Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Polenta o cara
Non potevano mancare nel variopinto mondo degli ambulanti del cibo quelli che per strada vendevano al popolo la polenta, bell’e cotta e in fette.
La polenta si era ricavata da tempi immemorabili dalle farine di cereali, di miglio, d’orzo, di panico, di fave, di castagne sulla scia della puls latina. Fu pero a partire dalla meta del XVII secolo che le prime piantagioni di mais (si ha notizia di una risalente al 1554, situata dalle parti di Badia Polesine) consentirono di ottenere quella di color giallo. Il granturco (lo chiamavano in tal modo perché allora tutto quello che giungeva da oltremare si pensava provenisse dall’Oriente) giunse in Europa trent’anni dopo che Cristoforo Colombo aveva scritto nel suo diario di bordo di aver visto nelle terre lontane estesi “campi coltivati... a una specie di grano, chiamato maihz...”
La polenta, gialla che fosse o bianca, quale era quella veneta e primariamente friulana (ne esisteva una anche “bigia”, di grano saraceno, detto anche “nero”, la stessa che dimenava con il suo mattarello il manzoniano Tonio mei Promessi Sposi) costituiva ormai “per tutto l’anno il solo nutrimento” per la popolazione di molta Lombardia, Veneto e buona parte della Padania in genere, come aveva notato Stendhal. Difatti la polenta di granturco — il “formentone zalo”, chiamato anche carlon in onore dell’arcivescovo Carlo Borromeo che fu uno dei suoi patrocinatori (ma la voce carlon significa anche “fusto”, ”fustone”...), divenne per tanti la pressoché unica e “trionfante” vivanda sociale del mangiar povero. Salda, fumante, rotonda, del color dell’oro risultava all’occhio e al corpo saziante, appagante, da potersi mangiare appena spaiolata persino “vedova", cioè da sola, ma anche abbrustolita o fritta e meglio naturalmente accompagnata, “condita”, “unta”, “comodata”, calda o riscaldata e finanche fredda.
Un cibo divenuto cosi insostituibile trovava un suo ampio spazio sui banchini degli ambulanti e una vasta clientela fra quanti si trovavano a passare per le vie dei borghi.
I polentai difatti montavano giornalmente il caldaio, sistemavano le loro fornelle ripiene dell’acqua salata, accendevano il fuoco, portavano l’acqua a bollitura e vi facevano cadere dentro a poco a poco quella polvere d’oro, macinata più o meno grossa (quest’ultima detta“bramata” o bergamasca, come puntualizza Gianni Staccotti) fino a trarne la bruciante e confortante massa, pronta da portare alla bocca.
I polentatt a Milano, a memoria d’uomo e ben prima dell’avvento del mais, s’erano sempre visti stazionare negli angoli più frequentati dalla gente.
Nel 1336, pensate, al tempo di Azzone Visconti, avevano tentato di allontanarli definitivamente da piazza dal Duomo, ma non ci fu nulla da fare per l`opposizione dal popolo. E vi resistettero addirittura fino al 1932.
Tanti gli episodi, gli aneddoti che si potrebbero raccontare. Fra questi uno, risalente al 1833, riguarda un ambulante che stazionava in piazza dei Mercanti accanto al pozzo dei “faccendieri”, il quale ebbe il suo quarto d’ora di celebrità per essersi presa la libertà di alzare il prezzo della polenta di l mezzo soldo; fu costretto a difendersi dalla sollevazione generale e non trovò di meglio che motivare il rincaro per il fatto che la statua di Sant’Ambrogio che si vedeva sulla torre del Palazzo dei Giureconsulti, proprio di fronte al suo banchino, aveva tre dita di una mano alzate dal che egli aveva desunto una sorta di autorizzazione, di incitamento a portare a tre il prezzo di una fetta di polenta che fine ad allora costava due soldi e mezzo.
I polentai avevano il loro grido, ciascuno diverso secondo il luogo di lavoro, l’abitudine, la fantasia, la bizzarria. “L’è gialda, l’è calda, l’è cotta...” urlavano quelli che tenevano banco a Milano, invogliando alla compera, perché a sentir loro la polenta costava na gotta, niente praticamente. Si poteva averne anche una porzione accompagnata, condita coi pessit appena ciappaa, quei pescetti che si infarinavano e si friggevano nell’olio e si salavano per bene.
Numerosi passanti si fermavano ad acquistare, un po’ per fame e i pùi per riscaldarsi, fintanto che la polenta si andava rassodando nel paiolo e a taluni non pareva vero, anche in questo caso, di potersene infilare una fetta nella tasca dei pantaloni per sentire il calore diffondersi per il corpo. Fra i clienti abituali non mancavano di farne provvista “le servette dei sciori che non volevano faticare mescolando l’impasto di farina per quaranta minuti davanti al fuoco”.
La stagione dei polentaio non conosceva soste e andava ben al di qua del periodo invernale. Infatti a Venezia
quando la stagion fresca xe visina
ben calda col botiro, e col formaggio
mi vendo in sto cain la polentina
scandiva la terzina dello Zompini (1785).
Gli si affiancavano in tutta Italia i venditori di polenta fritta che aveva tra l’altro un posto d’onore fra le cibarie offerte dai friggitori all’aperto e presso quelli a bottega. A Bari, ad esempio, operavano ambulanti che smerciavano gli scagliozzi, pezzi di polenta fritta.
Quando a Milano vennero eliminate le bancarelle dalle piazze — ricorda Staccotti — i “polentatt” si stabilirono in botteghe del Carrobbio, al Ponte Vetero, alla Foppa, al Verziere, a San Lorenzo a vendere, oltre alla polenta, fagioli bianchi lessati, i citati pesciolini fritti, merluzzo in tegame, castagne bollite. E Carlo Baulini li esalta nella sua poesia El polentatt.
Ecco quei versi:
A duu pass di colonn dee San Lorenz
gh’e on polentatt anmò di termp indree
che in di giornad de magher e astitnenz
l’jutta a schiva i peccaa col fa danèe.
On polendon quattà con la pattona
gh’è là sul banch in vista di client,
e on’insalata tant gustosa e bona
di fasolitt l’é lì su on piatt arent.
Merluzz in la marmitta don bel biond
e on gran baslott de pess infarinà
e attach al mur de la bottega, in fond,
gh’e poeu el padron davanti alla fornella
intent, in mezz al fumm d’oli brusà
a fa saltà i pessit in la padella.
Da “C’erano una volta i cibi di strada” di Carlo G. Valli
Cierre Grafica (VR) 2014