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Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative. 

E non c'è da cambiare idea. Dopo aver sostenuto la .....
. . . sul Foglio.
Secondo me hai letto l'intervista .....
L'intervista a Piazza Pulita è di 7 mesi fa, le parole .....
Vedi l'intervista di Matteo Renzi 7 mesi fa da Formigli .....
per pubblicare scrivere a: spaziodonnarubr@gmail.com
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Unioni comunali PD San Giuliano Terme e Vecchiano
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di Mario Lavia-per Il Riformista
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Di Andrea Paganelli
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di Paolo Pombeni
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Giovanni Russo per: Unione Comunale PD Cascina
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Arabia Saudita
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Incontrati per caso...
di Valdo Mori
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Dalla pagina di Elena Giordano
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storie Vere :Matteo Grimaldi
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Indaco il colore del cielo
non parimenti dipinto
Sparsi qua e là
come ciuffi di velo
strani bioccoli di bambagia
che un delicato pennello
intinto .....
tutta la zona:
piscina ex albergo
tutto in stato di abbandono

zona SAN GIULIANO TERME
vergogna
Dietro a un filo

4/6/2022 - 10:32



Dietro a un filo
Loredana mi aspetta davanti al cancello aperto, con la mano sinistra mi fa cenno dove parcheggiare e con la destra tiene stretto il colletto della pesante camicia a quadri rossi e neri per ripararsi dal vento. Ci siamo sentite per telefono un paio di giorno prima per organizzare l’incontro. Loredana vive a Ripa, una località nel comune di Seravezza. Avevo segnato la via e il numero civico e ora sono qui, davanti a lei.
“Vieni” mi dice e indica la porta socchiusa, con un gesto veloce sposta dall’occhio destro una ciocca di capelli che brilla come illuminata dalla luna. Evito i rami dell’olivo appena potato e salgo dopo di lei i due gradini. Loredana mi fa strada e insieme a noi entra in casa un gatto bianco con le zampe nere che annusa la ciotola e prosegue verso il divano. Mi siedo e tolgo dalla borsa un sacchetto di carta che appoggio sul tavolo.
“Da dove cominciamo?” mi dice.
“Dall’inizio” le rispondo e mi appoggio allo schienale.
“La prima volta che ho visto un telaio era il 1957 e io avevo tre anni. Ero andata con mio padre a far visita a mia zia, sua sorella, a Pruno, un paese dell’Alta Versilia sotto al monte Pania. Nel cuore delle Alpi Apuane. Rimasi affascinata da quella cosa grossa con una ruota”.
Mentre lo dice, Loredana disegna con le braccia un cerchio nell’aria.
“Fino agli anni ’50, nelle famiglie dove c’erano figlie femmine, una veniva avviata alla tessitura e l’altra al cucito, in maniera che non mancassero abiti, lenzuola e asciugamani”.
Le parole di Loredana mi ricordano i documentari in bianco e nero che raccontano di un’Italia che prova a rialzarsi con le macerie della guerra ai bordi delle strade. Loredana continua il suo racconto: “Ero sempre con mio padre, avevo sei o sette anni. In quel periodo lui prestava servizio a Piobbico, vicino a Urbino. Era un uomo molto attaccato alle tradizioni ed è forse per questo motivo che un giorno, mentre gironzolavamo per il borgo, mi portò nella bottega”.
Loredana socchiude gli occhi come a cercare un punto lontano, inspira con il naso, riapre gli occhi, mi guarda e dice: “La donna ci accolse con un sorriso, era alta, esile e aveva i capelli intrecciati e raccolti intorno alla testa come una corona. Ricordo ancora il profumo che c’era in quella stanza, di lana asciugata al sole”.
Loredana mi lascia il tempo di vedere la scena prima di continuare il racconto.
“La tessitrice riprese il suo posto sullo sgabello. Solo allora notai il lavoro: su una base di tela aveva inserito piccole strisce di lana cardata e non filata lavorata con le mani” Loredana mima il gesto, fa scivolare il dito indice contro il pollice e continua il suo racconto. “L’inserto dei bioccoli di lana creava un disegno particolare e bellissimo senza seguire uno schema ben preciso, favoloso” aggiunge e i nei suoi occhi dal colore delle nocciole appaiono delle pagliuzze d’oro.
Il gatto bianco e nero ritorna, annusa l’aria, si struscia alla mia gamba destra, fa due passi e con un salto prende posto in braccio a Loredana che lentamente inizia a lisciare il pelo dell’animale.
“Poi L’Arma fece rientrare in Versilia mio padre”.
Loredana smette di lisciare il pelo al gatto, lui la guarda, alza il muso e sbadiglia. Loredana guarda fuori come a cercare i ricordi tra le foglie degli olivi. Le lascio il tempo per cercali.
“Dopo il diploma diventai insegnante di ruolo a Pontestazzemese e alla fine degli anni ’70 o inizio ’80 venni a sapere che nel paese di Cardoso organizzavano un corso per imparare a tessere. Mi iscrissi”.
“È lì che hai conosciuto le sorelle Barberi?”
“Sì, il Comune di Seravezza aveva messo a disposizione un pulmino che passava a prendere Irma e Teresa a San Bartolomeo, una località di Pietrasanta, e le altre donne che non avevano mezzi propri”.
Un raggio di sole si fa spazio tra le foglie d’olivo e sfiora un piatto di ceramica appoggiato sopra una mensola di legno vicino a un vecchio macinacaffè a manovella.
“Il corso non aveva una parte teorica, dovevamo imparare guardando. All’inizio fu difficile, quando loro muovevano le mani per preparare l’ordito, le loro dita si muovevano veloci. ‘Si fa, così, così, così’ ripetevano Irma e Teresa a ogni lezione. Seppi in seguito che Irma e Teresa avevano preparato un ordito con 1200 fili per testare se le allieve erano motivate. Alla fine quel movimento di fili sulle mani mi entrò dentro: nella testa, nelle mani, nel cuore”.
Loredana muove le mani come una suonatrice d’arpa alla ricerca delle corde da pizzicare, continua il suo racconto: “Ma solo quando mi sono seduta all’interno del telaio ho capito che quello era il mio posto, sapevo come muovermi: come una rivelazione. Presi il ritmo e andai” Loredana spinge in avanti le mani aperte e aggiunge “trovai semplice anche scalcolare: è il movimento che si fa con i piedi attraverso i pedali che sono ancorati al legno con delle corde e quando vengono premuti, i filati sono sposati su diversi livelli grazie al movimento dei licci”. 
Il movimento che Loredana mima con i piedi mi ricorda quello sui pedali dell’armonium per azionare il mantice.
“La preparazione dell’ordito si svolgeva nel silenzio assoluto” mi dice Loredana. “Si dovevano contare i fili precisi per creare la trama. Uno sbaglio in quella fase di lavorazione metteva a repentaglio il lavoro intero. E se uno sbaglio veniva fatto si doveva rimediare. Ma questo avveniva in seguito con l’esperienza”.
Tiro fuori dalla borsa un piccolo quaderno a righe con la copertina azzurra e inizio a prendere appunti. Loredana mi lascia finire, poi continua il racconto mentre il gatto torna sul divano.
“La materia prima per la tessitura era la canapa, che veniva coltivata nei campi. La canapa dopo essere stata tagliata veniva messa a macerare nel fiume, o nel pozzo all’interno dell’aia. Una volta asciugata al sole, veniva pestata con la sciabola sulla gramola per sfibrarne lo stelo. Poi a quel punto veniva pettinata”.
“Questo lavoro coinvolgeva anche gli uomini?”
“Certo, loro sostituivano anche i pezzi del telaio che si logoravano. Ora si direbbe un lavoro inclusivo” dice Loredana sorridendo e continua, “i lavori di manutenzione venivano fatti durante l’inverno quando, specialmente in montagna, non si poteva lavorare all’aperto. La sera si riunivano in una casa e mentre le donne filavano o tessevano gli uomini preparavano i pettini con le canne; il pettine permette di sistemare i fili alla stessa misura prima di battere la tela. I denti del pettine determinano anche il tipo di tela che si vuole ottenere: più rada o più fitta”.
Loredana mi parla in maniera semplice di una lavorazione che a me appare complicata. Sembra leggermi nel pensiero.
“È più complicato spiegarlo che farlo. Dopo l’ultimo trasloco ora finalmente ho una stanza tutta per me, una stanza dove metterò il telaio” vedo di nuovo le pagliuzze dorate negli occhi di Loredana che continua, “appena sono pronta ti faccio vedere”.
“Sì, solo in quel modo posso capire tutto quello che ora mi racconti” le dico.
“Ma torniamo al corso” dice Loredana arrotolando la manica destra della camicia. “In poche lo finimmo. Io rimasi in contatto con le sorelle Barberi e passavo con loro il mio tempo libero”.
“Ma tutto il lavoro si svolgeva in silenzio?” per un attimo immagino le tre donne nella stanza, come in una chiesa
“Allora, quando si montava un lavoro, cioè quando si faceva l’ordito, per capire, in quel caso sì, poi quando il lavoro era impostato c’era lo spazio anche per le ciance; delle due, Irma era la più loquace. Ma era a l’ora del tè il momento della nostra ricreazione” dice Loredana sorridendo.
“Il tè?”
“Sì, tutti i giorni alle 16.30 prendevamo il tè, poi se c’era un lavoro da finire lo finivamo, altrimenti facevamo festa”. Loredana si appoggia allo schienale e ricerca l’aria con il naso, accavalla la gamba sinistra sulla destra, oltre all’aria ricerca anche le parole e continua a raccontare: “Poi, il lavoro e la famiglia. Mio figlio cresceva e aveva bisogno di più attenzioni” Loredana srotola la manica della camicia che ha appena arrotolato. “Il telaio non è un lavoro che lo prendi e lo posi. Il telaio ha bisogno del tuo tempo e io in quel momento di tempo ne avevo poco”.
Non c’è nessun rumore nella stanza, come se il tempo si fosse fermato sulla parola: poco. Quando ricomincia a parlare la sua voce ha cambiato tono, è allegro come un ruscello apuano che scorre tra i sassi arrotondati.
“Non avevo tempo per il telaio, così mi inventai una cosa che faceva felice me e i miei alunni: insegnai loro a tessere. Per prima cosa li portai a visitare il Museo del Lavoro e delle Tradizioni Popolari a Seravezza e gli feci incontrare il telaio”.
Provo a immaginarmi una scolaresca di bambini e bambine che camminano sul pavimento di mezzane in mezzo a oggetti mai visti prima.
“E sai una cosa?” mi dice Loredana. “In quella fase notavo che i maschi erano più curiosi delle femmine, volevano sapere il funzionamento dei pezzi che componevano il telaio, pezzo per pezzo. Uno spettacolo. Poi arrivava la parte pratica, in questa fase bambini e bambine erano allo stesso livello. Notavo che entrambi avevano poca manualità, poi le cose lentamente migliorarono”.
“Ma dove li facevi lavorare?” le chiedo.
“Certo non al telaio, presi dei quadrati di compensato di un paio di centimetri di spessore e di una cinquantina di centimetri per lato, inchiodai una fila di chiodi sia alla base che all’altezza a distanza di due, tre centimetri”.
Mentre lo descrive io provo a immaginare tutto quel lavoro fatto per ogni bambino e bambina. Loredana continua a raccontare: “Poi mi procurai un filo robusto e legai il filo al primo chiodo in basso a sinistra, ci feci un nodo e lo portai in alto, lo girai intorno al chiodo e lo passai al chiodo successivo, di nuovo un giro e lo riportai in basso. Feci lo stesso lavoro fino alla fine dei chiodi. Su e giù. Fermai con un nodo il filo all’ultimo chiodo in basso a destra. Ecco fatto, quello era il nostro rudimentale ordito su cui tessere”.
Loredana fa un gesto con le mani che mi ricorda un prestigiatore dopo una magia e continua: “Uno spettacolo vedere passare sopra e sotto le mani dei bambini e delle bambine con la navetta, si chiama così l’attrezzo che permette di passare il filo sull’ordito per dar vita alla trama. Per fare la navetta avevo preparato strisce di legno dove loro arrotolavamo i filati”.
L’oro ha preso quasi tutto lo spazio negli occhi di Loredana, che aggiunge: “Ti avrei fatto vedere la gioia che le bambine e i bambini mettevano a preparare i loro lavori da portare a casa. Successe poi una cosa meravigliosa. Molte delle nonne raccontarono alle nipotine e ai nipotini e aneddoti della loro gioventù che si ricollegavano alla tessitura, al cucito e alla lavorazione delle fibre naturali. Molte di loro tirarono fuori dai cassetti i ferri per fare le maglie e uncinetti per i centrotavola. Una meraviglia” ripete Loredana. “Tramandare le tradizioni è un dovere”.
Loredana si alza e si avvicina alla credenza, che dal colore sembra fatta con il legno di ciliegio, prende le due maniglie di ottone e apre il primo cassetto, lo richiude e torna a sedersi. Ha in mano una piccola scatola di legno chiusa con un nastro rosso, scioglie il fiocco, la apre e tira fuori un foglio di carta che ha perso il colore naturale e inizia a leggere:
“Disegno rosa imperiale: fate come vi parla il foglio poi non sbagliate.
Levigliani 10 settembre 1910.
Stella Simi, dite un Requiem aeternam”.
Loredana ripiega il foglietto e lo ripone nella scatola e aggiunge: “L’ho fotografato al Museo di Seravezza e l’ho stampato su un foglio di carta che avevo in un cassetto”. Loredana mi indica lo schema di lavoro disegnato: “Le donne si tramandavano i disegni da madre in figlia e tra le amiche, in cambio chiedevano una preghiera, commovente” aggiunge.
Loredana si alza, prende la scatola, la ripone nella credenza e torna a sedersi. Ho ancora negli occhi lo schema della rosa imperiale quando gli faccio la domanda: “Quand’è che hai ricominciato a tessere?”
“Avevo una quarantina d’anni quando ho ricominciato a tessere. Avevo bisogno di Irma, Teresa e del loro telaio”. Loredana mi guarda dritta negli occhi: “Bisogno sì, come dell’acqua quando si ha sete. Avevo bisogno si sedermi di nuovo su quello sgabello a prendermi del tempo solo per me, solo per me” ripete.
Le parole “solo per me” rimbalzano sulle pareti della stanza, imboccano il corridoio e scompaiono dietro una tenda patchwork dai disegni geometrici. Loredana tira il filo che pende dalla manica della camicia, lo arrotola sul dito medio della mano sinistra, lo srotola, lo appoggia sul tavolo e guarda l’orologio alla parete.
“Via giù, sono le 16.25, ti va un tè?”
 “Sì, possiamo provare questo?” tolgo dal sacchetto di carta una confezione di tè aromatizzato ai frutti di bosco e i biscotti allo zenzero e limone “questi li ho fatti stamani” aggiungo.
“Bene!” Loredana si alza, va verso l’acquaio e dopo avere riempito d’acqua un pentolino lo mette sul fuoco, apre il cassetto della credenza, sfila un tovagliolo di lino e lo appoggia sul vassoio che ha preso dalla mensola. Prendo i biscotti per metterceli sopra quando la porta d’ingresso si apre.
“Devo decidermi a far aggiustare la serratura, se non giro la chiave basta un po’ di vento per aprirla” dice Loredana mentre apre il frigorifero alla ricerca di un limone.
“La chiudo io” le dico, rovescio i biscotti nel vassoio e vado verso la porta. Sento come una leggera resistenza che mi impedisce di farlo, guardo fuori le foglie dell’olivo; sono ferme come in un pomeriggio d’agosto. Mi assicuro di averla serrata bene e mi volto per tornare al mio posto.
I due passi che percorro sembrano infiniti: il pavimento si è ammorbidito sotto ai miei piedi e il movimento che faccio da sinistra verso destra per riallineare il busto alle gambe mi ricorda il passo di una ballerina incerta. Dopo la mezza giravolta mi siedo. Lo ha fatto anche Loredana.
Insieme a lei ci sono due signore.
“Siete arrivate al momento giusto” dice Loredana e aggiunge “lei è Franca” guarda verso di me “loro sono Irma e Teresa”
Rimango un attimo sospesa come all’interno di una bolla di sapone, sfumature rosa, verdi e azzurre mi avvolgono. Le parole che vorrebbero uscire dalla mia bocca sono: “Ma io avevo capito che… si, insomma io credevo che voi…” riprendo le parole un attimo prima che possano uscire e le cambio con: “Sono felice di conoscervi”, allungo la mano destra verso di loro. Avverto un tocco leggero come d’ali di farfalla.
“Che buon profumo” dice Irma che mi guarda attraverso gli occhiali dalla montatura dorata “sa di mora” aggiunge. I suoi capelli hanno il colore delle nuvole a primavera.
“Cinque minuti ed è pronto” dice Loredana dopo che ha versato l’acqua nella teiera.
Irma appoggia la borsa nera sullo sgabello. Si sbottona la giacca, se la toglie, la rovescia e la mette sopra la borsa, sistema il colletto dell’abito nero a quadretti bordeaux. Teresa libera i bottoni dagli occhielli della giacca marrone ma non la toglie, anche lei aggiusta il colletto del vestito. La fantasia della stoffa ricorda i colori del bosco in autunno. Allenta la cintura marrone in vita e passa le mani lungo i fianchi per togliere le pieghe al vestito. Prende il laccio della tracolla, aggancia la borsa allo schienale della sedia e si avvicina al tavolo. Il movimento del suo corpo fa dondolare la medaglietta attaccata alla catenina che porta al collo.
“Ci voleva un tè” dice Teresa mentre sistema una ciocca di capelli dietro all’orecchio: grigi come le nuvole d’autunno.
Loredana mette sul tavolo la zuccheriera e un barattolo di miele “Le stavo raccontando di noi e del telaio” dice mentre versa la bevanda nelle tazze bianche bordate d’oro.
“Anche te sei interessata alla tessitura?” mi chiede Irma mentre avvicina la tazza.
Ripenso ai 1200 fili per la preparazione dell’ordito, prendo un biscotto e mi prendo anche il tempo per rispondere. Irma e Teresa mi guardano mentre Loredana si porta alle labbra la tazza fumante.
“Per il momento sono curiosa di capire cosa c’è dietro alla tessitura: cosa si nasconde dietro a un filo”.
“Bene!” rispondono in coro Irma e Teresa.
“Noi eravamo bimbette quando abbiamo incominciato; erano gli anni ’30. Io in verità andavo da una sarta per imparare a cucire” dice Irma “poi ho deciso di aiutare mia sorella. Non potevo lasciare la mì Terè da sola, per lavorare al telaio bisogna essere almeno in due. Siria la nostra sorella maggiore aveva scelto un'altra strada. Nostro padre aveva comprato per noi un telaio di seconda mano, dopo averlo risistemato a dovere iniziammo a tessere. All’inizio lo facevamo quando non c’era da lavorare nei campi” Irma prende la tazza dal piattino, beve un sorso, la riappoggia e continua “i nostri genitori erano mezzadri e tra i nostri compiti c’era anche quello di lavare la biancheria ai padroni. Era un lavoro duro lavarla, ma quando dovevamo torcere le lenzuola per strizzarle era anche peggio; le braccia si staccavano dalle spalle. Meglio la tessitura. Irma fa una pausa “Oh! Ma prima di tessere sai quanti gomitoli abbiamo fatto. Si partiva da lì, dal gomitolo”.
Irma prende un biscotto e lo assaggia “Buono” dice e continua il suo racconto mentre anche Teresa allunga la mano verso il vassoio.
“Lavoravamo con molti gomitoli, e per non fare annodare i fili ogni gomitolo veniva messo in un contenitore quadrato, mi spiego meglio: il contenitore era stretto e lungo diviso in tanti quadrati quanti erano i gomitoli per la preparazione dell’ordito, e digli un po’ Terè come facevamo a farli stare fermi? cioè a non farli saltare fuori dai loro spazi.
“Diglielo te Irma” dice Teresa e beve un sorso della bevanda.
“Via giù, lo racconto io. Andavamo nel greto del fiume a prendere le marmoline: pezzi di marmo arrotondati dall’acqua che venivano giù dalla montagna; sceglievamo quelli della dimensione giusta e ci arrotolavamo il filato fino a formare il gomitolo. Se il gomitolo era fatto bene rimaneva un foro sia in alto, che in basso. Per questo durante la lavorazione si sentiva un rumore sordo: toroton, toroton, toroton” Irma accompagna il rumore con il gesto delle mani mimando il movimento della trottola e ripete “ogni gomitolo girava ma rimaneva nel proprio contenitore”
Toroto, toroton, toroton. Il rumore che accompagnava la preparazione dell’ordito sembra essere entrato nella stanza, gira intorno a ognuna di noi e se ne va come è arrivato. Il gatto scende dal divano, gira intorno al tavolo e annusa l’aria.
“Vuoi uscire?” gli dice Loredana, lui la guarda, va verso la ciotola annusa e mangia, si lecca i baffi e torna sul divano.
“E poi arrivò la guerra, vero Terè” Teresa annuisce mentre prende un altro biscotto. Irma riprende a parlare “momenti brutti” Irma abbassa la voce tanto da faticare a sentirla, fa una pausa e riprende “noi non potevamo restare lì, con le mani in mano. No!” la voce di Irma è tornata più forte di prima “Tra il ’43 il ’44, venimmo a conoscenza che i nostri concittadini avevano utilizzato le lenzuola per fare i pantaloni e le camicie che poi avevano tinto con il mallo della noce. A quel punto avevano gli abiti ma non avevano più le lenzuola. In giro non si trovava più nulla e se la trovavi al mercato nero il prezzo veniva triplicato. E allora che studiammo io e la mì Terè?
Irma guarda la sorella e gli fa un cenno con la mano per invitarla a continuare, Loredana aggiunge un po’ di tè in tutte le tazze. L’ultima goccia cade nella sua tazza e disegna un cerchio. Teresa prende la parola.
“Di materiale ne avevamo a sufficienza, ci mettemmo a tessere per chi ne aveva bisogno senza pretendere niente in cambio. Non potevamo lasciar dormire un cristiano senza lenzuola. Ci portarono anche della lana, con quella tessemmo le coperte. Con le loro avevano confezionato i cappotti per ripararsi dal freddo. E il freddo all’ora c’era” Teresa mette le mani intorno alla tazza ormai tiepida come sentisse ancora il gelo di quei tempi “la stoffa era preziosa come l’oro e per proteggerla dalle tarme, negli armadi mettevamo dei sacchetti di tela con dentro i chiodi di garofano e le foglie di alloro asciugate al sole” toglie le mani dalla tazza e si appoggia allo schienale.
Il sole inizia a calare e tinge di rosa le creste apuane. Loredana si alza, toglie dalla tavola le tazze vuote, lascia il vassoio con i biscotti rimasti e prende la parola:
“Ve lo ricordate quando sono tornata da voi per ricominciare a tessere?”
“E come no!” dice Irma “era come invitare la lepre a correre, non aspettavamo altro. Ci avevano commissionato un lavoro, avevamo preparato l’ordito ma per montarlo sul telaio servivano tre persone: una che gira la ruota, una che tiene in mano tutti i fili preparati e una che con un rastrello li distribuisce sul subbio. Fatto questo in due si siedono dentro al telaio e si passano i fili l’una con l’altra, uno alla volta. I fili vengono poi infilati nelle asole dei licci seguendo uno schema disegnato su di un foglio di carta che indica quale liccio infilare”
Vedo i fili che disegnano diagonali nella stanza; mi sento una mosca all’interno di una ragnatela. Irma sembra accorgersene e mi lascia il tempo di districarmi. Quando ricomincia a parlare indica con la mano destra Loredana e sua sorella.
“Loro due erano sedute sulle seggiole dentro al telaio e si passavano i fili e io scandivo il tempo con la voce: primo, secondo, terzo, quarto, terzo, secondo… e così via” le tre donne ridono e mimano il lavoro fatto quel giorno: sembrano allegre marionette senza fili. Il rumore sveglia il gatto che alza la testa, la riappoggia e forma una ciambella mentre Teresa inizia a parlare:
“Credo di averlo qui” toglie dalla spalliera la borsa, apre la cerniera e tira fuori un quaderno nero bordato di rosso, cerca la pagina e me la mostra. In alto a sinistra c’è scritto: rosa incatenata, sotto tante linee orizzontali con dei segni che mi ricordano uno spartito musicale, a destra delle linee una scacchiera riproduce lo schema. Mi lascia il tempo per guardarla e quando inizia a parlare la sua voce è appena percepibile “in questa fase del lavoro serve la massima concentrazione” Teresa ripone il quaderno nella borsa e richiude la cerniera.
Tutto è fermo nella stanza, nessun rumore arriva dall’esterno. Anche il mio cuore batte piano per non disturbare la sacralità dei gesti di allora.
“È per questo che vi chiamavano le sacerdotesse del telaio?” chiedo
“Se è per quello ci chiamavano anche le ricce di San Bartolomeo” dice Irma sorridendo mentre indica i capelli e aggiunge “il telaio è stato la nostra vita”
Loredana si alza dalla sedia e si avvicina all’acquaio con il vassoio vuoto mentre Il gatto con un salto scende dal divano, si stira e va verso la porta “vuoi andare fuori?” dice Loredana mentre si asciuga le mani al canovaccio.
“Ci penso io” le dico, mi alzo, giro la chiave e apro la porta per far uscire il gatto che dalla soglia guarda fuori, mi guarda, guarda fuori di nuovo ed esce con la coda alzata. Mentre chiudo la porta vedo il sole che sfiora le foglie dell’olivo per l’ultimo saluto. Mi volto per tornare al mio posto: nella stanza c’è solo Loredana appoggiata all’acquaio.
Nell’aria una nebbia sottile come un velo da sposa che profuma di chiodi di garofano e alloro.

 

Franca Giannecchini.
 
Riferimenti bibliografici
Enciclopedia delle donne: Irma e Teresa Barberi
Youtube: Le Tessandore di San Bartolomeo
Museo del lavoro e delle tradizioni popolari – Seravezza (Lucca)
 

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31/8/2022 - 19:40

AUTORE:
silvia cerretelli

Un incantevole intreccio di fili, ma anche di storie di donne, che sembra quasi un rito iniziatico.
Qualcosa che segna un passaggio da un momento ad un altro della vita, dove si impara a stare con l'odore di altre sorelle e nel silenzio dell'anima, dove ogni parola è di troppo. Un luogo dove il fuoco sacro viene tenuto acceso costantemente dal lavoro, sacro, della donna a cui l'uomo partecipa con attenzione e si lascia guidare dalla gioia che quell'energia così viva crea.
Sedere, e far scorrere le mani dentro intrecci, significa dare energia.
Qui si conserva la pazienza e l'idea di cullare il tempo seduti in famiglia. Si respira insieme, e le gabbie toraciche vanno in su e in giù, come le esperte mani di Loredana e le sue compagne di filo.
Franca, che descrive con un abile penna, in modo così minuzioso il suo racconto, è anch'essa un filo del prezioso telaio, un filo che unisce, quello che nel passato fu, a quello che il presente è. L'infinito.
Grazie Franca.

7/6/2022 - 13:16

AUTORE:
Loredana

grazie a Franca per avermi permesso di parlare di questa cosa meravigliosa che è la tessitura....commovente per certi versi .....grazie Loredana