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Un paese che amo, il paese della mia mamma.Anche ora quando vado a RIPAFRATTA  sono la figlia della "Cocca".

Un paese con una storia importante che conserva vestigia di grande rilievo.

Un paese rimasto inalterato nel tempo, non ci sono insediamenti nuovi, potrebbe essere il set di film d'epoca perché  anche le case, le facciate conservano la patina del tempo.Un paese che è  ancora comunità.  

Ricordate il tubo di refrigerazione della nuova pista .....
. . . come minimo si risponde due volte altrimenti .....
. . . siamo a M@ sterchief. Sono anni che giri/ ate .....
. . . Velardi arriva buon ultimo.
Il primo fu il .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Nella Segreteria è stata eletta Silvia Cosci, confermato Piero Benazzi
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di Umberto Mosso
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di Emiliano Liberati
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di Adriano Bomboi
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di Mario Lavia
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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di Angela Baldoni
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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Qualcuno mi sa dire perche' rincoglionire
viene considerato un inevitabile passaggio
alla fine del faticoso viaggio
vissuto da tutti con coraggio?
Il .....
ad oggi la situazione è peggiorata
ora anche tir, pulman turistici , trattori, camion con cassoni per massi,
etc. . E ad alta velocita,
inquinamento .....
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Una beffa goliardica.
(l'antefatto: Oleandro)

25/9/2016 - 7:43


 Ritorniamo a leggere Astianatte che, se ancora non si sapesse, dai suoi scritti  se ne capirebbe il  mestiere: l’avvocato! Giri di parole per arrivare al nocciolo, descrizioni minuziose di  spiegazioni di piccole cose, ma sempre con precisione e tanto umorismo.
Nel terzo volume di Mal di palle di ponte  si parla delle BEFFE GOLIARDICHE, periodo 1921 - 1925. Una di queste è particolarmente “beffarda” È un racconto lunghetto diviso in tre parti: la preparazione della beffa, da dove è stato preso lo spunto e la finale. La parte centrale è la più interessante anche dal lato storico-sociale della vecchia Pisa. Astianatte non me ne voglia, ma partirei da lì e, stravolgendo l’impaginazione, far seguire le altre due: preparazione e beffa finale.


Pisani di oggidì, miei concittadini. {figli e schiavi del Water-closet incastonato da maioliche pregiate, in modo che quasi non lo si vede né lo si . . . sente) sappiate che a quei tempi era uso (e l’uso ripetuto, ce lo insegna Papiniano, diventa Legge) che in estate il libero cittadino potesse deporre il fondo delle sue viscere sub lumina lunae.
Cosicché quel tratto di lungarno (oggi Pacinotti, ieri Regio) che va da palle di Ponte al Nettuno, nei mesi primaverili ed estivi era il ritrovo di tutti i cittadini male e anche dei cittadini bene.
Era comunque il salotto (e la suburra) della città in vena di chiacchiere e poncini, al lieve zeffiro  notturno. E poiché era follia pensare che chi fosse colpito da urgenza del colon, si adattasse a tornare a casa, così preferiva la “panchina”. La panchina era (ed è) quella striscia di calcestruzzo  corta (ma . . . longilinea) la quale fa da terrazzo senza ringhiere e che segue le spallette, parallelamente all’Arno.
Una volta essa serviva da via alzaia quando i becolini portavano da fuori Pisa, fino al Canale dei navicelli (e viceversa) le loro mercanzie. Sulla panchina, a contatto di Lungarno, c’era però scarsità di luci, poiché era defilata  dall’ombra compiacente delle spallette. Cosicché, e vengo al sodo, o come preferite, al liquido, tutti coloro i quali si trovassero nelle condizioni del villeggiante di Montecatini dopo un’ora di Tettuccio o Tamerici, (e avessero, gioco-forza, da . . . sciogliere un voto alla dea Igea) scavalcavano la spalletta e si chinavano sulla panchina a latere.
E talmente era divenuto una abitudine che (si sa: l’abitudine determina lo stimolo) di rado i passaggieri serotini che si trovassero in quel determinato momento a quella determinata necessità in quel determinato luogo, potessero esentarsene. Anche se luogo comodo, effettivamente, non fosse! Dimodoché (ed eccomi alla sintesi .. . ammoniacale) verso la mezzanotte la “panchina” si trovava costellata di piccoli vesuvi, a cui faceva da “nuvoletta”» il solito pezzo di giornale.
Ora si ha da sapere che un ometto (Oleandro) avesse per mestiere (artigianale) la raccolta dai vari "vesuvi" e che partendosi dalla Spalletta, e tira giù, fino alla Piagge, (percorrendo la Via "Alzaia") trovasse modo di riempire una corbella cha recava a spalla con una fune, aiutandosi nella raccolta, con una paletta ricurva il cui ritmo era così abitudinariamente preciso da far invidia (escluse le proporzioni) al moderatore della "ruspa".
Allora Oleandro (perché portasse un nome così floreale non saprei dirlo, a meno che il concetto di concime non si collegasse coi carboidrati che favoriscono la floricoltura) giungeva alle Piagge, si fermava al Caffè Menighetti e trovava anche la strada per andare a centellinarsi il ponce nero con la cimosa, lasciando all’esterno il puzzo della sua mancanza, pressoché sicuro che i soliti ignoti non avrebbero osato porre la mani-adunche sul suo tesoro. Dopo di che Oleandro proseguiva per San Michele e San Biagio dove i cultori di fagioli (i più apprezzati nel mondo della culinaria) barattavano in derrate varie il contenuto della corbella concimatrice. Talché (ferma restando la fama dai fagioli di S. Michele dagli Scalzi) c’è da trarre motivo di riconoscenza verso Oleandro il quale forse favoriva la razza di un fagiolo che, per vie ancestrali, riduce in gas la raccolta dalla "panchina". Ad arrotondare il bilancio, il buon Oleandro ogni mattina passava dalla Tesoreria del Comune dove il Ragioniere Capo, il compianto Rag. Tallini, aveva destinato un obolo giornaliero deliberato dalla giunta, per quel volontario netturbino notturno.

Oleandro era educatissimo e per natura remissivo e schivo: anzi quando, nel suo iter notturno, avesse puta—caso, inciampato uno dei suoi donatori (ancora intento al... dono) sostava compunto e paziente col dire: ”Faccia’ Faccia il suo comodo" come per dire: aspetto anche codesto obolo.. Ma guai se inciampava un concorrente  Volavano vanghette e corbelle e non è da dire che, illo tempore, i contendenti fossero protetti da scafandri da "sub"!

 

(segue)

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