Con questo articolo termina la seconda serie di interventi di Franco Gabbani, attraverso i quali sono state esaminate e rivitalizzate storie e vicende del nostro territorio lungo tutto il secolo del 1800, spaziando tra fine '700 e inizi del '900 su accadimenti storici e vite di personaggi, che hanno inciso fortemente oppure sono state semplici testimonianze del vivere civile di quei tempi.
Ancora da “C’erano una volta i cibi di strada” di Carlo G. Valli
(scusate il ritardo ma in strada c'era traffico = computer fuori uso!)
Di pesce non si faceva gran uso nei tempi andati nelle cucine delle città e dei borghi non prossimi al mare. Il pesce faticava a giungere nei luoghi di consumo per la lontananza, per il trasporto difficoltoso e lento, per la mancanza di catene frigorifere e distributive, per il prezzo non proprio conveniente. C’era sì l’omino che girava, generalmente il venerdì, con il canestro, le cassette o il carrettino del pesce:
In sti canestri gho del pesse aposta
da poco prezzo per la povertae,
che in pescaria se vende quel che costa…
Ma lo smercio si limitava a quel poco che potevano contenere le ceste. Si surrogava con il pesce in conserva, sotto sale, infarinato e fritto, messo in salamoia in aceto, olio, cipolla, in saor appunto, che fin dal nome rivelava una promessa di sapore, oppure seccato al sole e mantenuto in barili; affumicato e aromatizzato seguendo ancestrali, rudimentali, sagge pratiche di conservazione. Andavano a costituire una piccola riserva alimentare per le famiglie da impiegarsi principalmente nei periodi invernali e capaci comunque di donare intensità e piacevolezza all’umile pesce e al companatico.
Come era lo stoccafisso, seccato al vento del Nord, che trovava da noi gran mercato per la facile, capillare disponibilità, per il suo basso costo, la flessibilità in cucina, divenuto vivanda di rigore quando si doveva mangiare di magro, il che capitava anche più volte la settimana. O la diffusissima ed umilissima aringa, uno dei “companatici della povera gente”, come aveva detto Bertolt Brecht. E oggi caduta nel dimenticatoio, forse per rigetto visto che ”polenta e renga” è stata per lungo tempo compagna di troppo poveri deschi.
Nei posti di mare più che gli ambulanti erano i pescatori a stendere i loro banchetti, le cassette e i cesti con il pescato disponibile ad essere mangiato lì, sulla riva o sulle strade. I polpi appena arricciati, adagiati sul cestino piatto (spase) e le seppiette (allieve) spellate e battute accanto al secchio dell’acqua per il risciacquo, come accadeva ed accade nella terra di Bari. Pesci da mangiarsi crudi. Luigi Sada ce ne dà una esemplare, succinta descrizione e a lui continuiamo a riferirci: oltre ai polpi, una categoria a sé del crudo, si offriva e si offrono alcuni molluschi cefalopodi giovanissimi: i piccoli della seppia, i calamaretti, moscardini... tutti... ridotti a tenerezza. Dei primi sono sufficienti l’asportazione dell’osso, della tasca del nero e lo sbattimento in acqua e ghiaccio perché diventino teneri e candidi.
Per arricciare i polpi c’è una tecnica unica al mondo che si perpetua da secoli, che abbisogna di ben sei fasi.
Nel repertorio del crudo trovavano (e trovano) rilievo e consumo le umili cozze, le vongole crude (vi si sente -il mare dentro) e i ricci di mare (i preferiti sono quelli di scogliera), i quali (ricorriamo ancora una volta alla prosa di Luigi Sada):
“per essere gustati, vanno aperti in silenzio. Il frutto va odorato coi denti, attratto con le labbra, succiato, ingoiato”.
Fra i mattutini compratori (generalmente dal primo mattino a mezzogiorno) si incontra chi li sa aprire da sé e chi li acquista già belli e aperti, tagliati a metà: a pensare che dentro quella scorza irta di aculei pungenti possa esservi un cibo, davvero uno si sente come "Attilio Regolo nella botte”. Le carni, di un colore fra il rosa e l’arancio invece sono apprezzate e si bagnano nient’altro che con il limone.