In questo nuovo articolo di Franco Gabbani si cambia completamento lo scenario.
Non avvenimenti storico- sociali, nè vicende di personaggi che hanno segnato il loro tempo.Il protagonista è questa volta è il fiume Serchio, l'attore sempre presente nella storia del territorio, con grandi vantaggi e tremendi disastri.
Ma non manca il tocco di Franco nell'andare ad esaminare grandi lotte politiche e piccoli episodi di vita comune legati al compagno di viaggio nella storia del nostro ambiente.
Aldo Santini, livornese purosangue (1922-2011), è considerato il giornalista livornese che più ha dedicato sé stesso all’illustrazione di tradizioni, vicende, personaggi, curiosità della sua città. Un giornalista di alte qualità, uno scrittore di razza, un uomo di vasti orizzonti che ha illustrato Livorno prima con il suo lavoro e poi con le sue opere. Dopo gli esordi nel 1945 nel “Tirreno”, Aldo Santini è approdato nei primi anni ’60 in uno dei più popolari settimanali dell’epoca, “L’Europeo”. Come inviato ha seguito per decenni tutti gli avvenimenti più importanti a livello nazionale e internazionale. Scrittore facondo e prolifico (ha vinto anche il premio Campiello), ha scritto decine di libri, di storie locali, gastronomia, usi e costumi tra cui: Viaggio in Toscana sulle grandi strade della storia. Dall’Aurelia alla Francigena (da cui è tratto questo capitolo), edito nel 2001 per Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca.
Da Torre del Lago a Migliarino
E si disse: “Costi più del Serchio agli inglesi”
Lo so, i quattro chilometri che percorriamo per andare da Torre del Lago a Migliarino sono pochi, anche per una delle nostre tappe regolarmente brevi. Non direte che il nostro viaggio incide sul consumo della benzina. Potremmo addirittura spostarci a piedi, lungo l’Aurelia. Ci fermiamo a Migliarino perché qui attraversiamo il Serchio, un fiume importante nella storia toscana.
Non solo perché assediando Lucca con le sue acque in piena, nel 1812, dimostrò l’utilità dell’arborato cerchio di mura che fino allora non aveva avuto modo di respingere alcun nemico.
Non solo perché quando Firenze tentò di sopraffare Lucca, e il Brunelleschi progettò di deviare il suo corso per “annegare i lucchesi come topi entro le loro mura”, lui, il Serchio, smentì il celebre architetto della cupola del Duomo invadendo limaccioso il campo gigliato e obbligando le milizie in casacca viola a sloggiare in fretta e furia.
Non solo perché il Serchio nasce da tre fiumi che portano il suo nome, uno in più del Nilo (Nilo Azzurro e Nilo Bianco) e cioè il Serchio di Soraggio, il Serchio di Sillano e il Serchio di Gramolazzo.
Non solo perché ha ispirato la poesia più lunga dell’Alcyone dannunziano, “Bocca di Serchio”, e apre una delle più famose, “ll cervo”, con i versi: “Non odi cupi bramiti interrotti di là dal Serchio?...”.
Non solo perché in epoca romana il Serchio, allagata la piana di Bientina, si gettava nell’Arno, presso Pisa, con il ramo principale e in mare con un ramo secondario.
Ma soprattutto perché, andando da Torre del Lago a Migliarino superiamo il vecchio confine che separava la Toscana litoranea conquistata da Firenze, dopo aver messo in ginocchio Pisa, dalla Toscana rimasta a Lucca fino alla vigilia dell’unita d’Italia.
I protagonisti sul versante lucchese erano guidati dai principi Barboni con la loro tenuta attestata sul Viale dei Tigli. l protagonisti del versante fiorentino erano guidati dai Salviati con la loro tenuta di Migliarino.
E dei Salviati si è scritto molto dagli anni Sessanta in poi, per le polemiche che dominate dai socialisti che hanno preceduto la combattuta istituzione, nel 1992, del grande parco Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli.
In questo viaggio le polemiche con risvolti politici non c’interessano. Occupiamoci invece del Serchio e, in particolare, di uno dei suoi segreti. Ogni fiume ha i suoi. Il segreto del Serchio rivelato dopo la seconda guerra mondiale ci fa ricordare il detto che da noi, per spiegare che una cosa costa cara, suona pressappoco cosi: “Costi più del Serchio ai lucchesi”, riferendoci al loro impegno per arginare le sue piene rapinose. All’indomani della guerra il detto avrebbe potuto trasformarsi: “Costi più del Serchio agli inglesi”. Infatti è stato il Serchio che ha tenuto a balia gli assaltatori subacquei dei più muniti porti inglesi nel Mediterraneo, Alessandria d’Egitto, Gibilterra e Malta, bloccando almeno parzialmente la loro attività bellica.
La storia segreta del Serchio ha inizio nell’autunno 1939. Roma crea un reparto di uomini-rana per contrastare la supremazia navale britannica nel cosiddetto Mare Nostrum (Mussolini ci si riempiva la bocca) e ripetere il successo dei Mas contro la flotta austriaca nella Grande Guerra.
Vengono scelti gli uomini e viene scelto il luogo per addestrarli: la Bocca di Serchio dannunziana. La vicinanza della tenuta reale di San Rossore a sud, quella del Balipedio militare di Viareggio a nord della tenuta di Migliarino dei Salviati, garantisce la copertura del segreto. La famiglia dei Savoia, che soggiorna abitualmente a San Rossore, sa bene cosa stanno preparando quei giovanotti radunati nella casa di un mezzadro dei Salviati. La regina Elena, che talvolta pesca con la lenza, li saluta dalla riva dirimpettaia, agitando il braccio. E il re, una mattina, attraversa il Serchio in barchetta e viene a conoscere di persona gli uomini-rana, facendo gli auguri per le missioni che li attendono. Ha un cappelluccio di tela che lo ripara dal sole. Parla poco, com’e suo costume, ma le sue strette di mano sono energiche.
Anche i Salviati si comportano con estrema correttezza. Danno l’occhei per ospitare la base, trasferiscono il mezzadro in un altro podere, non mettono il naso in quello che succede a Bocca di Serchio e, in un periodo durante il quale gli inglesi conoscono perfino i pettegolezzi dei nostri quartier generali, riescono a impedire che la minima notizia trapeli da Migliarino sulla presenza dei sommozzatori.
I primi giovanotti che, entrati dall’Aurelia, si stabiliscono con strani apparecchi subacquei nella casa lasciata dalla famiglia del mezzadro Coli, nel settembre 1939, sono otto: il capitano del Genio Navale Teseo Tesei, elbano di Marina di Campo, il capitano delle Armi Navali Gustavo Stefanini. livornese e futuro presidente dell’Oto Melara, il capitano medico Bruno Falcomatà di Napoli, il capitano del Genio Navale ElioToschi di Ancona, i tenenti di vascello Gino Birindelli di Pescia e Alberto Franzini di Reggio Emilia, il sottotenente di vascello Luigi Durand de la Penne e il guardiamarina Giulio Centurione, entrambi genovesi.
Vengono tutti dai “mas”, sono campioni di nuoto e sono entusiasti. Poi arrivano altri giovanotti. Ufficiali, sergenti, palombari. Bisegna costruire un nuovo alloggio. ll Serchio ha una foce larga e profonda che pemette alle "bettoline" dell’Arsenale della Spezia di scaricare i mezzi d’assalto, i famosi "maiali" nati da un’idea di Tesei e realizzati in collaborazione con Toschi.
L’idea, a Tesei, era venuta studiando l’impresa di Rossetti e Paolucci che il 1° novembre 1918 avevano affondate nel porto di Pola, con una "mignatta" di 170 chili di tritolo, la corazzata "Viribus Unitis", ammiraglia della flotta austriaca. Non è il caso, qui, di ripercorrere le vicende che fecero del "maiale" un’arma decisiva. Ma è affascinante seguire le esercitazioni degli uomini-rana che presto verranno definiti uomini-siluro. Il Serchio è il loro teatro. ll fondo marino davanti alla foce è regolare. Basta spingersi al largo per due miglia e la profondità tecca i venti metri.
Beppe Pegolotti, il giornalista di Cecina che da inviate speciale cadde prigioniero in Libia, e nel campo egiziano dei Laghi Amari fece vita comune con i sommozzatori catturati dopo l’affondamento del loro
sottomarino "Gondar" al largo di Alessandria (mi limito a citare Stefanini, suo compagno di liceo a Livorno, l’altro livornese Luigi Caccioppo e il comandante Mario Giorgini) ha dedicate uno splendido libro agli uomini-siluro, "Uomini contro navi", e racconta come fu che il siluro fu battezzato "maiale".
L’apparecchio doveva essere legato a un anello della rete di ostruzione, al largo della foce, simile agli sbarramenti che difendevano i porti di Alessandria e di Gibilterra. Al suo aiutante, il palombaro, quando scesero da cavalcioni, Tesei, un giorno, raccomandò appunto di legare il siluro perché la corrente non lo spostasse. Grazie a una lamina vibratile della maschera, sott’acqua si parlava e si sentiva benissimo. Potevano anche fare lunghe conversazioni senza perdere una parola. La frase di Tesei nel dare l’ordine fu: "Lega il maiale". Allo stesso modo avrebbe potuto dire “Lega il cane” oppure “Lega il cavallo”. Fatto sta che il semovente fu da quel momento in poi “il maiale”, nel gergo dei sommozzatori.
E così passò nella lingua parlata.
Del resto il siluro aveva parecchio del maiale. Il nome ebbe fortuna perché evocava bene l’immagine dello strumento di morte. Pegolotti continua: ”l’espressione piacque, divertì i siluri umani. Era anche comoda perché permetteva loro di ragionare di maiali in ogni ambiente, anche a cena quando si recavano a Viareggio. Nessuno poteva capire.
Raccontano che una sera, tornando a cena in un ristorante dove erano già stati, udirono un cameriere rispondere a qualcuno che domandava chi fossero: “M’è parso di capire che siano commercianti di maiali”...».
I sommozzatori andavano spesso a Viareggio, le sere libere dalle esercitazioni. Cenavano di preferenza dal Buonamico, che era la trattoria più rinomata della costa. E talvolta ci incontravano Malaparte, il confinato di lusso al Forte. La domenica, poi, c’era il tempo di passeggiare ben vestiti sul Viale a mare viareggino. Tesei, sempre scherzoso, diceva che “noi finiremo a Viareggio, nell’estate, con la maglia a righe come i bagnini, invitando i turisti a fare un giretto sul maiale, ripetendo con un inchino il rituale signori in carrozza”.
Una volta Birindelli, sul Viale, incontrò un signore fiorentino che aveva il figlio mobilitato come ufficiale di cavalleria. Si conoscevano bene. Birindelli e suo figlio erano cari amici. Il signore mormorò: “Mi sorprende trovarti ancora qui a goderti il mare”. E notato l’imbarazzo del giovane ufficiale di marina, nel tentativo di rimediare aggiunse: “Forse hai già compiuto qualche missione e sei in licenza”. Per non sembrare un imboscato Birindelli lo salutò dicendo:
“Signor Silio - così si chiamava- un giorno sentirà parlare di me”.
Comunque il clima a Bocca di Serchio era scanzonato. Stefanini, per esempio, che era il tecnico delle spolette, aveva per sveglia il meccanismo a orologeria di una spoletta. All’ora stabilita il fulminante esplodeva. Il medesimo fulminante che avrebbe fatto esplodere le cariche sotto le carene delle navi inglesi. E Toschi, spingendosi nella riserva di caccia dei Salviati, pretendeva di uccidere i cinghiali con la pistola d’ordinanza. Sparacchiando come un matto finì per spingere i cinghiali sull’Aurelia.
Un disastro. Tesei, allora, insorse: “Siete dei dilettanti. Un buon tiratore deve centrare la “o” del “Corriere della Sera” al primo colpo, da una distanza di dieci metri". Ah si? Lo misero subito alla prova. E lui, calmo, centrò la <<o>> in pieno.
Poi cominciarono le partenze. Gli "uomini·siluro" della prima ondata andarono in missione. A Bocca di Serchio giunsero altri giovanotti. E anche loro partirono. Molti, come Durand de la Penne, raggiunsero la gloria. Altri come Birindelli finirono prigionieri prima di raggiungere il bersaglio. Altri ancora, come Tesei e Visintini, affrontarono la morte con temerario coraggio.
Qualche anno fa, a Torre del Lago, ho incontrato un superstite di Bocca di Serchio, Emilio Bianchi, il capo palombaro di De la Penne nell’impresa di Alessandria che portò all’affondamento della corazzata "Valiant". Durante le libere uscite Bianchi si era innamorato della figlia del padrone dei bagni Aurora di Torre del Lago, dove andava a ballare e a mangiare. La sposò. E tornato dalla prigionia si stabilì a Torre del Lago (gestendo il bagno del suocero) in una palazzina a poca distanza dall’Aurelia. L’ho incontrato che aveva 85 anni. Ed era fiero della sua medaglia d’oro. Gli chiesi a quanto ammontava la pensione della medaglia.
“Dopo l’ultimo aumento, quattro milioni e mezzo l’anno. Mi contento. l’importante è aver fatto bene quello che andava fatto”.
Eravamo nel 1984. Lo sappiamo, nell’Italia delle ruberie e degli scandali, vengono erogate migliaia di pensioni favolose.
È legittimo domandarsi se anche i loro titolari abbiano fatto bene quello che andava fatto.