Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Malaventre
C’era un grande sole e un vento primaverile, fresco e profumato, quando me ne sono andata. Avevo mangiato una frittatina, fatta con le uova delle poche galline rimaste, già belle e impacchettate per il trasloco. Non ricordo di essere stata triste, piuttosto ansiosa del cambiamento ed anche orgogliosa. Tredici anni, erano speciali e speranzosi. Possedevo solo una sensazione vaga e passeggera di cosa fosse il rimpianto. Quello per un gioco meraviglioso che il giorno dopo non funzionava più, aveva perso la magia della condivisione, dell‘interesse. Un‘amicizia infantile che non si riconosceva più nel presente, scomparsa la complicità del raccontarsi, del vivere la stessa emozione restava solo lo spazio per un leggero imbarazzo. La mia vita non contemplava il passato, era tutta rivolta al presente e ovviamente anche l‘idea del futuro non mi interessava più di tanto. Malaventre non era ancora struggimento, dipendenza. Non era ancora nei miei sogni. Avevo molto altro per cui soffrire, dovevo garantirmi la sopravvivenza di fronte al dolore, riparare le ferite. Perché una cosa sapevo. Volevo vivere, andare avanti, possedere anche io uno splendore. Non è stato però necessario spostarsi o andare lontano per avere nostalgie sconfinate. Sono bastati mille passi e qualche anno di vita. La mia dipendenza dalla casa di Malaventre è dovuta certamente dal mio primo respiro, accolto dalle sue mura e amplificato da un amore assoluto, quello per cui la mia vita ha sempre avuto un valore. E’ stato il riparo e l‘accoglienza necessari al cammino, la rassicurazione inconscia per cui non ho mai pensato che potessi interromperlo. Nonno, il reale incanto della mia vita, era arrivato a Malaventre nel ’33 insieme a tutta la sua famiglia, moglie, figli, madre e fratelli più piccoli. Perché lui era così, responsabile di tutti, nessuno escluso, neppure gli amici. Due, come i miei. Non credo di aver mai più conosciuto nessuno che come nonno possedesse imperioso e forte il senso di famiglia. Non come possesso ma come preoccupazione amorosa, struggimento, condivisione. Io sono responsabile di voi, di legarvi l‘uno all‘altro, anche solo con un pensiero. Noi, pensava che fossimo un noi. C’è la sua impronta nella mia vita. Lo stesso sguardo posato sul mondo, la stessa rabbia incandescente dinanzi al sopruso, lo stesso senso di appartenenza. A Malaventre, alla luce del suo amore, io sono nata unica e irripetibile. E lo sono stata per tredici anni. Gli anni vissuti con lui anche se all‘ultimo, per estrema beffa, non mi riconosceva più. Andarmene all‘inizio è stato facile ma il giorno dopo ho preso la bicicletta e sono tornata a Malaventre, di nascosto da tutti. C‘era già un vetro rotto. L‘incuria dell‘abbandono, anche se recente. Una stretta al cuore. La prima. Nel tempo c‘è stato il rancore per il padrone della casa che ci aveva cacciato. Lo stesso di nonno che quella casa avrebbe voluto comprarla, non al prezzo che ci chiedeva. Non era giusto per la famiglia. Non per noi. Io ci sono nata e lui c‘è morto. Noi siamo ancora lì. Dove c‘è il nostro amore. Ci ritorno ogni volta che il cielo si oscura, quando il mondo mi opprime. Gli anni mi hanno portato refoli volteggianti: il profumo di un fiore, quello delle foglie dell‘eucalipto che si trovava nel cortile di Malaventre, lo sbattere degli scuri nei giorni di vento, una coperta damascata diventata uno straccio da lavoro. L‘odore aspro del vino spillato da nonno in cantina. Il nespolo del giardino. La morte di Lamprino, lo spinone che ha fatto la guardia alla mia infanzia. I libri che mamma mi comprava all’UPIM che erano il regalo più bello che ricevessi. La mia prima bicicletta Atala con cui attraversavo a corsa l‘orto fino ai campi di Batone. Il sapore del coniglio arrosto che dopo Malaventre non ho più mangiato. Tutto si mescolava alla vita di ogni giorno e durava il tempo di un girarsi. Lasciava un piccolo alito di nostalgia sopito dall‘idea di un domani dietro l‘angolo. Il tempo si è stratificato e senza preavviso l‘insopprimibile desiderio di tornare a casa. Ci sono tornata ogni notte, nei miei sogni. Così come ero, così come sono. Riassorbendo ogni goccia di amore perduto, salendo e scendendo le scale del rimpianto per una felicità che era perfetta. Noi ci bastavamo. La casa di Malaventre non è più la stessa, l‘hanno sfregiata appiccicandole addosso una falsa modernità. Non importa, io la conosco a memoria. Angolo per angolo. So muovermi benissimo al suo interno e non inciampo mai nell‘ultimo gradino rotto da sempre. Quando nonno mi chiama per raccontarmi di Renatino che va in maremma so perfettamente dove si trova la mia seggiolina, quella che mi serve per sedermi accanto a lui. La mia dipendenza dal suo amore è nella casa di Malaventre. Per sempre. Perché io so di non aver nessuno a cui consegnare l‘abbraccio che nonno mi ha riservato. Lui finisce con me. Anche se ho la segreta speranza che un giorno Titti occhi di cielo si volti e lo veda.
Quello che non si capisce di certe vite è che la loro luce risplenda per poco. Troppo poco. Tredici anni.