In questo nuovo articolo di Franco Gabbani si cambia completamento lo scenario.
Non avvenimenti storico- sociali, nè vicende di personaggi che hanno segnato il loro tempo.Il protagonista è questa volta è il fiume Serchio, l'attore sempre presente nella storia del territorio, con grandi vantaggi e tremendi disastri.
Ma non manca il tocco di Franco nell'andare ad esaminare grandi lotte politiche e piccoli episodi di vita comune legati al compagno di viaggio nella storia del nostro ambiente.
Lorenzo Viani, (1882-1936), viareggino, pittore, scrittore, anarchico, interventista, fascista, pubblicista, “vàgero”, è uno straordinario personaggio di spicco nell’arte italiana nei primi trenta anni del ‘900.
Cosa è un “vàgero”?
Viani lo descrive così: da navagero, uomo di bordo rotto a tutti i perigli e a tutte le navigazioni, uomo d’onore e di rispetto. Da vàgatio il vagare e da vage, sparsamente, qua e là dei latini?
Viani ne ha inventati a decine di strani nomi!
A Bocca di Serchio, non ricordo esattamente l’anno ma sarà stato intorno al 1960, fu girato il film “Angiò, uomo d’acqua” tratto dal capolavoro di Lorenzo Viani. Ne seguii le riprese per un po’ di tempo e mi feci regalare anche il copione, andato poi da me dimenticato e poi perduto, così come perdute dal regista furono le bobine del film mai compiuto.
Mi resta questa foto di un momento magico.
Da “Storie di vàgeri” ecco un personaggio degli “Ubriachi”
NOCCIOLO
Lo chiamavano Nocciòlo perché, sui polsi massicci e pelosi, gli erano venuti, invecchiando, dei gruppi di nervi grossi e duri come noccioli di pesca. Nel vicinato, le donne, lo chiamavano nervi doppi.
Nocciolo era un vecchio che aveva navigato tutta la vita: da ragazzo di sei anni si arrampicava già sulle antenne a chiudere i velacci: a riva era tanto piccolo che pareva un gatto.
Durante la lunga navigazione si era perso una decina di volte: aveva snottato sugli sbruffi del mare aggrappato ad un paiolo, beccato dagli uccelli marini; era state intirizzito sulla cima dell’albero della barca andata al fondo, aveva nuotato un giorno e una notte col gatto del bastimento aggranfiato sulla testa, si era intrippato tante panciate d’acqua salmastra, ma la morte lo risparmiò sempre! La carne gli s’era indurita e la pelle di Nocciolo era divenuta arsiccia e screpolata.
Tutte le mattine Nocciolo, da quando si era messo in terra, si vedeva sulla calata del molo; benché vecchio era ancora tarchiato e adusto. Andava verso il mare a bocca aperta respirando il maestrale fresco, socchiudendo gli occhi piccoli che tagliavano il cielo, camminava traballando, come quando era in coverta e la barca era sopraffatta dal marettone, giungeva trafelato fino alla cima, si aggravava sulle gambe salcigne, sotto il telaio di ferro del fanale e, come fosse sul carabottino di prua, squadrava il mare su tutte l’orizzonte.
Quando ritornava indietro il viso di Nocciolo si scuriva!
Il pomeriggio Nocciolo lo passava nella cucinetta del Buon Amico.
In quella stanzetta nera, tra l’odore dei caldarelli entro i quali bolliva il pesce, tra il croccante sfrigolio degli spicchi d’aglio e l’arrosolio dei peperoni che faceva pizzicare gli occhi, tra quella fumacea che sapeva di lardo, di pece, di grasso, Nocciolo respirava bene: gli pareva che sopra il soffitto, da cui pendevano forconi di cipolle, piggelli di pomodori, filze d’aglio, pezzi di lardo, mazzi di rosmarino e di salvia, ci fosse la coverta e lì, nell’orto, il mare, e la cucina del bastimento travagliasse per la ciurma indaffarita a riva...
E la bocca di Nocciolo, irta di denti, rideva e gli rideva il cuore; e beveva, con bramosia, i ponci che erano arditi come quelli di bordo.
Ma quando, verso il credo, usciva sulla via tra il folto della gente, il viso di Nocciolo si scuriva!
Nelle sere di libeccio, quando il vento inviperito divelgeva le tamerici sulla spiaggia e sollevava turbini di rena, che mordeva gli occhi, nella pineta ululava trai pini, nelle rende chiuse pareva che arrovellassero spiriti dannati e le antenne scricchiolavano, il mare saliva alle stelle e turbinava indemoniato nell’aria. Si flagellava negli scogli aguzzi, si ritraeva con i gorghi neri e tirava a risucchio anche la rena fonda e, gonfio d’ira tornava a mordere gli scogli e qualcuno ne trascinava nella ruina della sua devastazione nera e spaziava con la bava palpitante per la spiaggia che lo beveva. Allora Nocciolo, con gl’imbuti dei calzoni rimboccati a mezzagamba, col camiciotto di lana, solo, come un uccello notturno, bevendo l’acqua che gli schizzava in bocca, quasi folle, si arrampicava sul telaio del faro e, di lassù alto, si gettava, con riso forte, là, nel tumulto delle onde, a bracciate larghe che gli facevano ingavonare la testa nel crepitante vortice delle acque. Vi si tuffava come le folaghe, e spariva nel profondo: si disperdeva più lontano, nero come un delfino, sgrondava acqua dai capelli, e, urlando, spariva nell’orizzonte infernale mareggiando fino a giorno, al largo, ora buttandosi rivelto sui fili della corrente e facendosi trascinare come una cosa morta, ora infilando, come una balestra, dentro le ondate, ora empiendosi la bocca d’acqua e spruzzandola in aria come un capidoglio.
La mattina stracco, riattraccava alla Fossa dell’Abate e, così fradicio, traversava la pineta e si andava a buttare sullo strapunto, mezzo tramortito.
Nocciolo, allora, era schiarito!!...
Quando il temporale lo sorprendeva la sera in qualche caffè dentro terra, Nocciolo alzava le orecchie come un cane mastino, poggiava i manoni sul tavolo, allungava il collo verso la porta:
“Il mare! bugna il mare!! O vigliacchi di terrazzani, non sentite che bugna il mare?... Dammi un altro ponce!”
lo beveva in una boccata, pigliava la giubba sul braccio e usciva di botto fuori, quasi folle, si avviava di corsa alla marina e si buttava a picco nel mare!
Una mattina Nocciolo non approdò né alla Fossa dell’Abate, né a Bocca di Serchio, né sul Magra.
La voce era corsa su tutta la spiaggia del Gombo: “Nocciolo è sparito nel mare!”.
Alle sfociate dei fiumi, con le bilance, con le reti larghe della sciabica, con gli arsaglini i marinai pescavano a tutto fondo... ma Nocciolo era laggiù ma' mai!
Quando gli fu scoppiato il cuore, Nocciolo aggallò sulle acque, che erano morte, un fil di corrente, che andava lento come l’olio, Io straccò sulla spiaggia!
Nel tepido sole, la rena parve una coltre d’oro: il mare ve lo depose piano, rivelto; le occhiaie erano vuote e le gaime ci svolazzavano sopra, ma Nocciolo rideva con la tastiera dei denti, a braccia aperte, e pareva dicesse: “Padre Eterno, m’avete fatto fare felice fine!”.