In questo nuovo articolo di Franco Gabbani si cambia completamento lo scenario.
Non avvenimenti storico- sociali, nè vicende di personaggi che hanno segnato il loro tempo.Il protagonista è questa volta è il fiume Serchio, l'attore sempre presente nella storia del territorio, con grandi vantaggi e tremendi disastri.
Ma non manca il tocco di Franco nell'andare ad esaminare grandi lotte politiche e piccoli episodi di vita comune legati al compagno di viaggio nella storia del nostro ambiente.
I Dinacci abitavano nella tenuta Salviati e da generazioni erano contadini fedeli ed operosi. Consegnavano al padrone il sacco dispari di grano raccolto in più ed avanzato da una divisione che non era mai pari, consegnavano pure la lepre o la fagiana ferita nella tagliatura dei fieni, i primi morecci trovati la domenica o nelle prime giornate di pioggia autunnale, quando non si poteva lavorare, e l'immancabile cappone natalizio.
In compenso usavano una grande casa colonica ai Poggi, vicino al Serchio e ad un bosco misto, isolato dalla pineta madre da campi lavorati, bosco dove Giancarlo, il figlio più giovane, cercava nidi di merli e colombacci e dove giocava a rimpiattino e agli indiani con i ragazzi del Fratini e del Gentilini, gli altri contadini che dividevano campi casa e lavoro con i Dinacci.
Eravamo nella stessa classe alle elementari dalle suore io e Giancarlo e, se in matematica non agguantava molto e in storia e geografia anche meno, aveva però capito a volo che il capoclasse, nella sezione seguita da Suor Pia, era responsabile della lezione, fatta e non, di tutti gli scolari. Per il primo della classe questo onere era maggiore dell'onore, tantoché veniva punito dalla suora insegnante a ceffoni, tirate di orecchi e bacchettate sulle mani, quale responsabile delle mancanze di tutta la scolaresca.
Capitò anche a me di avere tale responsabilità, eravamo io e Mauro Dilda i migliori capiclasse, e non c'era mattina che Suor Pia non mi facesse nero e rosso per i compiti sbagliati, o addirittura non fatti, dal Fratini e da Giancarlo. Il primo era mingherlino e bastarono due pedate e tre scapaccioni perché si rimettesse in carreggiata, mentre per il secondo, più tosto e più grosso, ci vollero prima dei giornalini di Tex, poi anche di Pecos Bill e alla fine dovetti la sera, (stavamo tutto il giorno a scuola dalle suore), portarmi a casa i quaderni di Giancarlo e fare io la sua lezione del giorno dopo perché né le buone parole né i regalini avevano fatto imparare date e nozioni a quel testone e io non avevo più voglia di sentirmi addosso le mani dure e secche della suora.
Se il Dinacci non era portato per temi e problemi, provava egli pure una passione scolastica.
Aveva una tale fissazione nello "incignare" i quaderni nuovi che rasentava la follia.
I quaderni si compravano direttamente dalla maestra e si potevano pagare alla fine del mese insieme alla retta, perciò era facilissimo e invogliante l'approvvigionamento. Erano in genere quaderni neri con il filo esterno delle pagine rosso e con la distanza fra i righi inversamente proporzionale al numero della classe frequentata: con poche righe in prima e tante e fitte fitte in quinta.
C'erano anche quelli della serie “città o animali” disegnati in un piccolo dischetto colorato in alto a destra del frontespizio, quelli con la copertina marrone di cartone spesso e tutti facevano gola a Giancarlo. Giancarlo li comprava, intestava la prima pagina con nome cognome anno scolastico classe e materia e li gettava o regalava.
Non riesco a capire neanche adesso la molla che spingeva il ragazzo a comportarsi in quel modo; forse voleva, come i cani e i lupi, marchiare con un suo segno qualcosa che sapesse di scuola per lasciare una testimonianza dato che altre impronte era molto difficile le potesse lasciare, e lui era conscio di questo.
I quaderni sparivano divorati da quella febbre da “prima pagina” e i genitori pagavano meravigliati i conti salati che Suor Pia presentava loro ogni mese; meravigliati, anche e più, dal fatto che non vedevano mai il figlio scrivere a casa tanto da giustificare quella spesa, finché alla madre non venne in mente di limitare l'acquisto alla sola necessità contingente.
Così la signora Dinacci si accordò con la suora perché venisse dato al ragazzo il quaderno nuovo solo alla riconsegna del vecchio riempito, oppure con un ordine firmato e scritto da uno dei genitori autorizzando così un prelievo straordinario, tipo “regalo di natale”.
Giancarlo sbuffò, soffrì, scarabocchiò, si arrovellò il cervello, forse per la prima volta, per cercare una soluzione. I bei quaderni nuovi vergini non c'erano più, non c'era quindi più gusto a stare in classe a sentire di quadrati, rombi, fiumi e avverbi e neanche il giochino del calamaio usato come misura del nostro affare duro, quando la suora non vedeva, lo eccitava più tanto.
C'era uno stropiccio di pantaloncini, risate di bambine e sguardi complici fra noi quando a qualcuno, più svelto nell'eccitarsi, veniva in mente di provare la propria potenza, sbottonandosi e infilandolo nel massiccio blocchetto di vetro che stava anche lui infilato in un buco sull'orlo del banco di legno. Vinceva sempre Livio del pastore, un ragazzo grande e grosso che viveva in Bonifica con pecore e capre e per questo forse il suo muscolo si era sviluppato di più.
Dovevamo però prima svuotare il calamaio da tutto l'inchiostro azzurro scuro che la suora rabboccava spesso e allora chi aveva abbastanza carta assorbente, rimediava bene arrotolando il foglio e guardando meravigliato la macchia blu che saliva stranamente risucchiata anche fino oltre il bordo del recipiente, ma gli altri dovevano usare altri fogli; quelli di quaderno non erano buoni, meglio la carta delle schiacciatine che però quando veniva tolta, gocciolava e così si correva il rischio di macchiare il quaderno ed era cosa molto grave avere le pagine schizzate d'inchiostro e schiaffi e nocchini avevano sempre insegnato a non macchiare. I fazzoletti, se non fossero asciugati in tempo, avrebbero lasciato buffi, strani e imbarazzanti segni sul naso e sulle mani, ma il giochino valeva pure le patte di Suor Pia e quelle delle mamme a casa che, a volte, non si capacitavano di come si potesse essere tanto ciabattoni da arrivare a sporcarsi anche le mutande. Neanche il finto disinteresse delle ragazze al nostro armeggìo riusciva a far resistere Giancarlo senza quaderni e un bel giorno, finalmente, arrivò l'ispirazione!
Presa carta e penna e una busta bianca da Cecco, nel negozio che aveva di tutto e che era di fronte alle scuole, scrisse una gloriosa lettera alla maestra che gli fece brillare gli occhi dall'eccitazione e dare i classici colpi in fronte per non averci pensato prima.
Tale e quale all'originale riporto qui di seguito lo scritto "liberatorio":
"Suor Pia, ha detto mi' ma' che me lo dia"
firmato Dinacci Maria.