Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Mille anni che sta lì
Dice: bisogna capire le ragioni dell’altra parte. E capiamole, allora, ma sul serio. Dice: questa guerra non è iniziata adesso. Sì, ma manco nel 2014. Né nel 2008. E nemmeno nel 1991. Se volete fare sul serio, io ci sto.
E quindi partiamo da Pietro il Grande.
A cavallo tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, è il primo zar a fare del concetto di profondità strategica il principio di base della politica di difesa della Russia. L’impero, al tempo, è già sterminato e praticamente indifendibile, perché non ha barriere naturali a protezione dei suoi centri nevralgici. L’invasione da Occidente non è un pericolo ipotetico: meno di un secolo prima, dopo la morte di Ivan il Terribile e il periodo dei torbidi, i polacchi erano entrati a Mosca e vi avevano regnato un paio d’anni.
L’intuizione dello zar è di mettere quanto più terra possibile tra il Cremlino e i suoi nemici. L’impero inizia ad allargarsi verso il Baltico, verso il Mar Nero, verso il Caucaso, verso l’Asia centrale. È Pietro il Grande a portare la frontiera fino al Mare d’Azov e fino al fiume Dnipro in Ucraina. La profondità strategica, con l’aiuto del generale inverno, consente alla Russia di salvarsi dall’offensiva di Napoleone nel 1812 e da quella di Adolf Hitler nel 1941. Resta infatti concetto centrale della politica di sicurezza anche per l’Unione sovietica, che non a caso due anni prima dell’operazione Barbarossa scendeva a patti con la Germania nazista per spartirsi il territorio della Polonia; e che non a caso, durante gli anni della Guerra fredda, non esita a inviare i carri armati a Budapest e a Praga per assicurare la tenuta del Patto di Varsavia.
Il problema per Mosca è che, quando incorpori nuovi territori, incorpori anche nuove nazionalità. I sovietici, fin dai primi anni, tentano di sedare le spinte centrifughe nazionaliste con rudi esperimenti di ingegneria demografica e disegnando confini per così dire fantasiosi, che ancora oggi non mancano di alimentare conflitti in tutta l’area post-sovietica. Ma per tenere insieme il baraccone serve una salda ortodossia ideologica, una forza militare schiacciante e la promessa di un miglioramento delle condizioni di vita di tutte le popolazioni dell’Unione. L’Urss collassa nel 1991 per effetto del venir meno di tutti e tre questi elementi, dando vita a una costellazione di Stati indipendenti che, nella gran parte dei casi, immaginano di costruire il proprio futuro sul modello politico ed economico proposto dall’Occidente, quello uscito vincitore dalla Guerra fredda.
Quando Vladimir Putin definisce il crollo dell’Unione sovietica “la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo” non lo fa perché è un nostalgico del socialismo reale, ma perché è consapevole che nel 1991 Mosca ha perso la sua profondità strategica. Già la Russia di Boris Eltsin tenta di chiudere i cancelli dando vita alla Comunità degli Stati indipendenti (Csi), che però non riesce mai a dotare di una politica estera e di difesa comune. I buoi sono già scappati e Eltsin non ha la forza politica ed economica per andare a recuperarli. Nel 1997 Georgia, Ucraina, Azerbaigian e Moldova danno persino vita a un’organizzazione regionale parallela che si chiama Guam, dalla quale la Russia è esclusa. È questo il periodo del grande allargamento dello spazio Nato, che – temo vada sempre ricordato – non è una potenza, ma un’alleanza militare alla quale si aderisce volontariamente. Sul rapporto Nato-Russia non mi dilungo, perché l’ho già fatto il 26 febbraio qui su Facebook.
Quando arriva al potere, nel Duemila, Putin incarna il senso di umiliazione e d’insofferenza che la sua generazione – una generazione cresciuta nell’epoca della dottrina brezneviana, nel mito dell’espansionismo sovietico e i cui padri avevano resistito a Stalingrado e liberato Berlino – che la sua generazione, dicevo, vive nelle macerie fumanti dell’impero. È un uomo del Novecento, sì, ma è soprattutto un leader russo e come un leader russo disegna la sua politica estera. Mette subito in chiaro che il disegno strategico che persegue punta dritto a mettere in discussione l’ordine mondiale emerso dalla Guerra fredda, a ridisegnare i confini dell’Europa. Lo fa piallando al suolo la capitale dell’ultima delle repubbliche separatiste, la Cecenia, e utilizzando ogni strumento a disposizione per richiamare all’ordine gli Stati indipendenti della galassia post-sovietica.
L’Ucraina, per ragioni strategiche, è il Paese verso cui, più d’ogni altro, si concentrano le attenzioni e le preoccupazioni di Putin. La sua esistenza è accettabile solo come Paese satellite della Russia: dista 600 chilometri da Mosca, dai Carpazi alla capitale russa è aperta pianura, e a Sebastopoli, nella Crimea ucraina, c’è la principale base navale russa sul Mar Nero. Nel 2004, quando si avvicinano le elezioni, il candidato filo-occidentale alla presidenza, Viktor Yushchenko, viene avvelenato con la diossina, sopravvive ma ne porterà i segni sul volto per tutto il resto della sua vita. Tra il 2006 e il 2009, con lo stesso Yuschenko al potere, Gazprom interrompe ogni anno le forniture di gas in pieno inverno. Non sorprende che nel 2010 vada al potere un leader ben disposto verso Mosca, Viktor Yanukovic, il quale però tenta un gioco pericoloso di equilibrismo: tratta l’Accordo di associazione con l’Unione europea, poi si tira indietro quando arrivano cospicui assegni dalla Russia. Il resto è storia recente: la protesta dell’Euromaidan, gli spari sulla folla, le infiltrazioni di estrema destra, Yanukovic che viene esautorato dal parlamento e scappa dal Paese, l’annessione della Crimea, il conflitto a bassa intensità nel Donbas.
Non bisogna perdere di vista il quadro più ampio. L’invasione dell’Ucraina è un piano pronto da tempo: non è una reazione, non è una risposta, non è una rappresaglia. Putin ritiene fondamentale colpire per primo e colpire duro, come teorizza scavando nell’aneddotica della sua infanzia a Leningrado e ricordando di quando andava a caccia di topi e uno di questi, stretto all’angolo, approfittò di un’esitazione del piccolo Vladimir per saltargli addosso e trovare una via di fuga. Il 12 luglio 2021 il leader russo pubblica un lungo articolo che s’intitola “Sull’unità storica tra russi e ucraini” (lo linko nei commenti): ha già deciso d’invadere l’Ucraina.
Perché proprio ora? Per quattro ragioni fondamentali. La prima è che nel 2021 i prezzi di gas e petrolio sono raddoppiati in maniera inattesa, e garantiscono alla Russia un flusso di cassa extra per finanziare l’avventura militare. La seconda è che la guerra in Siria è ormai finita e Mosca può permettersi di aprire un nuovo fronte. La terza è che, nell’analisi del Cremlino, il blocco occidentale è diviso: gli Stati Uniti, debilitati dalla disastrosa transizione Trump-Biden, guardano quasi solo al Pacifico, e l’Europa è l’Europa, per di più in convalescenza da uno dei più gravi shock finanziari della sua storia. La quarta è che Putin è convinto di trovare sponda in Cina e di potersi quindi permettere di rompere con l’Occidente: Xi Jinping ha bisogno oggi più che mai del gas e del petrolio russo per accelerare la crescita economica, e avrà bisogno in futuro di un alleato che gli copra le spalle quando toccherà a lui invadere Taiwan.
Alcuni punti importanti:
• Putin non vuole la neutralità dell’Ucraina: in tal caso il conflitto si sarebbe già concluso, o più probabilmente non sarebbe mai iniziato. Putin vuole terra: l’Ucraina intera o, se dovrà accontentarsi, la sua metà fino al fiume Dnipro.
• Non si fermerà fino a quando non sarà in grado di portare a casa un risultato in grado di consolidare il suo potere e il suo consenso interno, inevitabilmente intaccato dal crollo delle condizioni di vita dei russi provocato dalle sanzioni. È ingenuo pensare che possa sedersi ora al tavolo dei negoziati.
• La Russia non vincerà mai questa guerra. L’ha già persa sul piano mediatico, rischia di perderla persino sul piano militare (il blitzkrieg è già fallito, la guerra casa per casa avvantaggia gli ucraini e il tempo gioca contro gli occupanti) e la perderà certamente sul piano politico (se anche dovesse prender Kiev, a che costo potrà controllarla?).
• La nostra capacità d’incidere sugli eventi è limitata, benché distorta dalla nostra tendenza a sentirci il centro del mondo. Dobbiamo invece abituarci a un pianeta che sempre più gira indipendentemente dalla nostra volontà e dalle nostre responsabilità. Vedete: un secolo fa l’Europa rappresentava il 30 per cento della popolazione della Terra, oggi tra il 7 e l’8 per cento. Nel 1975, quando nacque, il G7 raccoglieva l’80 per cento della ricchezza mondiale, oggi non arriva al 50. Ci sono nuovi protagonisti, nuovi scenari, nuovi centri gravitazionali. È un pensiero arrogante quello che ci porta a credere che tutto dipenda da noi, dalle nostre scelte o dalle nostre inazioni.
• Ci sono anche nuovi e vecchi imperialismi, e bisognerebbe imparare a riconoscerli prima che ci piovano le bombe in sala da pranzo. Anche se mi rendo conto che esiste una parte di questo Paese - in quel territorio oscuro nel quale s’intrecciano destra e sinistra e nel quale la necessità di posizionarsi contro il Pensiero Unico sovrasta quella di cercare la verità e di abbracciare la complessità delle cose, ma anche di provare una naturale compassione per le vittime e per gli oppressi – che sarebbe disposto ad appoggiare qualunque despota, anche il più sanguinario, purché fieramente anti-occidentale.
Putin non è pazzo, piuttosto è il prodotto paranoico di una cultura paranoica. Ma è sempre stato questo. Sta invecchiando, e questo lo porta ad affrettare delle scelte che in altri tempi avrebbe ponderato più a lungo. È solo, e quindi non ha nessuno intorno che lo avverta che sta facendo una cazzata. Ma la traiettoria che lo porta a invadere l’Ucraina è la stessa lungo la quale si è mossa la sua intera carriera politica. È sempre stato tutto lì, davanti ai nostri occhi. Solo che non l’abbiamo voluto vedere. Putin oggi vuol terminare un lavoro iniziato quasi vent’anni fa. O, se vogliamo, mezzo millennio fa.