Un paese che amo, il paese della mia mamma.Anche ora quando vado a RIPAFRATTA sono la figlia della "Cocca".
Un paese con una storia importante che conserva vestigia di grande rilievo.
Un paese rimasto inalterato nel tempo, non ci sono insediamenti nuovi, potrebbe essere il set di film d'epoca perché anche le case, le facciate conservano la patina del tempo.Un paese che è ancora comunità.
II pane secco
Una volta i poveri dovevano comportarsi da poveri...
Dovevano mangiare il pane nero e all’occorrenza anche secco, e il companatico, se c’era, doveva essere per forza una sardina o una aringa, magari con una fetta di polenta.
Dovevano vestire abiti rammendati e portare scarpe alte, di vacchetta, invecchiate dalla sugna. La povertà nei paesi agricoli abbracciava specialmente le persone anziane, gli inabili, i disoccupati e i vagabondi. I contadini, anche se poveri, erano i più fortunati tra i poveri, avendo almeno il necessario pcr sfamarsi.
La povertà, allora, era uno stato di vita e per alcuni un mestiere, per altri un vizio.
Di poveri, di tal genere, al mio paese c’era Laurina, una vecchietta arzilla, svelta, furbacchiona. Vestita con una gonnella nera, lunga e pillaccherosa, precipitava parole e gesti senza misura.
Passava le sue giornate nell’accattonaggio alle case dei contadini.
Partiva, cantando di buon mattino, con una saccoccia legata alla vita e con un bastone per appoggiarsi.
Si fermava alle case dei contadini chiedendo un pezzo di pane in cambio di un rosario da recitare per i defunti.
E quando la saccoccia era colma di pane, se ne ritornava canticchiando verso casa.
Nel ritorno doveva attraversare un ponticello di un torrente e si dice che, giunta nel bel mezzo del ponte, Laurina si fermasse e facesse la cernita del pane raccolto.
Quello nero e secco lo gettava nell’acqua del torrente accompagnandolo con queste rituali parole: <<Accidenti a te e a chi me l’ha dato...>>.
Alla sera, al rientro, Laurina si ritrovava con una ventina di rosari da recitare.
Ma non si perdeva d’animo: povera sì, ma onesta!
Sui tardi, nella penombra della chiesa, si inginocchiava nell’ultima panca e, piamente, in quattro e quattr’otto recitava i rosari promessi.
Una sera che potei seguirla mentre sulla corona bisunta snocciolava svelta svelta, i grani del rosario, mi avvicinai e le chiesi:
"Ma come fate, Laurina, a recitare cosi in breve tempo tanti rosari?".
E lei candidamente:
"Bene, guà... ad ogni grano della corona dico:
-Gesù..., Giuseppe... e Maria, Gesù..., Giuseppe... e Maria... e quando arrivo al grano più grosso... vi dono il cuore e l’anima mia".
"Ma Laurina, osservai, cosi non e dire il rosario!".
E lei di rincalzo, piamente convinta:
"Pecché, pecché o’ un ci sono tutti e tre... no!".
(I tre erano Gesù, Giuseppe e Maria).
E cosi furbizia e candore, ingenuità e opportunità, si mescolavano alla fede e alla miseria.
Tratto da “Toscana contadina” di Evaldo Cacelli. Lucio Pugliese edit. (FI) 2001