldati gli facevano impressione, non aveva mai visto prima i neri, li osservava ammirato, gli sembravano fortissimi e invincibili. Alberto viveva in una condizione di totale abbandono, fumava le Lucky Strike, le Camel e le Philip Morrris che gli piacevano di più, cantava a squarciagola “Rosamunda Rosamunda che magnifica serata sembra proprio preparata da una fata delicata mille luci mille voci mille cuori strafelici sono trutti in allegria oh ma che felicità…”, giocava per strada con un gruppetto di ragazzini sbandati come lui, sulla rena con il tritolo, nella Versilia selvaggia e paludosa con le bombe ananas che faceva esplodere.
La sua vita errante finì nel febbraio del ‘45 quando venne preso dall’Assuntina Pancioli, la Soratina, la sua salvatrice; però poi l’Assuntina e suo marito Giovanni lo mandarono in un Convitto per orfani di guerra, così Alberto studiò nella vecchia Casa del Fascio di Carrara trasformata in Convitto consorziale apuano “Vittorino da Feltre”. Giovanni Piancioli, il suo salvatore, era un fascista che teneva un busto di Mussolini sulla sua scrivania, è diventato il nonno adottivo dell’autore, un personaggio che non si sa come potesse rimanere fascista e tenere un ragazzino che aveva subito una violenza estrema dal quel regime.
Passano altri quindici anni e quel bambino si è laureato, fa l’insegnante, fa una vita normale, ha una figlia che si chiama Elena, ha altri figli e con la famiglia ogni anno salgono tutti insieme a Sant’Anna per questa ricorrenza. I ragazzi sapevano di nonna Elena, ma non sapevano bene come era andata la vicenda, perché loro padre non gliene parlava, è sempre stata una vicenda familiare avvolta dal riserbo, piena di dolore e di non detti. Il padre dell’autore ha vissuto isolato il suo dolore, ha cominciato a parlarne e a scriverne nel 2004, con il processo a La Spezia per i fatti di Sant’Anna, quando sono stati portati in tribunale dieci dei nazisti che parteciparono a questa strage. In quel momento gli si è sbloccata la memoria, forse perché dal processo in poi ha percepito la possibilità di essere ascoltato davvero.
Quei dieci soldati nazisti non erano dei “mostri”, all’epoca avevano vent’anni, dieci più di Alberto, hanno compiuto delle mostruosità ma in fondo erano persone normali: uno era un fornaio, un altro faceva l’assicuratore, un altro ancora un impiegato. Colpisce il fatto che, come alcuni di loro hanno detto, nel tempo non hanno cambiato idea rispetto ai loro convincimenti sul nazismo. Adolf Beckert nel ’44 era un soldato semplice, a suo dire non fu coinvolto nel massacro, si limitò a eseguire gli ordini, perciò fu chiamato a La Spezia come testimone per descrivere la scena capitale dell’eccidio davanti alla Chiesa. Alle persone chiesero dov’erano gli uomini. A un certo punto fu chiamato il parroco e gli fu dato un ultimatum di dieci o quindici minuti, il testimone non ricorda. Alla scadenza dei minuti il parroco fu chiamato di nuovo e gli venne detto che se non avessero parlato sarebbero stati fucilati. Tutte le persone erano in piedi. Il parroco si avvicinò, a quel punto tutti si inginocchiarono e cominciarono a pregare. E furono massacrati.
Poi la vicenda si intreccia con i fatti di Genova. La consapevolezza di questo intreccio l’autore del libro ce l’ha avuta durante il processo per il G8. L’autore fu l’unico giornalista a trovarsi dentro la scuola Diaz durante l’irruzione della polizia, subì un pestaggio e un arresto. Il riferimento a Sant’Anna emerse quando il pubblico ministero, nel suo atto d’accusa contro i dirigenti e i funzionari della polizia, applicò lo stesso parametro giudiziario usato nel processo a La Spezia chiamando in causa la catena di comando a prescindere da chi poi avesse effettivamente usato violenza. Naturalmente l’autore del libro allora rimase basito nell’apprendere che sia i dieci nazisti condannati all’ergastolo per Sant’Anna, sia i venticinque agenti funzionari di polizia condannati per la Diaz, pur in due casi molto diversi, sono stati imputati per aver fatto parte della catena di comando in operazioni preordinate e quindi accusati di aver avuto una responsabilità pur senza aver compiuto materialmente le violenze.
Intanto con Genova e con le torture alla Diaz Lorenzo ha subito quello che i tecnici chiamano col termine “stress post traumatico”, una tensione di cui non si è liberato, una violenza subita è un fantasma che ti perseguita sempre, c’è una specie di eredità genetica dei corpi martoriati. L’anima a volte c’è, a volte un po’ meno, secondo le epoche storiche, ma come scrive Wislava Szymborska, il “corpo c’è, e c’è, e c’è / e non trova riparo”. È incredibile, ma la vicenda di Sant’Anna turba Lorenzo più ora di prima, salire a Sant’Anna gli crea più tensione. Però ci va. Chissà per il bosco.
Post Scriptum. La citazione di un verso della Szymborska e le parole sull’anima che la precedono sono tratte da “Antonio Tabucchi, Di tutto resta un poco. Commiato da Antonio Cassese”, p. 262, Feltrinelli, Milano 2013.