Un paese che amo, il paese della mia mamma.Anche ora quando vado a RIPAFRATTA sono la figlia della "Cocca".
Un paese con una storia importante che conserva vestigia di grande rilievo.
Un paese rimasto inalterato nel tempo, non ci sono insediamenti nuovi, potrebbe essere il set di film d'epoca perché anche le case, le facciate conservano la patina del tempo.Un paese che è ancora comunità.
Per me non è così facile parlare di Luis Lucho Sepúlveda, scrittore, viaggiatore, ambientalista, ribelle, portato via da questa nuova peste giovedì 16 aprile a Oviedo, in Spagna. Anche se in questi giorni ho letto decine di articoli su di lui e ho sfogliato i suoi libri che avevo in casa, non mi è facile aggiungere qualcosa di nuovo. Alla notizia della sua morte ho provato un dolore come quando si perde una persona cara, un amico, un compagno che non si era mai tirato indietro nelle battaglie, pur non avendolo conosciuto.
Il mio primo pensiero è andato a quando, nella primavera del 2005, con alcuni colleghi di diverse scuole di Lucca, decidemmo di affrontare la lettura de Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, il suo romanzo pubblicato nel 1989 e che aveva ricevuto il Premio Tigre Juan. L’autore scrisse: questo premio “è anche tuo, caro amico di poche parole e molti fatti” Chico Mendes, ucciso l’anno prima da “una banda di assassini armati” per la sua lotta in difesa dell’Amazzonia.
Oggi questo suo primo romanzo lo possiamo leggere anche come un poetico omaggio ai “vecchi” colpiti da “questa malattia”, svantaggiati nel reagire alle cure specialmente se hanno altre patologie, “una bruttissima bestia non solo per la facilità del contagio, ma per l’aggressività, la rapidità, e la lunghezza del decorso”, e in condizioni estreme costringe medici e sanitari a “una scelta etica quotidiana” (Paolo Malacarne, primario “molto speciale” di anestesia e rianimazione dell’ospedale di Pisa; dico “molto speciale” perché vari anni fa ho sperimentato di persona durante le visite che facevo a mia madre, che riaprì gli occhi dopo quasi un mese di ricovero in rianimazione, come nel reparto ci sia una professionalità e una sensibilità speciali non solo per il malato, ma per tutte le persone che si prendono cura di lui).
Sepúlveda era già molto amato allora, La gabbianella e il gatto, “vola solo chi osa farlo”, uscito nel 1996, gli aveva procurato un grande successo. Ma la cosa strana è che mi sono reso conto che amavo Sepúlveda ancora prima di averlo letto, per la sua lotta tenace contro le ingiustizie e le diseguaglianze.
La prima cosa che ho fatto giovedì pomeriggio è leggere Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa (2018), una favola per bambini e adulti. L’ho letta in giardino, tutta d’un fiato, rinfrescato da un vento leggero, la colonna sonora erano bambine che giocavano e adulti che chiacchieravano. Sarebbe stato bello leggerla ad alta voce, in cerchio, un pezzo per uno e lasciare “che la magia della parola venga portata via dal vento", (Sepúlveda, Quelle parole portate dal vento della Patagonia). Venga portata dal vento oltre il giardino, ma l’idea mi è venuta alla fine ed era tardi.
Venerdì tutti i giornali avevano servizi su Luis Sepúlveda e articoli nelle pagine interne. Leggendo mi sono fatto l’idea che si raccontava lo scrittore, l’intellettuale, l’esule, ma il vero racconto era lui, “Lucho”, la sua storia, incredibile e coerente. Il nonno anarchico che da bambino gli leggeva il Don Chisciotte. Il suo diventare comunista appena quindicenne senza sapere bene perché. La scoperta della politica vera con Salvador Allende, di cui divenne la guardia del corpo. "Non eravamo delle guardie del corpo, ma molto di più. Quando il Partito socialista cileno incaricò un gruppo di militanti della Gioventù socialista (io ne facevo parte) di occuparsi della sua sicurezza, Allende fu subito chiaro: noi avremmo dovuto essere soprattutto dei consiglieri. Certo, seguimmo una preparazione specifica ma prima di tutto lui con noi parlava, parlava, parlava: considerava le opinioni di un gruppo di giovani tra i 18 e i 25 anni, quasi tutti studenti, vitale, stimolante per risolvere i problemi del Paese" (Sepúlveda in un’intervista a Repubblica del 27/02/2017). L’incontro con Carmen Yáñez, poetessa e moglie sposata due volte, “más bella historia d’amor”, la più bella storia d’amore: “uniti in matrimonio nel 1971 e dispersi nel mondo dalla dittatura, si sarebbero ritrovati molti anni dopo ancora innamorati” (Simonetta Fiori, la Repubblica). Il carcere, la tortura, la dittatura e l’esilio dal Cile di Pinochet. L’incontro con gli indios Shuar. La rivoluzione in Nicaragua. Il mondo alla fine del mondo, la Patagonia. Greenpeace. E poi l’Europa, dove conquista “la fama da romanziere globale”.
Era nato a Ovalle in Cile, nel 1949, nell’86 gli fu tolta la cittadinanza originaria, apolide per circa trent’anni, solo tre anni fa gli è stata ridata. Dal 1997 aveva scelto di vivere a Gjion, nelle piovose e ventose Asturie, nella Spagna del nord. “Nel mio sogno esco di casa una mattina di pioggia, perché mi piacciono le giornate di pioggia” (Il potere dei sogni, 2006).
Un altro pensiero che mi è venuto in mente è l’affetto che Luis Sepúlveda aveva per l’Italia. La sua collaborazione con Guanda dura ininterrotta da oltre venticinque anni, così come l’amicizia con Ilide Carmignani, non solo la sua traduttrice dallo spagnolo, è nella sua casa sulle colline lucchesi che Luis diventò toscano. Nel 2013 gli fu assegnato il Pegaso d’Oro, il più alto riconoscimento della Regione Toscana. Diventò l’amico “Lucho”, che il 9 giugno 1998 partecipò a sorpresa alla recita di fine anno della Gabbianella e il gatto messa in scena dalla scuola elementare del Pollino al teatro comunale di Pietrasanta grazie alla maestra Mara Fornari. La notizia di quella magica serata fece il giro delle scuole della zona e arrivò anche allo “Stagio Stagi” di Pietrasanta, dove stavo concludendo il mio ultimo dei 14 anni che ho insegnato in Versilia prima di trasferirmi a Lucca. “L’amore di Sepúlveda per Pietrasanta è appena sbocciato. È un sentimento obbligato. A modo suo. Niente obblighi, solo libere scelte”. Prima la cittadinanza poetica, poi la cittadinanza onoraria di Pietrasanta. Ce lo racconta bene Ilaria Bonuccelli nel suo pezzo pubblicato sul Tirreno venerdì scorso.
Non ho mai conosciuto Luis Lucho Sepúlveda, ma ricordo con piacere quella sera che era davanti a me, sul palco, vedevo bene quei capelli neri, inestirpabili, quel “suo naso mapuche era, già in vita, il simbolo delle minoranze in lotta, che non si stancano di esserlo: né minoranze, né in battaglia” (Conchita De Gregorio, la Repubblica, 17/04/2020).
Quella sera di settembre andammo alla presentazione del suo romanzo L'ombra di quel che eravamo a Villa Mazzarosa di Segromigno in Monte, organizzato da Leana Quilici, assessora alla cultura del Comune di Capannori. Ero con Susanna, Andrea e Luca, facevo politica attiva e quella sera fu uno dei momenti di vera felicità. Luca si era dimesso da assessore al sociale (“non per colpa di un libro”, gli orfani di Salò, eccetera, qualcuno forse ricorderà), io ero consigliere indipendente nel gruppo di Rifondazione comunista passato dalla maggioranza all’opposizione al Comune di San Giuliano, i nostri rapporti politici con gli amici e compagni di Capannori erano sempre stati frequenti e intensi, da loro ci sentivamo a casa. Le favorevoli convergenze degli astri avevano messo sul palco Lucho e i Modena City Ramblers. C’era un po’ di vento, nell’attesa mi prese freddo, ricordo che andai al banchetto dell’associazione “A sud” e comprai una maglietta amaranto con una scritta gialla “Io non respingo”, me la infilai e feci una battuta scema: speriamo che non mi veda un mio studente e capisca male. Poi cominciò l’intreccio di musica e ricordi della sua vita in Europa, dopo il Cile. La musica e le parole venivano portate via dal vento, oltre i confini della villa “con l’idea che il vento le porterà oltre il confine della Patagonia, oltre l’oceano Atlantico, per arrivare in un’altra parte del mondo” (Sepúlveda, Quelle parole portate dal vento della Patagonia). C’erano due o tremila persone, in maggioranza giovani. Fu bellissimo, alla fine eravamo tutti allegri e combattivi.
Vorrei dire, alla fine di questo mio un po’ lungo omaggio a Lucho, che sono stato colpito dall’ultimo saluto che ha fatto a sua moglie. La brava giornalista di Repubblica Stefania Parmeggiani le ha telefonato e Carmen Yáñez ha ripercorso gli ultimi 51 giorni di vita insieme e ha ricordato le ultime parole che le ha detto.
«Luis ha iniziato a sentirsi male il 25 febbraio, quarantotto ore dopo aver partecipato a un festival letterario nel nord del Portogallo. Dopo che gli era stata diagnosticata una polmonite nel centro medico a cui ci eravamo rivolti ed è risultato positivo al Covid 19, un’ambulanza ci ha portato nell’ospedale di Oviedo. È andato a letto sulle sue gambe, all’inizio non sembrava così grave. Lo sentivo al telefono, era felice perché i miei sintomi erano più lievi e perché io ero risultata negativa al tampone, ma poco dopo si è aggravato». Sedato farmacologicamente, in rianimazione, ha lottato per settimane. «Sembrava avere vinto, l’ultimo tampone era negativo ma sono subentrate delle complicazioni: altri virus, quelli che si contraggono con facilità negli ambienti ospedalieri, lo stato ormai compromesso «dei polmoni, la dialisi, la febbre alta...». Martedì Yànez è tornata in ospedale, i medici l’hanno autorizzata a salutarlo per l’ultima volta insieme al figlio e alla nipote. «Era evidente che fosse vicino alla fine». Ricorda le ultime parole che suo marito, ancora cosciente, le ha rivolto: «Buonanotte amore mio».
Chissà quali saranno stati i momenti della sua vita che sono passati nella mente di Lucho durante il coma. “Perché noi pensiamo che non capiscano, ma spesso i malati in coma possono avvertire sensazioni a noi sconosciute” (Paolo Malacarne).
Non importa aver letto i suoi libri, né essere stato suo amico come lo fu Gianni Minà che ha scritto sul manifesto: oltre l’amico “non posso fare a mano di piangere l’intellettuale che aveva partecipato alle lotte per il riscatto dell’America Latina con il coraggio e la forza che hanno solo i visionari, i romantici, i pazzi”.
Sepulveda continuerà a parlarci, è entrato nei nostri cuori e nelle nostre menti e difficilmente lo dimenticheremo. Si saprà in giro che, nel secolo scorso e nei primi due decenni di questo, è vissuto un guerrigliero sconosciuto, amico di un Presidente che voleva far star meglio il suo popolo e fu ucciso, e quel guerrigliero andò in esilio e divenne uno scrittore famoso, ma non volle mai entrare nella parte di “personaggio importante”. Al prossimo concerto andrò a un banchetto di un’associazione e mi comprerò una maglietta amaranto con la scritta gialla “Vola solo chi osa farlo”.