Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Quando finiva il film al Teatro del popolo, nelle calme nottate autunnali, andavamo a fare una caccia sul Serchio che mia madre diceva essere un massacro.
Gli uccelli acquatici, che vivevano sul fiume e nei canneti, la notte dormivano sulle cannelle delle rive o sui rami degli alberi che sporgevano sull'acqua, ma mai troppo in alto perché‚ in caso di pericolo, si sarebbero potuti buttare in acqua sfuggendo a nuoto e non andare a sbattere nei rami al buio.
Gallinelle, voltolini, porciglioni, folaghe e anche qualche anatide, passavano la notte appollaiati sulle canne e le più piccole possibili, perché non reggessero il peso in più di un animale da preda notturno che avesse cercato di assalirli nel sonno; in posizione avanzata sull'acqua per avere un lato libero per la fuga.
E noi attaccavamo da quel alto, subdolamente, vigliaccamente, rovinando sonni e sogni di pescate di crognoli e vermi grassi.
Come ogni altro uccello anche i palmipedi e i trampolieri dormono con la testa sotto l'ala, pronti però a scattare ad ogni minimo fruscio e per questo noi andavamo a metà fiume, verso monte e controcorrente fino da Argante dove cominciavano le cannelle, e da lì scendevamo fino al mare facendoci portare dalla corrente per non remare e non fare così nessun rumore con i remi, sfiorando appena la massa delle canne illuminate dal lume a carburo.
Il "foone" era composto da due camere di metallo avvitate una sull'altra dove la superiore conteneva acqua e l'inferiore carburo in grossi pezzi duri e pesi come fossero sassi. Il carburo si comprava dal Bargagna, ma bisognava stare attenti che il vecchio volpone di Quintilio non ti rifilasse quello esaurito, riconoscibile perché morbido al tatto, e neanche il rimasuglio di polvere o pezzetti piccoli che si sarebbero consumati subito.
Dal sopra l'acqua scendeva a gocce nella camera di sotto e, combinandosi con i "sassi", produceva un gas che, trovandosi chiuso, andava in pressione sfogando da un beccuccio con un sibilino che faceva intendere che era il momento di accendere.
Quel gas bruciando faceva una luce bianca e vividissima che, indirizzata e riflessa da una parabola, era molto più forte di quella prodotta dai fari elettrici.
Ora quei lumi non si usano più perché ingombranti, pericolosi, a qualcuno è scoppiato in mano con seri danni, e sono sostituiti dalle "pile".
Con loro è finito il gusto di calibrare la goccia d'acqua, la tecnica di far chiudere perfettamente le due camere di ferro ermeticamente, senza poi sapere se l'acetilene prodotta era il risultato della combinazione di idrogeno e carbonato di calcio, ma era bello così com'era, creare luce a piacimento, in condizioni primitive e privative e proibitive.
Con quegli autarchici, pesanti lumi, andavamo di notte a sorprendere nel sonno i sopraccitati uccelli, armati solamente di luce e di un lungo bastone.
Si andava in tre in barca, come gli eroi di J.K.Jerome, uno ai remi, un altro al foone e il terzo alla "bacchia", con l'intento però di cambiare posizione ogni tanto come da accordi presi prima di partire, perché era molto controproducente litigare in barca per le attribuzioni di lavoro dato che , facendo rumore, si scacciavano gli animali e si attiravano le guardie di Migliarino e di S.Rossore.
Non si doveva fare il più piccolo fruscio perché gli uccelli erano sempre all'erta. Già in lontananza si sentivano i chiacchiericci di quelli che non riuscivano a prendere sonno e non era conveniente che altre grida si aggiungessero ai rumori nitidissimi nel silenzio della notte.
Il suono emesso dalle folaghe è un "pèè" come di una trombetta da bambini, intervallato ogni due o tre secondi, mentre le gallinelle lanciano un "Kèùkèùkè" attutendo il tono e l'intervallo fino ad un ultimo "keee" tenero tenero, a fil di voce.
Quando la notte qualcuna di loro si svegliava per fatti propri, il canto emesso era leggero, mai completo, come fa il cane appisolato quando forse sogna.
A monte e a valle si sentivano "pee e kee", brevi, sommessi, mescolati ad altri rumori naturali che non allarmavano gli uccelli addormentati, ma bastava che uno lanciasse un grido di paura che subito si levava un coro di stridi, tonfi, urli e sbattiti d'ali e veniva istintivo rattrappirsi nelle spalle, soffiando un "sss!" di silenzio.
Il timoniere rematore, compito ingrato perché non partecipava in modo diretto alla caccia, si doveva tenere più vicino possibile alla riva, attento però a non urtare le lunghe canne semisommerse che avrebbero trasmesso il rumore a terra; l'abbagliatore manovrava il foone lentamente, in alto e in basso verso le canne, mai a destra e sinistra, che altre barche avrebbero potuto vedere la luce ed arrivare non viste a troncare quell'illecito modo di caccia, mentre il bacchiatore con la sua pertica era pronto a calare botte sul capo, anzi sulla schiena che il capo era sotto l'ala, a quegli uccelli che venivano a trovarsi nel raggio di luce e che sarebbero rimasti momentaneamente abbagliati nel caso avessero alzata la testa dopo svegliati.
La forza impiegata per dare la bastonata era tanta, moltiplicata poi per la lunghezza del legno impugnato sul fondo, e la gallinella veniva sflagellata se non si svegliava in tempo e gettarsi di scatto di lato urlando uccellesche maledizioni.
Se al bastone c'ero io , dopo tre o quattro volte che colpivo qualcosa, acqua canne o gropponi, novanta su cento troncavo il palo e allora …..a casa.
Molte altre volte il carburo si riempiva d'acqua perché perdeva il tubicino e allora, a metà serata, con un lampeggio ed un cambiamento di colore da bianco a giallognolo, il lume si spengeva e addio cacciata.
Le voci allora ritornavano alte, la remata forte e rumorosa, cessato il pericolo di svegliare folaghe od altro e tale altro poteva ritornare a cullarsi nella brezza notturna, ringraziando San Papero per lo scampato pericolo e noi ad insultare e maledire gli uccelli per la mancata mangiata del giorno dopo.
A volte si trovavano addormentati sui rami anche passeri, storni, martin pescatori e tante, e così tante rondini che faceva tenerezza vedere quei corpicini acefali, bianchi e neri, uno accanto all'altro e non sembrava affatto melenso e sdolcinatamente fuori tempo colui che aveva scritto che le rondini sui fili sembravano note di uno spartito musicale.
Oltre agli incidenti tecnici che potevano troncare la caccia notturna, vi erano pure quelli naturali ad aiutare a sfuggire le bastonate, cioè un vento improvviso che scuoteva troppo le cannelle e metteva tutti in agitazione, oppure un acquazzone inaspettato che spengeva il lume, una nottata stranamente carica di quel qualcosa che spinge i polli a chiocciare, i cani ad abbaiare, molto prima della manifestazione di un temporale o di un terremoto e che, nel nostro caso, teneva all'erta tutta la popolazione delle rive e se poi niente succedeva al bastone, niente al foone, niente turbava il riposo delle prede, ci poteva sempre essere l'Imprevisto!
La Lolina aveva preso da poco il turno al bastone dopo aver litigato con Moreno che non voleva remare o tenere il lume perché non aveva preso niente nella sua mezz'ora, io ero al remetto e cercavo di zittire i due che altrimenti quella nottata l'avremmo persa, anche perché cominciava a schizzignare.
Eravamo sul lato di Migliarino, sopra al Ciardelli, quando vedemmo la solita sciabica bella scoperta e a tiro. Ero andato molto vicino alle canne perché l'animale era addormentato profondamente. Con l'esperienza, dopo un po', si riusciva a capire se l'uccello avrebbe retto o meno da tutta una serie di lievi movimenti che scuotevano le penne dei poveri animali.
Eravamo a tiro, tutti tesi e pronti per il momento della verità, io tenevo ben ferma la barca, Moreno ben saldo il lume, la Lolina ben impugnato il bastone che, al muto telepatico "vai!", alzò per dare il colpo di grazia alla preda che continuava a dormire non sapendo di essere in procinto di passare dal sonno alla padella.
Ma, ..c'è sempre un ma!
Il bacchiatore aveva impugnata la pertica a metà e così, mentre la parte dalle mani alla cima calava, l'altra parte, dalla presa al fondo, si alzava infilandosi nella tasca dell'impermeabile che la Lolina portava sempre, anche se non pioveva, con una bella cintolina dello stesso materiale del "trence", annodata stretta in vita.
Il ragazzo partì con un salto verso la riva entrando in acqua di testa, uscendone poi annaspando e cercando di agguantarsi alla barca. L'operazione salvataggio non riuscì molto bene, almeno all'inizio, perché io avevo perso il remetto dal ridere e Moreno teneva rivolto il foone verso il naufrago, proprio diritto negli occhi, impedendogli di vedere alcunché e facendogli sperimentare la "foonatura".
Dopo aver prillato un po' per il Serchio ridendo da matti, riuscimmo a prendere a bordo Antonio che non ci picchiò perché la bacchia l'aveva portata via la corrente, ma ce le promise alla prima occasione.
In baracca avevo vestiti di ricambio e così, asciugatisi e cambiatisi alla meglio, chiudemmo la nottata friggendoci un paio di chili d'anguille che erano nel vivaio del Magli e che mangiammo tutte senza pane.