Dante, una terzina per volta
di Stefano Benedetti
DANTE E PALLADILARDO
DANTE E PALLADILARDO
“Io fei gibetto a me de le mie case”
(Inf. XIII, 151)
Con questo endecasillabo agghiacciante, lapidario, il Sommo chiude il Canto XIII dell'Inferno, dove albergano, nel secondo girone del settimo cerchio, i suicidi. Un anonimo concittadino di Dante ci dice come fece ad impiccarsi in casa sua.
Cruda e stringata versione di Milevodalmondo, in un Canto senza pietà alcuna.
Se dovessi scegliere altra versione (nel Cinema) di suicidio eclatante, non anonimo, molto violento, rabbrividente, sceglierei da Full Metal Jacket la scena in cui Palladilardo, dopo aver eliminato il suo istruttore (col consenso dello spettatore) e risparmiato il suo amico (idem consenso), si siede, nudo, sul tappo chiuso della latrina, si ficca in gola la canna del suo M16, e si fa schizzare il cervello su tutto il retro mattonellato di bianco, tipo macelleria di Norcia.
Ma Dante non ha bisogno di tanta azione. L'invenzione scenica del luogo dove raccoglie i suicidi è (come al solito) magistrale. Una selva!
“Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco”
Una foresta di alberi, neanche alberi, ma sterpi brutti e nodosi, dove all'interno di questi sono raccolte le anime di chi si è levato dal mondo. Uno stormo copioso di Arpie (mostri mezzo uccello mezzo femmina) si nutrono delle loro foglie e da dove viene reciso l’arbusto, esce un sangue marrone a fiotti insieme ai lamenti lancinanti delle anime stesse.
Beh, cosa volete di più?
Dante fa anche di peggio, perché lui stesso strappa un ramo a un albero (che è l'incarnazione, ops, l'invegetazione) di Pier Della Vigna, col quale poi avrà un dialogo piuttosto serrato a cui vi rimando.
Ma il Sommo, qui è anche un anarchico, nel senso che fa come gli pare, in barba a dottrina e credenza cristiana certificata.
“Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie”
Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta.
Dante aggrava la lor condizione (in maniera del tutto arbitraria, rispetto a tutte le Scritture) dicendo che al momento del Giudizio Universale, quando i corpi si riuniranno alle anime, i suicidi, (e solo loro!) non avranno questo privilegio, ma dovranno accontentarsi di "appendere" i loro corpi, le loro pelli e ossa che li hanno ospitati da vivi, alle fronde dei propri alberi. Chi si priva della vita, chi toglie la vita al proprio corpo, mai, proprio mai, avrà diritto di riappropiarsene.
Ma Dante, fa ancora di più. Fa un'ulteriore eccezione. Non tutti i suicidi li mette nell'inferno. Il più famoso di questi è Catone, che lo mette addirittura guardiano del Purgatorio. A lui, suicida per la libertà, non affida arbusto sanguinante, ma speranza di salvezza. I suicidi che Dante punisce, sono quelli che ritiene egoisti, vili, rinunciatari e basta.
Ma vi pongo una domanda, il Nostro Dante, uno come Palladilardo, vittima di un sistema che lo rifiuta, di un continuo mobbing sociale, di un diuturno affiorare di razzismo, solitudine, incomprensione, di una certa certificata fuga dal "sistema libero", dove lo avrebbe collocato, dentro un albero o alle pendici del Purgatorio?
O dove?