Il 15 novembre p.v. L'Amministrazione Comunale di San Giuliano Terme apre la stagione del Teatro Rossini di Pontasserchio, con la direzione artistica di Martina Favilla - Presidente dell’Associazione Antitesi Teatro Circo. Una proposta artistica originale e di grande rilevanza, sostenuta dal Comune di San Giuliano Terme, Regione Toscana, Ministero della Cultura, che posiziona la città di San Giuliano Terme come area della cultura e della multidisciplinarietà con particolare attenzione all’inclusione sociale e alle nuove generazioni, con metodologie innovative.
Le nostre merende sul mare erano belle fette di pane posato unte col pomodoro, olio, sale e pepe. Erano più buone la sera, quando si erano ben impregnate di rosso umore e la prima avrebbe voluto essere seguita da una seconda, ma era contato anche il pane. Chi finiva prima andava in giro per le baracche, sperando che qualche mamma avesse portato due fette in più e qualche figliolo avesse problemi d'appetito, per rimediare un'extra merenda. C'era però anche chi non la portava. Quando non si vedeva nessuno in giro dopo la fine dei tuffi, allora voleva dire che quel giorno sulla spiaggia c'era Zaga senza merenda. Nell'acqua non si vedevano bagnanti ritardatari, tutti i ragazzi più giovani si rifugiavano nella baracca con i genitori meravigliati dal fatto che il bimbo era lì e non in giro a giocare; chi non aveva parenti cercava la compagnia di altri soli come lui, e tutti insieme, perché l'unione fa la forza, si rintanavano di là dal reticolato, in S. Rossore. Non bisognava capitare a tiro di quel prepotente prima che avesse trovato qualcuno al quale rubare le fette di pane, pena l'esser mandati a casa sua, da sua madre, a prendergli da mangiare. Chi si rifiutava prendeva scapaccioni e pedate per tutta l'estate.
A parte il Serchio da traversare a nuoto, perché nel pomeriggio i Giorgi erano a riguardare le fascine e i bertibelli, c'erano da fare dodici chilometri in bicicletta ed altrettanti al ritorno, perché Zaga stava alla Chiesaccia tra Migliarino e Nodica. Se eri fortunato di scampare alle grinfie di quell'energumeno, dovevi pregare che l'altro prepotente della spiaggia, Lamberto, non fosse traghettato prima di tutti per andare a buttare tutte le biciclette, posteggiate alla Cateratta, nel fosso di Biancalana dove sparivano sotto la melma del fondo. Poi, per finire in bellezza, i due gaglioffi si incamminavano prima degli altri fino al Fiumaccio, sul Viale Francesca e, all'arrivo del gruppo dei bagnanti, scattavano con le loro biciclette alle quali avevano legate due o tre fascine di frasche, sollevando nuvole di polvere che, in quell'aria immobile della pineta, restava sospesa e densa per mezz'ora.
Il traghetto di Pattana, per andare sulla spiaggia, si pagava trenta lire. Qualche volta qualcuno di noi era al verde e l'unico modo per traversare era andare a nuoto, con i panni sulla testa, o mettersi a remare per tre o quattro viaggi per ripagarne uno. Bastava che fossimo in più di uno ad essere senza soldi, che anche chi ne aveva preferiva nuotare insieme, schizzandosi i vestiti per dispetto, specialmente nel ritorno, perché non c'era tempo di asciugarli al sole e bisognava così viaggiare bagnati.
C'era un'altra occasione per traversare a nuoto il Serchio ed era di notte alla chiesa del paese per andare di là a Metato, nei terreni del Baldacci, a rubare i cocomeri. Andavamo nei campi come marines in mutande, tutti motosi, snocchinando i frutti più grossi per sentire il cupo suono dei maturi che buttavamo prontamente in acqua. Il più delle volte i cocomeri più buoni poi non lo erano più perché‚ maturi come erano, scoppiavano all'urto sull'acqua o si crepavano riempendosi di Serchio. Quando poi anche noi, finita la scorribanda, ci buttavamo nel fiume, si finiva sopra a quelli rimasti sani, finendo di rompere le refurtiva, o bisognava andare in giro a nuoto cercando quelli che la corrente aveva portato via ed era difficile perché il colore verde delle angurie si confondeva con quello dell'acqua di notte. Trovati e recuperati quelli acerbi, li spingevamo fra le braccia, tipo pallanuoto, e si finiva la serata a bucciate.
Ad alcuni giovanotti di Migliarino, di quelli più grandi, un anno venne la voglia di andare a nuoto dai ponti al mare.
Non ci fu bisogno di tanto allenamento, Bocca di Serchio era una bella palestra, e così una domenica mattina partirono con uno stuolo di barche a remi che doveva fare da supporto. Furono unti bene bene perché‚ l'acqua di Serchio è più fredda di quella di mare, mangiarono diverse cioccolate ed arrivarono sulla spiaggia di Bocca di Serchio che era l'ora di pranzo. C'era una gran folla sulla riva a vederli arrivare e fu loro tributata un'accoglienza da eroi; furono festeggiati chiamandoli per nome, a gran voce, senza coppe e medaglie, ma con botte sulle spalle e sorrisi aperti.
Il Lopez disse che un tuffetto in mare andava fatto per forza, l'Ambrogi, che aveva fatta la cronaca dell’evento, aveva una fame che schiantava ed andò dritto in una baracca barattando il suo racconto con un panino, il Lazzeri cominciò a rotolarsi sulla rena ed a grattarsi perché‚ il grasso gli faceva schifo, il Tabucchi corse di volata fra le paglie di S. Rossore perché la cioccolata gli aveva smosso dei bisogni, pisciare aveva pisciato in Serchio, ma non aveva potuto fare altro e prese poi a patte Paolo della Ustica perché non aveva portato la cuffia di gomma per fare due tuffi, altrimenti si sarebbe spettinato tutto.
Il Serchio di giorno era di tutti, migliarinesi impiegati, nodichesi contadini, vecchianesi cavatori, pontasserchiesi artigiani, metatesi commercianti, ma la notte era solo mio. Io solo avevo la libertà, fra tutti i miei amici coetanei, di andare per il Serchio a pescare, cacciare, nuotare o solamente remare. I miei sapevano di questa mia passione per l'acqua e permettevano che ci andassi in giro anche al buio. Il fiume di giorno non aveva più segreti e dovevo svelare anche quelli della notte. Lontano in S. Rossore si sentivano i latrati delle volpi, i bramiti dei daini in amore, i richiami degli uccelli notturni che facevano rabbrividire, i chioccii dei fagiani svegliati da qualche predatore a due o quattro gambe e in Serchio rumori di tuffi e di schiocchi simili a baci che facevano le grandi carpe chiudendo la bocca sul pelo dell'acqua. Avevo visto e preso ogni tipo di pesce che popolava il fiume: i piccoli e trasparenti crognoli, buoni fritti; le bronzee e panciute reine, il più pietoso dei pesci, i feroci ragni, reali predatori e auguste prede, i grassi metallici muggini, pulitori di fondo e di fango, le colorate trote, montanare villeggianti, le amiche anguille, sempre a caccia e cacciate, e famelici lucci, verdi tinche, scarbatre gregarie. Nel tratto finale del Serchio, per un chilometro dalla foce, si poteva pescare anche ogni tipo di pesce di mare perché l'acqua marina, più pesante di quella dolce, occupava il fondo del fiume per una buona altezza e lì, al riparo dei venti, delle barche, degli uccelli predatori, in un mondo sottoserchino, i rombi, le sogliole, i saraghi, gli spannocchi, le ombrine, le triglie, vivevano tranquillamente come a casa loro.
Avevo visto anche molte volte i delfini passare davanti alla spiaggia di Bocca di Serchio e mio nonno mi raccontava di aver visto quei maestosi animali anche in Serchio, fin quasi ai ponti, inseguendo forse branchi di muggini come facevano sulle lontane coste africane, ma non so quanto poteva esserci di vero.
Avevo visto tutto quello che la natura sul fiume offre come spettacolo a chi vi vive, ma dovetti ricredermi in una notte senza luna, quando era più chiaro e luminoso il cielo e le rive e l'acqua avevano lo stesso colore nero.
In certi periodi dell'anno appaiono in mare miliardi di esserini della fauna bentonica, ammassati fra loro tali da essere scambiati per un "moccio di mare" e che hanno la proprietà di emettere un luccichio quando sono eccitati. Per le continue maree che alimentavano il fiume di acqua salata, anche il Serchio risentiva della presenza di quegli esserini speciali e non c'era niente di più eccitante che una bella palata di remo se si andava in giro di notte in barca.
A chi si fosse rigirato remando, sarebbe apparsa una scia luminosa che segnava il tracciato della barca con ai lati una serie di toppe di luce in corrispondenza dei punti dove si era immersa la pala del remo. La figura formata sembrava una lucente cerniera-lampo oppure dava l'impressione di una lunga cicatrice della ferita fatta dalla barca con anche i segni dei punti di sutura.
Intorno a me apparivano e sparivano guizzi di luce dovuti questi ai pesci che fuggivano dando un gran colpo di coda e, dalla durata del segno della permanenza della luce, si poteva dedurre se erano pesci pescini o pescioni.
Quella notte mi tuffai per il solito bagno notturno, ma con lo scopo di verificare se anch'io sarei stato capace di provocare luminosità. Avevo l'abitudine di fare i tuffi ad occhi aperti e che mantenni anche in quell'occasione. Ero preparato per la novità, ma non fino a quel punto. Nell'attimo dell'impatto della testa con l'acqua si accesero tutti i riflettori di uno stadio in notturna, morbidi lampi, nebulose di spuma di luce e ricordavo le storielle di Bertoldo dando ragione al re ed al villano, avendo l'impressione di nuotare nel latte. Ad ogni bracciata erano lingue d'argento che apparivano e sparivano d'incanto. Bastava stare un momento immobili perché tutto svanisse e si ritornasse nel buio più profondo e poi magicamente evocare fluttanti forme di luce con un lieve movimento, a comando, più velocemente si muovevano le mani più durava l'effetto magico.
Tale particolarità l'acqua la teneva per una settimana e solo i pochi pescatori che andavano di notte potevano goderne, ma non so con quale spirito o attenzione. Quando raccontai a mio padre lo spettacolo visto e del quale ero stato anche attore, mi rispose che:
"È normale, d'estate l'acqua sfoa".