Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Immaginatevi la scena, ragazzi!
Ravenna, estate 1519.
Una giornata solenne, un sabato mattina, un umile muratore sta per far saltare con uno scalpello il coperchio, sta per aprire il sarcofago contenente le spoglie mortali di Dante.
Tutto è pronto, presenzia una delegazione papale formata da una decina tra cardinali e vescovi, presenti tutte le autorità ravennati del tempo e la chiesa è gremita fino all’inverosimile.
Il Papa Leone X, fiorentino di nascita, secondogenito maschio di Lorenzo il Magnifico, ha architettato tutto, finalmente si restituisce la salma del Sommo Esiliato alla sua agognata Firenze.
Pronto in piazza del Popolo, un carro funebre trainato da 8 cavalli neri, tutto drappato di rosso e di alloro, scortato da chissà quante guardie papaline, pronto di tutto punto a percorre a ritroso la strada che percorse Dante quando per sempre, da vivo, lasciò la sua città amata.
E tutto in riva all’Arno era pronto per riaccoglierlo dopo quasi due secoli. Firenze a quel tempo era la New York del mondo, presso di lei giacevano più della metà delle opere d’arte, degli artisti e delle ricchezze esistenti nel mondo occidentale.
Un pittore non era tale se non dipingeva una tela a Firenze, un Principe di Parigi o di Londra non moveva guerra alcuna se un qualche banchiere gigliato non lo avesse finanziato.
Pensate che il Papa aveva dato l’incarico di progettare e costruire una grande cappella funeraria a Firenze non ad uno sconosciuto geometra di Scandicci, ma nientepopodimenoche’ a Michelangelo Buonarroti in persona!
Si trattiene il respiro, è giunto il momento, et voilà, ultimo colpo di mazzolo e la pietra è scoperchiata. Il muratore, ficca la testa dentro il sarcofago, si agita per qualche secondo e come un personaggio felliniano di Amarcord, si volta verso i porporati ed esclama con stupore in dialetto romagnolo: “Ma l’è vota!”.
Un brivido corse per la schiena a quasi tutti gli astanti, in primis i delegati papali che già immaginavano la faccia imbestialita del papa fiorentino ad attenderli con un pugno di mosche in mano, ma qualcuno invece di certo sghignazzò in silenzio e ne fu contento e orgoglioso.
Furono i frati francescani del convento confinante a parete, che, emuli ante litteram dei Soliti Ignoti, come la premiata banda Gassman, Mastroianni, Totò, Murgia, Capannelle, una qualche notte avanti, tra lenzuola stese al vento e con la paura di essere scoperti, avevano praticato un buco nel muro e avevano prelevato dal cortile tutte le ossa, compreso il cranio e il vestito funebre del Sommo Poeta, per impedire che i fiorentini, immeritatamente si impossessassero della Celebre Salma che invece doveva restare a tutti i costi nella città romagnola che fu di Teodorico.
Non era la prima volta, a dire il vero, (ci provavano in media ogni cinquanta anni) che i fiorentini tentavano l’assalto alla Salma, già ci si erano provati un paio di generazioni dopo la morte di Dante, quando in un afflato civico in una riabilitazione post mortem, avevano reso onori al Grande Poeta e ne avevano caldeggiato il ritorno tardivo, da morto, in Piazza della Signoria.
Cerimoniere ufficiale di allora fu, udite, il Boccaccio da Certaldo, che fu incaricato dai fiorentini di tenere Lezioni di Dante in piazza davanti al popolo.
Ne tenne almeno una cinquantina e misteriosamente però si fermò al Canto XVII dell’Inferno e non ne volle però più sapere. Addusse come scusa una serie di certificati medici relativi un po’ al suo mal di schiena ed alla sua mancanza di voce, ma alcuni amici intimi lo sentirono comunque inveire sotto voce contro un popolo “ignorante e fatto di caproni, che non si merita di perderci alcun tempo a parlargli di Poeti e Poesia”!
Ma ritornando a quel sabato mattina, insomma, le ceneri, ovvero le ossa di Dante (non si può parlare di ceneri percheè la salma di Dante non fu cremata, anche se sappiamo che pochissimi anni dopo la sua morte il Cardinale Del Poggetto, tentò di bruciarla davvero al rogo) non furono per un bel po’ di tempo più rinvenute.
I frati avevano mantenuto promessa e segreto.
Per veder riapparire le Ossa Divine, si pazienta più di tre secoli, bisogna attendere infatti l’Anno Domini 1865 (che coincidenza, l’anno in cui Firenze diventa capitale del neonato fanciullo Regno D’Italia, in attesa di cedere il passo a Roma, non prima che papa Pio IX, qualche anno dopo, si levi dalle palle) che durante i lavori di restauro dell’oratorio francescano attiguo (era anche il seicentesimo compleanno del Sommo) (e dopo che Dante apparve in un sogno premonitore esclamando “Sono qui!" ad un tal Grillo, sacrestano francescano ravennate, non troppo credibile visto le sue risapute frequentazioni con fiaschi di vino presso le osterie del luogo), riappaia una piccola cassa di legno con chiaramente inciso in latino nome e cognome del Poeta e l’anno di risepoltura 1677. A questo punto in fretta e furia fu riaperto il sepolcro di pietra ma al suo interno, a riprova della scoperta fatta, si trovò solamente come riporta la cronaca del tempo, “tre falangi e qualche ramoscello di alloro”, falangi che risultarono perfettamente compatibili con il resto della quasi totalità delle ossa rinvenute, compreso il cranio, ma senza mandibola, contenute nella cassetta di legno smurata da poco.
Per inciso si venne poi a sapere che la cassetta, fu rimurata in epoca napoleonica (ah lui si, il Corso, che con le tombe ci sapeva fare, vedi editto di Saint Cloud!) sempre per proteggerla da eventuali razzie, e per inciso ci piace anche immaginare che le tre falangi rinvenute, contornate dalla corona di alloro, fossero del dito medio destro di Dante e per di più che siano state rinvenute in ordine verticale!
Questo perché bisogna dare a Dante quello che è di Dante e cioè a Lui e solo a Lui l’intenzione di NON rientrare in Firenze.
Infatti dopo il suo Esilio (che poi esilio non fu, perché Firenze allora giuridicamente non contemplava esili, ma di fatto un allontanamento di stampo politico, facilmente “scontabile” con una richiesta di perdono e una lauta pena in pecunia, un bando pubblico correlato da una ignominiosa accusa di “baratteria” (oggi diremmo “tangentopoli”) mai dimostrata.
Dante non si piegò a questo e restò fuori Firenze per sempre per SUA SCELTA, anche se in vita, nonostante la roboante condanna a morte per rogo successiva, e la condanna a morte anche dei suoi figli (ah Conte Ugolino docet..!) gli fu concessa varie volte, sempre che lui lo volesse, sempre che in qualche maniera “si piegasse” alla città, la possibilità, diciamo la scappatoia, di rientrare in riva all’Arno.
Fiorenza fu pronta fin da subito a riaccogliere il suo figlio ormai già famoso e ossequiato in tutte le corti d’Italia.
Ma lui non si piegò.
E se lui non volle, ben fecero i frati francescani a mantenerne, sentinelle occulte e fidate, la Sua Scelta.
Ma non finiscono qui le peripezie delle sue spoglie mortali. Cadute parzialmente in mano, negli ultimi anni dell’800, a un artista da poco, tale Pazzi, (quello che fece il monumento a Dante in Piazza S.Croce) questi le seminò in qua e in là per Firenze, rinchiuse in buste di carta gialla tipo plichi postali e addirittura ne fece incastonare una piccola parte in un monile d’oro da un orafo di Ponte Vecchio per regalarlo ad una sua spasimante, oggetto tuttora esistente (ma non ne siamo certi della originalità) presso il museo del Senato della Repubblica.
La seconda guerra mondiale poi ne fece l’atto finale. Per proteggerle, le spoglie mortali furono traslate e nascoste in un tumulo di terra fuori la cripta che le conteneva da metà ottocento e da qui se ne perde le tracce.
Maldestro fu anche il tentativo le gerarca Pavolini nell’Aprile del 1945, nel volerle a tutti i costi portare nella ridotta in Valtellina a simbolo della Italianità di un popolo in rotta.
In definitiva cosa resta di tutto questo, cosa ci resta.
Ci restano due sepolcri vuoti, quello di Ravenna, memore di tante ambasce, e quello di Firenze in Santa Croce, trofeo di Patria orfana e mai occupato dalle Spoglie del Sommo.
E poi cosa resta. Resta questa ansia tutta umana, questa ossessione tramandata di generazioni, di secoli, e sono ormai quasi sette, nel voler per forza tener il contatto corporeo, carnale, con quei resti di un uomo che si chiamava Durante figlio di Alighiero degli Alighieri e di Bella degli Abati, Poeta nato a Firenze e morto a Ravenna a 56 anni.
Un contatto con quello che poi corporeo non è e mai sarà. Un’illusione effimera di tatto, di possesso, di vicinanza e comunanza con qualcosa di ovviamente e maledettamente terreno ma anche di immensamente eterno di un uomo, come noi, che affida tutto alla sua Opera.
Non può riuscirci l’uomo a fissare, a custodire l’Immortalita’, e non può essere sufficiente ne’ un sepolcro, ne una teca piena di ossa e ceneri.
Solo la Poesia, la Poesia di Dante, può aspirare e pretendere così tanto.