Un paese che amo, il paese della mia mamma.Anche ora quando vado a RIPAFRATTA sono la figlia della "Cocca".
Un paese con una storia importante che conserva vestigia di grande rilievo.
Un paese rimasto inalterato nel tempo, non ci sono insediamenti nuovi, potrebbe essere il set di film d'epoca perché anche le case, le facciate conservano la patina del tempo.Un paese che è ancora comunità.
Tratto da “Scuriosando per Pisa” di Giampaolo Testi, nov. 1996 Nistri-Lischi ed.
Giampaolo sapeva cogliere al volo anche quella pisanità basata sul brontolio, sul piangersi addosso, su quell'indolenza all'insegna del motto "è un momentaccio", ma anche legata ad un'intelligenza molto diffusa e capace di un'autoironia unica. La sua era un'occasione per viaggiare, con rigore documentaristico, nella tradizione storica della città e per "riavviare _ come diceva lui _ la memoria culturale dei miei concittadini". Giampaolo aveva una cultura profonda, un'erudizione sterminata condita di istrionismi e capacità affabulatorie temperate però dal rigore stilistico. Il suo raccontare la città era insomma pieno di curiosità, a tratti da goliardo spensierato e a tratti da castigatore bonario dei suoi concittadini: amava la sua città più di ogni altro, con i suoi difetti, e forse proprio per i suoi difetti. Ci mancherà molto.
Così scriveva sul Tirreno il 24 agosto 2014 MARCO BARABOTTI in occasione dell’elogio funebre del grande “pisantropo” affetto da "pisanite recidivante", deceduto un mese prima all’età di 85 anni.
Io lo avevo conosciuto nel 1990 allo sportello della biglietteria della stazione di Pisa, dove lavoravo, la mattina dopo che era stato in televisione su “Piacere RAI1” facendo un quiz in vernacolo pisano (nessuno seppe rispondere con grande suo e mio stupore).
Questa era la domanda:
Cosa vuol dire “la bodda perun iede un ebbe oda”?
(gli ascoltatori sentirono, non lessero, queste parole)
Non mi ricordo la destinazione del signor Testi, ma ricordo le risate che facemmo prendendo “pererculo” quei grebani di spettatori con battute da pisanacci.
Questo un assaggino, non dei migliori, ma abbastanza esplicativo dell’umore pisano.
Quando le corna diventano un optional
"Cos’è il genio?
È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocita d’esecuzione".
Cosi nel film "Amici miei" il Perozzi illustra il pensiero del Necchi al momento in cui lo stesso programma di sostituirsi al marmocchio sul vasino. Questa definizione ci è venuta in mente quando abbiamo visto la "traduzione" operata dal veloce "pennarellatore" sulla "P" dell’autovettura. "P" come "Praticante", come "Principiante", come "Patentato da poco"; no, "P" come "Peoro".
Solamente da noi può accadere. Ci sono tutti i presupposti del genio di cui diceva il Perozzi.
Solamente da noi si può chiamare "peoro" un amico, per scherzo, senza che l’altro si offenda; perché sappiamo che non esistono mariti senza coma ma solo mariti ignari.
Solamente da noi si può citare il proverbio — nostro — che sentenzia: le corna son come i denti: quando spuntano fanno male, ma poi aiutano a mangiare.
Solamente da noi, al bambino che si vantava del mestiere del padre becchino, il compagno poté replicare: il mio è di più, è becco. Solamente da noi si può ascoltare questo dialogo fra un "signore" in strada e una "signora" alla finestra.
— Sposa, c’è "Dignene"?
— Chi "Dignene”, son du’ fratelli e si ’hiamano "Dignene" tutti e due.
— Quello mezzo ceo.
— Son tutti e due mezzi cei.
— Quello biondo.
— Son biondi tutti e due.
— Quello ’he fa ’r cenciaio.
— Lo fanno tutti e due.
— Quello peoro.
— Ah, allora è ’r mi’ marito. Dignene, ti vogliano!