Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Quando i contadini dovevano vendemmiare i lunghi filari di merlò o di trebbiano, cercavano la manodopera fra parenti ed amici ed anche i bambini erano bene accetti.
Il lavoro duro della vendemmia veniva compensato dalla gioia di stare con i grandi, di essere a nostra volta considerati grandi, fino al punto di avere in consegna forbici e coltelli che in altre occasioni ti saresti sognato di poter liberamente usare.
Non si risparmiava la raccomandazione di "state attenti che queste tagliano anche le dita!" ma, se eri lavoratore accorto e diligente, potevi avere anche le meravigliose, misteriose, inavvicinabili e sognate "forbici da pota". Nere, pese e unte, tagliavano effettivamente di tutto, gambi, tralci, canne e legnetti, sempre più corti: da due quattro e da quattro otto e ti ritrovavi cosi, per prova e fra le mani, una manciata di centimetri di vite che usavi come proiettili da tirare nel groppone dell'amico che era avanti a te e non aveva perso tempo "colle bischerate ".
Le cassette vuote, quelle delle patate, dovevano essere portate e messe distanziate fra i filari, tanto quanto bastava per finirne una ed avere subito quella vuota per non perdere tempo, ed era compito nostro.
C'era da portare i recipienti colmi in testata, dove aspettava il carro dei buoi che con la spazzola di crini della lunga coda si flagellavano la schiena per scacciarsi le tafanelle che li mangiavano.
Anche questo era un compito che andava affidato a noi, a coppie forti e robuste che, se dimostravano di esserlo davvero, potevano aspirare ad un altro incarico: la pigiatura.
Nelle bigonce, tanto alte che ti arrivavano al petto, c'era, con una specie di clava di legno alta quanto te, da pigiare le pigne d'uva perché si riducessero di volume ed avere l'inizio anticipato della fermentazione.
Con movimenti lenti e ritmati, il pigio andava sbattuto, né troppo forte, perché il bigongio era fatto di doghe di legno che potevano allentarsi e versare, né troppo piano, perché altrimenti veniva pigiato solo quello che galleggiava, né troppo in alto, perché, quando rientrava nel mosto, la testa del pigio faceva schizzare liquido da tutte le parti.
Esaurita la sommaria pigiatura, raccolti e mangiati cento volte quei tre o quattro chicchi d’uva sopra che ti sembravano belli come nessun altro nella vigna, ti ritrovavi le mani tutte appiccicose come quando infilavi i diti nel barattolo della marmellata per cercare quella che la punta del coltello non arrivava.
Le puntatine fatte nelle altre filate per vedere di recuperare un raspollo di un'uva che non fosse quella che ti aveva riempito fino alla nausea, quella grossa e rosa chiaro, le "palle di gatto", o quella gialla, dura e lunga, "la salamanna", o quell'altra tonda e profumata, "la moscatella", avevano esaurito la fase della curiosità.
Il capoccia che ti controllava perché tu non lasciassi indietro pigne nascoste,· o ti urlava di stare attento a non lasciar cadere, esortandoti a raccoglierli da terra, gli acini perché: "O bimbi, 'r vino; si fa colle 'iccolal", ti limitava e annullava la voglia di scherzare al pari delle forbici che avevi in mano e che, capivi benissimo, proibivano ogni genere di scherzo.
Lì eri in cima al campo, lontano dai parenti, con la testa dell'amico vicino vicino, i piedi nudi nella terra fresca che avevano voglia di scattare se inseguiti, le mani già impiastricciate. Bastava prendere una manata di mosto, mescolarvi un po' di terra renosa, e con quella mota "enologica", dare una bella stropicciata alla faccia girata ed ai capelli del compagno disattento che doveva portarsi quella “beretta” fino alla sera, perché acqua lì non ce n'era, neanche per bere.