In questo nuovo articolo di Franco Gabbani si cambia completamento lo scenario.
Non avvenimenti storico- sociali, nè vicende di personaggi che hanno segnato il loro tempo.Il protagonista è questa volta è il fiume Serchio, l'attore sempre presente nella storia del territorio, con grandi vantaggi e tremendi disastri.
Ma non manca il tocco di Franco nell'andare ad esaminare grandi lotte politiche e piccoli episodi di vita comune legati al compagno di viaggio nella storia del nostro ambiente.
Per i cacciatori di padule solo i germani, le alzavole, le marzaiole, fischioni e codoni, erano detti “uccelli”, tutto il resto veniva catalogato come “bastardume” e, come nella vita, era il più numeroso.
Cronaca di caccia:
Il colpo di cannone faceva partire tutte le barche ormeggiate e stazionate davanti alla rotonda del lago di Torre del lago e lungo le sponde delle Quindici, delle Venti e della bonifica di Vecchiano
Alle dieci della domenica cominciava la corsa verso il branco delle folaghe che pascolavano il marobbio che cresceva invadente nel lago di Massaciuccoli.
Gli uccelli erano migliaia e migliaia e tutti i barchini portavano un cacciatore fisso e il vogatore che pativa e remava.
Pativa per lo sforzo di arrivare tra i primi e dalla passione e la frenesia della caccia e del contatto del legno anziché del ferro.
Arrivati a tiro era un quarantotto. Milioni di milioni di pallini ricadevano nelle acque in una pioggia di goccioline di piombo.
Le folaghe si alzavano in volo, ma non si allontanavano da quel luogo ricco di cibo che avevano raggiunto dopo settimane di volo, e venivano massacrate a balle.
Le barche si riempivano di penne nere e il rombo degli spari si sentiva fino a Metato.
Mio padre andò alla tela una domenica, con il barroccio e la barca caricata sopra.
Il viaggio di una decina di chilometri fu più lungo del previsto e l’arrivo a tela iniziata non fu producente; la mancanza poi di cattiveria non favorì il carniere e la tagana rimase vuota.
Chi sparava e non coglieva non si faceva scrupoli, raccoglieva la prima folaga che capitava, tanto l’impallinata non era un marchio e la rivalsa sulla preda era la voce più alta e le spalle pin grosse.
A mezzogiorno era tutto finito, le barche ritornavano al pontile, i cacciatori infilavano le folaghe in un filo di ferro fatto passare nelle narici di quei becchi bianchi e le pigge degli uccelli neri erano attaccate alle biciclette o sui cofani delle macchine.
Chi non aveva la barca, i soldi per pagare il biglietto della tela (il lago era sotto un consorzio che pretendeva una tassa per la caccia e la pesca) o, addirittura, chi non aveva neppure il fucile stava sugli argini perimetrali, al risucchio di qualche animale ferito che andava poi a morire nei campi.
La smania della caccia e la posizione delle prime barche che arrivavano sul "mastione" delle folaghe, da destra e da sinistra, provocavano spesso feriti, anche gravi, che venivano subito soccorsi dalle uniche barche a motore ammesse nel Iago, quelle delle guardie del consorzio o dei carabinieri.
A proposito, mio padre quella domenica tornò tardi e rispose così alle nostre domande di cosa avesse preso:
"Ho tirato una folaga e ..... "
"O babbo, o come parli. Hai tirato "a" una folaga!"
"No, no, ho tirato "una" folaga per la testa e un pisano prima e un fiorentino poi, hanno tirato dalla parte delle zampe e a me m‘è rimasto du' teste in mano, ma almeno ho rispiarmato le 'artucce!"