Un paese che amo, il paese della mia mamma.Anche ora quando vado a RIPAFRATTA sono la figlia della "Cocca".
Un paese con una storia importante che conserva vestigia di grande rilievo.
Un paese rimasto inalterato nel tempo, non ci sono insediamenti nuovi, potrebbe essere il set di film d'epoca perché anche le case, le facciate conservano la patina del tempo.Un paese che è ancora comunità.
Per regolamentare la navigazione sull’Arno nel 1574 il Granduca di Toscana aveva deciso di costruire proprio a Castelfranco una diga o sbarramento nel fiume e un sistema di chiuse, al fine di controllare meglio il movimento dei navicelli e delle merci e di riscuotere la relativa tassa. Si trattava dell’unico sbarramento esistente nel tratto tra Firenze e Pisa, una specie di casello autostradale “ante litteram” in cui si doveva versare il “pedaggio” alle casse granducali. Sulla riva destra dell’Arno furono anche costruiti un mulino e un’osteria, dove i barcaioli si ristoravano durante il viaggio, oltre all’abitazione del doganiere incaricato della riscossione.
Il Callone, come poi venne chiamato per la sua imponenza, risultò da allora in poi un punto di riferimento non solo per la navigazione, ma anche per i pescatori che vi confluivano per l’abbondanza del pesce. Reine, lasche, barbi, lucci e soprattutto cheppie, che risalivano la corrente per andare a deporre le uova, trovavano questo sbarramento e si facevano facilmente intrappolare dalle reti tese dai pescatori.
Durante la primavera si aspettava il passaggio delle cheppie e, mentre alcuni uomini si immergevano nell’acqua agitandola e sbattendola, altri sulle barche gettavano le loro bilance nelle quali i pesci rimanevano inesorabilmente prigionieri. Si usavano anche altri tipi di rete come i mulinelli o i giacchi, una rete grande e rotonda che, lanciata con maestria, calava sui pesci avvolgendoli e imprigionandoli. Erano così tanti i pesci che anche i ragazzi più svelti e abili nel nuoto sott’acqua li catturavano con le sole mani. Nel 1907 ci fu una grossa piena e la grande diga in mattoni rossi si ruppe in due formando un’apertura per la corrente del fiume. Lo “strappo” che aveva nel mezzo un grande masso che affiorava dall’acqua, come si può bene comprendere, diventò subito una postazione molto ambita per i pescatori di Castelfranco. Tommaso Di Brigida fu il più svelto ad appropriarsene e da li pescava facilmente le sue prede. Qualche giorno prima andava ad “appastare” i pesci con la polenta o il granturco e poi li aspettava in quella specie di “corridoio della morte” dal quale inesorabilmente dovevano passare. Ogni bravo pescatore aveva i suoi appostamenti, i suoi punti strategici, che si sceglieva all’inizio dell’anno e che non potevano essere presi dagli altri. In certi giorni, soprattutto quelli festivi, era quasi impossibile trovare un angolino libero sulla pescaia, tanta era la concentrazione dei pescatori in quel luogo.
Alcuni pescatori di professione passavano la giornata interamente sulla barca, almeno nella bella stagione; qualcuno addirittura vi dormiva coricandosi su stuoie di granturco sistemate sul fondo e coprendosi alla meglio con un vecchio e logoro incerato. Poi all’alba si ripartiva per una dura giornata di lavoro in direzione bocca d’Arno, per la pesca dei muggini. Non era certo una vita facile, ma la pesca rendeva abbastanza bene e con il ricavato della vendita del pesce si manteneva dignitosamente tutta la famiglia.
L’alluvione del 1966 ha definitivamente cancellato quel che restava della pescaia, da allora infatti è scomparsa ogni traccia della costruzione sull’acqua e dell’antico complesso restano che pochi ruderi.