In questo nuovo articolo di Franco Gabbani si cambia completamento lo scenario.
Non avvenimenti storico- sociali, nè vicende di personaggi che hanno segnato il loro tempo.Il protagonista è questa volta è il fiume Serchio, l'attore sempre presente nella storia del territorio, con grandi vantaggi e tremendi disastri.
Ma non manca il tocco di Franco nell'andare ad esaminare grandi lotte politiche e piccoli episodi di vita comune legati al compagno di viaggio nella storia del nostro ambiente.
I FINANZIERI
Di fronte al retone, di là a San Rossore, c'era nel bosco la caserma della Guardia di finanza.
I finanzieri avevano in dotazione due motobarche potenti ma lentissime, che tenevano ormeggiate proprio dove noi avevamo avuto la capanna e che chiamavano 520 e 524. Avevano turni stranissimi di lavoro, a volte solo dalle 21 alle 24 e il loro lavoro consisteva di pattugliare il fiume fino alla foce da un lato e fino nell'Oncino dall'altro.
Se era estate e c'erano le ragazze sulla spiaggia, allora i due finanzieri di servizio, andavano sempre in coppia, si spingevano fino in Bocca di Serchio, stando impettiti appoggiati al paraspruzzi, guidando col ginocchio o con un piede e andando in su e in giù lungo la spiaggia con le loro magliette immacolate, i pantaloni blu larghissimi e il cappello da marinaio.
Gira e gira, consumavano tutto il gasolio che il comando calcolava bastasse per tutte le perlustrazioni contemplate dal foglio di missione. Quando poi il carburante finiva troppo presto, allora i due dritti nascondevano la barca sotto qualche albero frondoso cascante sull'acqua e, dormicchiando e leggendo, aspettavano l'ora di rientrare.
A volte venivano al retone dopo aver ormeggiato in un fosso che sboccava lì vicino, risalendolo a stanga, per chiacchierare con noi di pesca, di quello che offriva il paese, ma principalmente chiedendo notizie delle ragazze conosciute o intraviste al ballo, al cinema o sulla spiaggia.
A quel tempo non lo sapevamo, ma quel nostro lavoro di paraninfi ha procurato diversi matrimoni fra le nostre donne e quei ragazzi forestieri.
Quando invece il gasolio non era stato consumato perché era freddo o qualcosa o qualcuno avevano trattenuto per parecchio tempo i finanzieri allora questi, per pareggiare i conti e dimostrare così di aver navigato il dovuto, vendevano il dipiù a compiacenti camionisti, quasi tutto a Gabriano, guadagnando in tempo, soldi, freddo e rischi.
I giovani erano militari di leva, pochi erano di carriera, venivano da luoghi lontani ed erano desiderosi quindi di compagnia e di stringere amicizia con gli "indigeni".
Vivendo quasi sempre al mare, avevo intrecciato con alcuni di loro dei caldi rapporti, tanto da invitarli a casa a Migliarino a pranzo e per la festa del paese a mangiare la torta. Mio padre era uomo di buon cuore, aperto a ogni contatto, in più accanito pescatore e quindi bisognoso di appoggi da chi la pesca doveva tutelare, però non vedeva di buon occhio il mio accettare in casa quei ragazzi perché:
"Sai com'è, abbiamo una ragazza in casa, sa Dio cosa dice la gente, È meglio evitare" e così preferivo essere io ad andare da loro al mare. Andavo in giro in pattuglia giorno e notte, usavo il loro cappello, la pistola, timonavo la motobarca, felice di fare cose semiproibite e di avere come amici "gente che contava".
Per fare la spesa ora impegnavamo intere mattinate perché‚ per risalire la corrente da Bocca di Serchio ai ponti con quella lumaca della 520, impiegavamo più di due ore. Arrivati al paese, si ormeggiava la barca sotto la stazione e, mentre io andavo dal Bargagna a comprare cibarie varie, uno di loro rimaneva a bordo nel caso fosse passato qualche superiore che non doveva trovare in nessun caso un mezzo dello stato senza custodia.
Anche quella volta che si ruppe una diga in Garfagnana eravamo sotto i ponti e fortunatamente pronti a partire. L'ondata di piena era un cavallone enorme, scuro di fango e pieno di detriti, che correva a sfogarsi al mare travolgendo ogni cosa che incontrava sulle rive e già arrivando a Migliarino aveva raccolto un vario campionario di barattoli, bidoni, tavole, canne e ogni tipo di detrito galleggiante. Partimmo di volata ingaggiando un'assurda corsa con quell'accozzaglia di rifiuti, fidando nella potenza del motore. Corsa che regolarmente perdemmo perché la massa della barca frenava la velocità che non dava l'elica girando a vuoto in quel vortichio di acqua, fango e paglia, mentre i bidoni potevano sfruttare la loro leggerezza per stare sul pelo dove la violenza della corrente era maggiore.
Accanto a noi sfilavano tavoloni da costruzione, fiaschi, interi pagliai di fieno messo ad asciugare in golena e che ora andavano a perdersi chissà dove. Passò una barca che non riuscimmo a prendere a rimorchio, un gatto sopra una damigiana, sette o otto biacchi avviticchiati a sterpaglie, un cane mezzo affogato sopra un gabbione da conigli vuoto, una vasca da bagno che manovrava meglio da sola che se avesse avuto a bordo Fogar, mazzi di canne belle pulite e cimate a cui quell'anno non si sarebbero avvinghiati pomodori o fagiolini, palloni da gioco di ogni tipo o dimensione e noi a darci di gomito, indicando questo o quello a babordo o a tribordo, urlando e riproponendoci anche di fare una capatina a Mucchioni dove il mare appoggiava sempre tutto quello che riceveva dall'Arno e dal Serchio.
Purtroppo tutti coloro che erano sugli argini del fiume e che controllavano il livello dell'acqua la pensarono come noi e certamente primi non saremmo arrivati, neanche quella volta.