In questo nuovo articolo di Franco Gabbani si cambia completamento lo scenario.
Non avvenimenti storico- sociali, nè vicende di personaggi che hanno segnato il loro tempo.Il protagonista è questa volta è il fiume Serchio, l'attore sempre presente nella storia del territorio, con grandi vantaggi e tremendi disastri.
Ma non manca il tocco di Franco nell'andare ad esaminare grandi lotte politiche e piccoli episodi di vita comune legati al compagno di viaggio nella storia del nostro ambiente.
Partire da Metato per andare al mare con le borse del mangiare, le canne da pesca che mio padre si faceva da sé, lunghe grosse e robuste, pannolini e ricambi per mia sorella di pochi mesi, un ombrello d'incerato e uno nero, me che non pedalavo o non avevo ancora l'età per farlo, tredici chilometri da farsi due volte al giorno e una sola bicicletta, era un vero problema.
Avevamo però il privilegio di avere una barca nostra dove mettere tutto l'armamentario, ma mio padre avrebbe dovuto remare per una distanza maggiore perché, via Serchio, per arrivare al mare c'erano quasi cinque chilometri in più. Il viaggio poteva essere fatto tutto al fresco perché la mattina, con il sole a est, si passava sotto riva di San Rossore ed il pomeriggio erano i canneti e gli alberi del Salviati che ci avrebbero fatto ombra.
Non sapevamo allora di lanciare, della necessità di far fresco e riparo alla piccola Anna, una moda che è arrivata ai nostri giorni e che è (o è stata) la caratteristica saliente della spiaggia di Bocca di Serchio.
Qualche canna ritta piantata a quadrato, ciuffi di cannelle ammassate a formare pareti antisole e antivento, altre più lunghe per fare un tetto alla meglio ed ecco nata la capostipite di tutte le baracche di paglia che fanno il vanto della nostra spiaggia.
La domenica seguente, reso più cosciente e capace dai successi e dagli errori di quella precedente, mio padre partiva da casa armato di roncola, filo di ferro, martello e chiodi, segaccio e tenaglie e la testa piena di idee di come fare non una, ma due stanze con veranda, vista sul mare, spogliatoio e attaccapanni, sala da pranzo e camera da letto, tutto in canne e cannelle, tre per tre!
Mio padre, novello Corbusier marittimo, si dedicava anima e corpo alla costruzione della capanna che non era mai uguale né alla precedente né alle altre.
Per tutti gli anni seguenti furono fatte dalle altre famiglie capanne simili alla nostra, ma mai uguali.
Per quaranta anni mio padre, ogni anno, sempre allo stesso posto, ha fatto la sua brava baracca di cannella sulla spiaggia e sono decine e decine le altre costruzioni, ma nessuna è mai stata come la nostra. Il tetto, la disposizione dei pali, la tavola dentro, le legature, qualche cosa di diverso ed originale c'era e c'è sempre stato.
Durante il tragitto di andata se si incontrava un bel paletto bisognava fermarsi a prenderlo, se si incontrava una tavola anche quella sarebbe stata buona per una panca e a volte si arrivava a mezzogiorno sulla spiaggia carichi di legni, come fossimo stati gli spazzini del Serchio.
Quando attraversavamo i ponti era già un bel po' che mio padre remava e qui approfittava della forte corrente per riposarsi un minuto ed io perdevo l'occasione di vedere la bomba.
"Vedi bimbo, qui sott'acqua c'è una bomba più grossa di me e di te messi insieme, sempre da scoppiare, che se lo facesse ora si arriva al mare senza neanche remare."
"Dai babbo fammela vedere!"
"A ritorno, che ora si va troppo forte e conviene arrivare fino dove ci spinge la corrente."
Nel viaggio di ritorno, con quegli arnesi che avevamo in barca, si costruiva una improvvisata culla per la mia sorellina che non voleva mai dormire sui paglioli e non poteva stare in braccio a nessuno dei genitori, occupati entrambi a remare. Mio padre aveva legato due funi ai remi e, per alleggerirgli la fatica, mia madre seduta a prua tirava le due estremità quando il marito spingeva. Con due rami di ornello, duri ed elastici, aveva fatto due archi con un asciugamano al posto delle corde e con altri due rami messi ad arte e qualche legatura, si era venuta a creare una specie di culla con tettoina per il sole e gambe a dondolo per conciliare il sonno alla bambina. La fatica per far muovere la culla era compresa in quella per spingere la barca perché altre due cordicelle facevano muovere il lettino con la spinta dei remi.
Arrivati di nuovo in vista dei ponti cominciavo a prepararmi per cercare di vedere in tempo la bomba ma, pareva impossibile, era sempre un po' spostata a destra o a sinistra di dove passavamo e la corrente, che la sera si faceva forte sotto i ponti, non permetteva certo a mio padre di fermarsi per darmi quella soddisfazione e così passava, anche quella volta, l'opportunità di vedere un simbolo di quell'appena passato conflitto ultimo mondiale.
A volte sulla spiaggia si ritrovava un altro segno di guerra che per me non aveva alcun particolare significato di vittoria o di sconfitta, ma era solo paurosamente nuovo e stupefacentemente esilarante nella sua spettacolare novità.
L'uomo nero esisteva davvero, non c'erano dubbi, era proprio nero nero e non era solo.
Saltellavano stagliandosi nettamente sul candore della sabbia, gridando parole incomprensibili, correndo come bimbetti nell'acqua, schizzandosi e giocando come "cristiani".
Vedendoli per la prima volta provai tanta paura e credetti a mia madre che li paragonava ad orchi, ma poi, guardando quegli uomini scuri giocare come bambini, ridere e mangiare scatolette, cioccolata, panini con l'insalata e bere bottigliette di birra in continuazione, proprio come noi, non pensai più che sarei stato di loro gradimento e, piano piano, cominciai a ridere dei loro giochi. Mia madre mi chiamava quando mi allontanavo troppo verso i soldati americani, ma non si azzardava mai a venirmi a prendere nelle loro vicinanze perché mio padre le aveva raccontato delle prodezze dei neri nella base di Tombolo.
Appena passata la guerra fu girato perfino uno scabrosissimo film: "Tombolo, paradiso nero", su quell'invasione di pace. Quei neri venivano da Torre del lago a lasciare fortunatamente solo barattoli vuoti sulla nostra spiaggia. Ora circolano in quel paese ragazzi e ragazze dai lineamenti e dal colorito che ricordano molto quella fame e quella triste storia che fu patita e passata con il fronte.
Una volta lasciarono, insieme ai fogli dei panini e alle lattine vuote, un barattolo chiuso che mio padre si fidò ad aprire perché tanto non lo avevano toccato dentro. Conteneva il più buon formaggio che avessi mai assaggiato, giallo, duro, profumato, da consumarsi anche dopo tanto, ma poco!
Non abbiamo mai parlato con quei soldati, mai arrivati neanche a portata di voce, ma la loro presenza serviva per stimolare padre, madre e figlio.
"Bimbo mangia la minestra o ti faccio portar via dall'uomo nero."
"Non gli dar retta Umberto, fanno un po' paura, ma sono uomini come noi, sono solo stati di più al sole."
"Maria vieni qua, non guardare i neri che sono nudi come beci."
"Come fai a dire che sono nudi che, neri come sono, non si vede nulla!"
"Stai tranquilla, sono nudi perché quando correvano, mi sembra di aver visto una terza gamba"
E i miei sghignazzavano di gusto a questa sconcezza e io, vedendo mia madre ridere e ricordando che mi aveva sempre detto che dovevo stare attento a quando gli veniva il riso alla bocca perché era segno di nervoso che poteva sfogare in un battuto nei miei confronti, mi allontanavo domandandomi cosa avessi mai fatto di male se non mi ero mai mosso da lì!