In questo nuovo articolo di Franco Gabbani si cambia completamento lo scenario.
Non avvenimenti storico- sociali, nè vicende di personaggi che hanno segnato il loro tempo.Il protagonista è questa volta è il fiume Serchio, l'attore sempre presente nella storia del territorio, con grandi vantaggi e tremendi disastri.
Ma non manca il tocco di Franco nell'andare ad esaminare grandi lotte politiche e piccoli episodi di vita comune legati al compagno di viaggio nella storia del nostro ambiente.
Deccoli ‘n gruppo come costumanza:
appena uno ci trova ‘varcosina,
chiama parenti amici e figliolanza
e ‘un conta se lla zzona è ‘n po’ strettina.
Sono a Ppisa, su’ lungarni a mendià’,
arrivin a Vïarello e Samminiato,
‘ngrufiano tutto ‘vello ‘he nni si dà
in cambio d’un lavoro certo ‘ngrato.
Cor sole, freddo, estat’oppure ‘nverno,
‘un si domandin certo der domani
quando stanno di fòri allo sciavèrno.
Se lli scacci cor batte’ delle mani
ti senti d’esse’ come ‘r padreterno
e, ppe’ ffa’ prima, gridi “sció..gabbiani!”
Chi fa di necessità virtù
Chi non ha mai visto uno stormo di gabbiani volare dietro un colorato peschereccio che rientra in porto mentre l’equipaggio sta pulendo la coperta dallo scarto della pesca?
La confusione nello stormo è al massimo, tutti cercano di non far affondare, e quindi perdere, quei pesci morti che il mercato non vuole, ma che per loro significano cibo sicuro, meno lunghe uscite, meno fatica.
Chi non ha mai visto uno stormo di gabbiani volare dietro un bianco traghetto che dalla costa porta turisti in una delle nostre meravigliose isole?
Non vi è confusione di sorta, il rombo dei motori, lontani nella sala macchine, non si percepisce; gli uccelli silenziosamente seguono la scia dell’aria calda che esce dal fumaiolo e vanno dove va la nave, sapendo che il giorno dopo un rimorchio simile farà il percorso inverso.
Sono in gruppi numerosi sulle spallette dell’Arno in pieno centro di Pisa, felici anche solo dei pezzetti di pane che turisti e cittadini non negano mai.
Sono nelle discariche di rifiuti di ogni genere: civili, industriali, di inerti e perfino tossici, tanto da essere chiamati “spazzini alati” (lavoro ‘ngrato).
Non migrano come fanno i loro parenti oceanici.
Cosa ci vanno a fare lontano se il clima qui è buono, mangiare se ne trova?
Vale la pena di sopportare la vita all’aperto (allo sciaverno) e qualche “ bischero” che crede di spaventarli, per farsi grande, urlando loro dietro e battendo le mani!
Fra curiosità e natura
Il gabbiano è un uccello troppo noto per poter essere descritto. A parte la sua leggerezza nel volo, tanto da essergli state dedicate canzoni, poesie e liriche, quello che colpisce è la sua “eccentricità” nella colorazione degli occhi. Iride gialla con un vistoso cerchio rosso, colore che si ripete nel becco e nei piedi, contrasto netto con il biancore candido del piumaggio.
Gli Indios dicevano che il gabbiano fosse il primitivo e geloso proprietario della luce del giorno che gli fu poi rubata dal corvo per regalarla all’uomo.
Nei miti greci si è già detto della metamorfosi di Ceice e Alcione.
Si trova la spiegazione del suo atteggiamento guardingo e la sua predilezione per il mare, in una bella favola di Esopo:
“Il pipistrello, il gabbiano e il rovo”.
Esopo racconta che un pipistrello, un gabbiano e un rovo fecero una società mettendo ognuno un po’ di capitale: il primo i soldi, il secondo del rame e l’ultimo delle stoffe. La nave che li trasportava verso i fiorenti mercati dell’oriente fece naufragio e i tre soci si salvarono a stento, perdendo però ogni loro avere.
Il pipistrello, da quel momento, decise di viaggiare solamente la notte per evitare i creditori, il rovo cominciò ad attaccarsi alle vesti di chi incontrava per verificare se quelle stoffe fossero le sue perdute ed il gabbiano prese a volare sul mare e girare intorno agli scogli per cercar di poter recuperare il suo rame.
E’ scomparsa recentemente una credenza che smitizzava la simpatia e la leggiadria del gabbiano.
I marinai dicevano che l’uccello, incontrato lontano dalla terraferma, in mare aperto, era l’anima di un loro collega morto affogato e gli operai addetti alla costruzione dei fari, in quelle minuscole isolette, non volevano lavorare se trovavano nidi di gabbiano sugli scogli.
A Bocca di Serchio, chiamata ora dai cittadini che vengono al mare solamente pochi giorni d’estate: “la penisola dei gabbiani”, questi animali venivano un tempo cacciati.
La caccia consisteva nel fare una grande buca nella sabbia, metterci davanti, lato mare, una paratia di canne e sterpaglia, un gabbiano legato per una zampa ad un picchetto ed aspettare che quelli in volo venissero a vedere cosa ci facesse un loro simile lì, solo solo.
I cacciatori, nascosti nella buca, sparavano agli uccelli quasi a perpendicolo su di loro.
Quando un gabbiano, o anche più di uno, arrivava non visto radendo l’acqua per fermarsi accanto al compagno legato, il cacciatore si alzava in piedi urlando perché, nella sua etica, era sconveniente tirare da fermo.
Ho fatto anch’io questa caccia e a mia madre, che brontolava nel vedere quei grandissimi corpi sulla tavola di cucina, insegnai una ricetta per cucinarne il corposo petto e le muscolose cosce.
Non fu la sola mancanza di cibo sulla tavola che fece accettare la sua carne, ma la sua bontà come una delle più gustose mai assaggiate e non fu solo il lavoro e la famiglia che mi fecero smettere di cacciarli, ma le grida dei feriti, del richiamo, di quelli che si accorgevano dell’inganno, del tonfo sordo che facevano i morti nel cadere sulla sabbia bagnata.