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Una vicenda tutta personale viene descritta in questo nuovo articolo di Franco Gabbani, una storia che ci offre un preciso quadro sulla leva per l'esercito di Napoleone, in grado di "vincere al solo apparire", ma che descrive anche le situazioni sociali del tempo e le scorciatoie per evitare ai rampolli di famiglie facoltose il grandissimo rischio di partire per la guerra, una delle tante. 

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per pubblicare scrivere a spaziodonnarubr@gmail.com
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Mauro Pallini-Scuola Etica Leonardo: la cultura della sostenibilità
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Molina di Quosa, 8 luglio
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Casciana Terme Lari-Pontedera, 12 luglio-3 agosto
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Alzarmi prestissimo al mattino
è un'adorabile scoperta senile
esco subito in giardino
e abbevero i fiori
Mi godo la piacevole
sensazione
del frescolino .....
Nel paese di Pontasserchio la circolazione è definita "centro abitato", quindi ci sono i 50km/ h max

Da dopo la Conad ci sono ancora i 50km/ h fino .....
In un giorno di Pioggia.

21/7/2022 - 15:04

 
Le previsioni del tempo avevano detto: sereno o poco nuvoloso.
Sarebbe stato più azzeccato dire: aprile ogni giorno un barile. Avevo dimenticato l’ombrello e avevo lasciato l’auto distante, tirai su il cappuccio per riparare almeno la testa. Con il piede destro entrai in una pozzanghera, l’avvallamento nell’asfalto si era riempito d’acqua che la poca luce aveva nascosto. Sentii l’acqua che filtrava fino a raggiungere il piede. Arrivai all’auto, tirai fuori dalla tasca le chiavi, mi scivolarono di mano e si tuffarono nella pozzanghera dove avevo i piedi, sentii l’acqua filtrare fino a quello sinistro.
“Bene, ora i miei piedi sono pari” pensai
Mi piegai per prendere le chiavi e lo zainetto scivolò verso destra, trovai a stento l’equilibrio. Infilai la mano nella nell’acqua tanto da bagnare un pezzo della manica. Trovai le chiavi e centrai la serratura dell’auto. Mi abbandonai sul sedile della mia 500 L Cabrio gialla, senza cambio sincronizzato.
Erano le 16.30 ma era quasi buio. Un tuono mi fece riaprire gli occhi. Era il 1986.
“Maremma diavola, ci mancava il temporale” dissi ad alta voce
Dovevo arrivare a casa prima possibile. Di solito quando le previsioni del tempo avvisavano di possibili temporali e sapevo di non potere rientrare a casa avvisavo mia mamma, ma il sereno o poco nuvoloso della mattina mi aveva fregato.
Un fulmine e subito dopo un tuono. Dovevo fare presto.  
Entrai nell’aia, i fari illuminarono il cancello. Vidi una sagoma, aveva riconosciuto il rumore dell’auto e come al solito era lì, pronto per i saluti. Un altro fulmine e quasi subito un tuono. Un rumore secco, come avesse colpito un albero centenario e l’avesse fatto cadere al suolo.
Aprii il cancello e senza applicare le regole comportamentali che cercavo di insegnare ai miei cani, lasciai che Azad mi saltasse addosso. Era spaventato, si staccò da me e si mise a correre avanti a indietro lungo la recinzione.
“Dov’è Krizaj?” dissi ad alta voce.
Entrai in cantina, forse si era nascosto. Aveva paura di tutti i rumori ma i petardi e il temporale lo facevano impazzire.
Krizaj era diventato epilettico all’età di due anni. Dopo avere fatto tutti gli accertamenti il medico disse che probabilmente la causa poteva essere la brutta gastroenterite che lo aveva colpito a otto mesi. In una settimana aveva perso la metà del suo peso.
In quell’occasione mi disse “Proviamo con una nuova terapia ma non ti garantisco niente” Ogni tre ore dovevo fargli un’iniezione abbinata alla soluzione glucosata. Dopo due giorni tornai al controllo, il Veterinario storse la bocca. “Per liberare velocemente l’intestino dovresti fargli un clistere”
Ne feci uno al giorno per non so quanti giorni. Piano, piano si riprese.
In tre anni avevo cambiato vari medicinali per la cura dell’epilessia e alla fine avevamo trovato quello giusto: il Mysoline.
Gli attacchi erano diminuiti ma i rumori forti per lui erano causa di disagio. Da Camaiore sentiva i fuochi d’artificio dell’ultimo giorno di Carnevale a Viareggio. Per l’occasione lo facevo stare dentro casa. Facevo la stessa eccezione per il capodanno.
Presi la torcia elettrica per illuminare la piccola stanza in fondo alla cantina, la lampadina si era fulminata qualche giorno prima. Continuai a chiamarlo, suo fratello continuava ad andare avanti e indietro. Spostai delle tavole e cassette della frutta che avevo messo da parte per accendere il fuoco.
Non c’era. Sempre con la torcia elettrica in mano controllai la recinzione per vedere se da qualche parte c’era un buco.
Non lo trovai.
Era riuscito a saltare la recinzione. Rimasi lì con la torcia in mano, l’acqua si confuse con le lacrime.
Azad si era seduto davanti a me, guaiva e con un gesto ripetitivo mi dava la zampa. Lo accarezzai sulla testa, appoggiò le sue zampe fangose contro il mio petto e mi leccò il viso. Gli presi le zampe e le riappoggiai a terra. Lo dovevo trovare e dovevo fare presto, senza il suo medicinale le crisi epilettiche si sarebbero ripetute.
Entrai in casa, il cane mi seguì. Alzai la cornetta del telefono e chiamai tutti gli amici, per ultimo chiamai Corrado: il mio ex marito. Lui disse che avrebbe avvisato tutti i suoi conoscenti.
 
Il Regalo
Eravamo insieme quando vedemmo i cani per la prima volta.
Gennaio 1981. Il nostro amico Osvaldo ci aveva parlato di una cucciolata di Pastori Bergamaschi. Marta la sua amica aveva un allevamento ad Albissola. Da piccola uno dei miei cartoni animati preferiti era Sam Canepastore il cane che timbrava il cartellino. Con Ralph il Lupo faceva parte della serie Looney e Merrie Melodies della Warner Bros. Lo dissi a Osvaldo. Dopo alcuni giorni lui mi telefonò: “Sono nati. Marta ha detto che dopo la metà di marzo puoi venire a prendere il cucciolo, te lo regalo io”
 Fu il secondo regalo più bello della mia vita. Il primo era stato un cucciolo di meticcio che assomigliava vagamente a un Collie, era una femmina. Avevo nove anni e l’avevo chiamata Rin tin tin.
Era il venti di marzo quando a bordo di una UAZ – 469B con Corrado: il mio ragazzo, imboccammo l’autostrada per Genova. Ci fermammo a prendere Osvaldo e insieme andammo da Marta ad Albissola.                                                                                                                                                                                                              Pioveva anche quel giorno.
 
Li aveva sistemati in un garage riscaldato, alle belle giornate li lasciava andare fuori con la mamma in quello che più di un giardino sembrava un parco. Sotto l’acqua vidi piante di Corbezzoli e Querce, più distanti dei Pini molto alti, vedevo a fatica la chioma offuscata dalla sottile nebbia. Bella di Casa Bottarlini: così si chiamava la mamma degli otto cuccioli. Bella ci venne incontro insieme a uno dei cuccioli, ci girò intorno e ci annusò, scodinzolò a Osvaldo. Ritornò dai cuccioli che dormivano sulla coperta a quadri grandi gialli e b che ricopriva una parte del pavimento. Il cucciolo la seguì poi si girò e tornò indietro scodinzolando, era l’unico nero.
 
“È lui quello che ho scelto per voi. È uno dei pochi Pastori bergamaschi neri presenti in Italia”.
 
Marta ci spiegò il motivo per cui un tempo i cani da pastore con il mantello nero non erano apprezzati dai pastori: troppo visibili sulla neve e per questo facili prede. Ma nell’ambito delle esposizioni erano ricercati.
 
 Mi chinai sul cucciolo nero che si rovesciò per farmi vedere la pancia. Aveva una piccola macchia bianca sotto la gola. Iniziai a grattargli la pancia poi lo presi in braccio. Profumava di latte.
 
Richiamato da quel movimento, un altro cucciolo abbandonò la coperta a quadri per venire verso di noi. Bella lo seguì. Era striato, bianco e grigio. Marta anticipò la mia curiosità.
 
“Lui per il momento lo terrò io, per alcuni quello è considerato un difetto”.
 
Il cucciolo striato si era seduto davanti a me. Io, quella macchia azzurra nell’iride nocciola la trovavo bellissima: come uno squarcio di sole in un cielo nuvoloso. Lui rimase seduto con la bocca aperta e la lingua rosa fuori come ad aspettare un mio segnale per avvicinarsi. Bella da dietro controllava la scena.
 
Osvaldo, che si era allontanato ci raggiunse, aveva sentito l’ultima parte della conversazione. Chiese spiegazioni a Marta sul difetto e l’eventuale sorte del cane, alla fine disse:
 
“Lo potrei prendere io”.
 
Osvaldo aveva fatto il compromesso per l’acquisto di un cascinale vicino a casa mia. Aveva deciso di trasferirsi lì dopo la stipula del contratto in modo da controllare i lavori di ristrutturazione.
 
“Ci vorranno tre, quattro mesi al massimo. In questo periodo potresti tenerlo te” disse guardandomi.
 
Pensai a mio padre e alle bestemmie che avrebbe tirato vedendomi tornare a casa con due cani. Tanto lui un motivo per bestemmiare lo trovava sempre. In qualche modo avrei convinto mia mamma. Ci riuscivo sempre.
 
Osvaldo ci tenne a precisare che si sarebbe accollato le spese necessarie al suo mantenimento. Io dissi sì e tornammo a casa a bordo della nostra UAZ – 469B, con due Sam Canepastore.
                                                                                                                                                                                             Piovve per tutto il viaggio.
 
 A Casa
 
Corrado mi aiutò a sistemare i cuccioli e andò a casa.
La mattina dopo quando mio padre li vide, bestemmiò.
 
Dopo tre mesi la notizia: il contratto del cascinale era saltato, Osvaldo non poteva portare Azad nell’attico di 150 mq che divideva con il padre a Genova.
 
Staccò un assegno e l’appoggiò sul tavolino. Tirò fuori dal bagagliaio della sua Volvo 240 D6 Station Wagon quattro scatole, all’interno c’erano dei barattoli di mangime per cani, da un sacco bianco di tela spuntavano dei pezzi di Stoccafisso. Alimento importante per la salute dei cani. Questo gli aveva detto Marta.
 
Tenni il mangime e il sacco con i pesci essiccati. Ormai Azad faceva parte della mia famiglia.
In quei giorni mio padre era in ospedale, al suo ritorno lo misi al corrente della situazione.
Bestemmiò meno. In un tiepido giorno di ottobre dello stesso anno mio padre lasciò la terra.
                                                                                                                                                                           Quel giorno cadeva una pioggia fitta.
 
 

La Pioggia
 
Aprile 1986. Ora la pioggia non accennava a diminuire, la vedevo cadere illuminata dai lampioni da dietro i vetri della finestra di cucina, sembravano fili d’argento. Le gocce cadevano e disegnavano cerchi nella vasca delle ninfee. Solo in quel momento mi resi conto che ero bagnata, le gocce dalle maniche cadevano sul pavimento di mattoni e si univano. Mi spogliai in cucina. Anche gli slip e il reggiseno erano bagnati.
 
“Torno subito” dissi ad Azad.
 
Aprii e richiusi la porta di cucina alle mie spalle. Slip, reggiseno, pile, pantaloni della tuta con cui andavo a correre e calzini asciutti. Dall’armadio presi un giubbetto in Gore – Tex con il cappuccio e gli scarponi che usavo per le passeggiate in montagna. Sentii le unghie di Azad contro la porta di cucina. Aprii di nuovo la porta. Sotto di lui si era formata una pozzanghera.
 
“Vieni, andiamo. Non può essere lontano” lasciai la luce della cucina accesa.
 
Scese le scale prima di me e si fermò davanti alla porta della cantina, l’aprii e sfilai dal chiodo uno dei due guinzagli fatti con una fettuccia blu e grigia che usavamo per le sicure in montagna. Chiusi il collare intorno al collo di Azad e uscii dal cancello che lasciai aperto nel caso Krizaj fosse tornato.
Girai a destra, provai a chiamarlo. La mia voce si confondeva con il rumore della pioggia. Azad manteneva la fettuccia in tensione come se sapesse la strada da percorrere, lo lasciai fare. Girò a sinistra lungo la strada che portava al centro. Si fermò di colpo, per poco non lo colpii con il piede sinistro. Vidi quello che aveva visto lui, mi avvicinai piano, la fettuccia tornò in tensione. Nella fossetta c’era un sacco nero per l’immondizia vuoto. La stessa sensazione di vuoto la sentii nello stomaco.
 
Continuai a girare intorno a casa mia, ad ogni giro allargavo il raggio del percorso e continuavo a chiamarlo.                                                             Alla fine decisi di tornare a casa sotto la pioggia che cadeva piano.      
 
Anche quando io e Corrado ci sposammo: il 22 novembre del 1983, scendeva una pioggia sottile.
 
Continuava a piovere anche quel giorno d’aprile del 1986. Rientrai in casa con il cane e mi cambiai di nuovo. Gli slip e il reggiseno erano asciutti. Raccolsi tutto e lo infilai in lavatrice.
Guardai l’orologio appeso al muro, le braccia di Paolino Paperino segnavano le 22. Feci di nuovo un giro di telefonate, tutte con la stessa risposta: “Mi dispiace, non l’ho visto”.
Mi chiamò mia mamma preoccupata per non avermi trovata prima. Azad mi guardava con l’occhio nocciola macchiato di azzurro, l’altro era coperto da un ciuffo di peli grigi.
Dal frigorifero tirai fuori il contenitore con la cena dei cani, ne rovesciai un po’ nella ciotola e la misi sul pavimento. In quel momento mi ricordai che non avevo preso il pane. Scaldai un po’ di latte e ci tuffai un paio di fette biscottate.
Appoggiai i gomiti sul tavolo e mi massaggiai le tempie, abbassai le braccia e appoggiai la testa. Sentivo il rumore della ciotola con il cibo di Azad che piano piano si allontanava.
 
Avevo sete, mi alzai, presi un bicchiere dalla piattaia e aprii il rubinetto. Al posto dell’acqua usciva una fettuccia blu e grigia, la presi con le dita e iniziai a tirare fino a riempire l’acquaio di marmo, più tiravo più ne usciva. Cercai di chiudere la manopola dorata del rubinetto, girava ma la fettuccia continuava a uscire e dall’acquaio scivolava sul pavimento. Sentivo il rumore dell’acqua ma non usciva dal rubinetto.
 
Mi svegliò la zampa di Azad sulla coscia sinistra. Con la testa muoveva il guinzaglio e il collare che avevo lasciato sulla sedia.
 
Alzai la testa: l’acqua disegnava rivoli verticali lungo i vetri. Il braccio destro era intorpidito come il collo.
 
Il canto del gallo mi avvisò dell’arrivo del nuovo giorno.
 
Ottobre del 1985. Anche quel giorno l’acqua disegnava rivoli verticali lungo i vetri del salotto
“Ho bisogno di una pausa, vado a vivere da mio padre”. Questo mi aveva detto Corrado. Dopo quindici giorni tornò a prendere il resto delle sue cose. Krizaj e Azad lo videro allontanarsi da dietro il cancello a bordo della nostra Opel Kadett 1000 dorata.
Il 31 dicembre dello stesso anno anche mio fratello Lorenzo e sua moglie Manuela si separarono.
 
 Presente
 
 Azad appoggiò di nuovo la zampa sulla mia coscia sinistra e mi leccò la mano, gli accarezzai la testa.
 
“Dai, vediamo se è tornato” mi avvicinai alla finestra.
 
   l'acqua dal cielo cadeva fine, come il filo da pesca.
 
 
Scesi le scale per prima, chiusi il cancello e con la torcia elettrica in mano feci il giro della cantina. Non c’era. Tornai in casa mi sciacquai il viso e dopo avere messo il collare intorno al collo di Azad feci un giro nelle strade intorno a casa mentre la pioggia si trasformava in una nebbia sottile.
 
Ritornai verso casa quando i raggi del sole filtravano tra i rami del Cedro del Libano nel giardino dei vicini, lasciai il cancello aperto e iniziai a salire le scale.
A metà scala sentii il telefono che squillava e affrettai il passo. Feci girare la chiave nella toppa della porta entrai in casa e alzai la cornetta.
 
“Si! … si, al Ponte alla Gora? una signora ha detto che una ragazza… va bene vengo subito”.
 
Presi le chiavi dell’auto, Azad mi seguii giù per le scale.
 
“Aspettami qui, torno presto”
 
Mi guardò con l’occhio nocciola macchiato di azzurro, l’altro era coperto come al solito da un ciuffo di peli grigi. Chiusi il cancello e salii in auto.
Mia mamma era fuori dalla porta di casa, mi fermai per farla salire.
 
“Ma come ha fatto Krizaj ad arrivare al Ponte alla Gora? saranno almeno tre chilometri da casa e la via Provinciale è molto trafficata” non le lasciai il tempo di rispondere “ma come fai ad essere così sicura che è lui?” 
‘’La signora che ha chiamato mi ha detto che una ragazza ha riconosciuto il cane, le ha dato lei il mio numero di telefono” mia mamma fece una pausa “credo di sapere chi è la ragazza”.
 
Mi disse il suo nome e subito dopo il dosso la vidi. Aveva ragione mia mamma.
                                                                                                                                                                          Il sole brillava sul tetto della sua auto.
 
Rallentai, misi la freccia a destra e parcheggiai.
 
“Hai visto, l’ho ritrovato”
“Grazie” le dissi piano e mi chinai su Krizaj.
  
Sembrava un mucchio di stracci neri inzuppati d’acqua. Non riuscivo a capire dove aveva la testa, poi la trovai. Nonostante fosse tutto bagnato il suo naso era asciutto e incrostato di fango, lo toccai, era caldo come la testa.
 
“Ciao” disse la ragazza a mia mamma
“Ciao”.
“Meno male che lei lo ha riconosciuto” disse la signora con cui aveva parlato mia mamma al telefono “dalla finestra mi sembrava un sacco dell’immondizia che qualcuno aveva lasciato davanti al mio cancello, avevo appena aperto la porta quando lei si è fermata”.
“Ho cercato in tutti i modi di farlo salire in auto, non ci sono riuscita altrimenti l’avrei portato io” disse la ragazza guardandomi “sta troppo male, non mi ha riconosciuta”.
 
‘’Ti ha riconosciuta benissimo, grandissima stronza’’ le avrei voluto dire.
 
“Hai fatto anche troppo” le dissi senza guardarla, Krizaj iniziò ad annusare l’aria e mi leccò la mano.
 La ragazza guardò l’orologio.
“Vi devo lasciare, altrimenti faccio tardi al lavoro. Ti chiamo stasera per sapere come sta” disse la ragazza rivolgendosi a mia mamma.
“Va bene”.
“Forza mascalzone, torniamo a casa” dissi a Krizaj senza guardare la ragazza che saliva sull’auto che il sole faceva brillare.
Cercai di farlo alzare, era sporco delle sue feci. Durante gli attacchi epilettici perdeva il controllo della vescica e dell’intestino. Con dei giornali che avevo nell’auto cercai di pulirlo ma non riusciva ad alzarsi.
“Dai riproviamo, uno, due, tre, forza! Azad ti aspetta”.
Cercai di spingerlo in direzione dell’auto, mia mamma aveva aperto la portiera e aveva alzato il sedile davanti per farlo salire, Krizaj si lasciò cadere sul pianale dell’auto. Gli alzai il ciuffo di peli che copriva gli occhi: aveva le pupille dilatate. Dovevo dargli subito il suo medicinale. Salimmo in auto.
“Come hai fatto a capire che era lei?”
“Non so di preciso ma è la prima cosa che mi è venuta in mente. Gemma…” così si chiamava la signora che aveva telefonato “mi ha detto che era una ragazza mora”.
“Solo per questo?”
“No!”
‘’E allora…’’
Un’auto davanti a me rallentò e senza mettere la freccia accostò a destra.
“Per lei era più facile ricordare il mio numero di telefono che il tuo”.
“Giusto!” dissi
Da più di un anno mia mamma si era ritirata in un monolocale attiguo al suo appartamento per ospitare in forma provvisoria mio fratello e Manuela. Usavano la stessa linea telefonica.
Era Manuela la ragazza mora che aveva ritrovato Krizaj e che si era allontanata a bordo della sua Opel Kadett dorata.
Da una decina di giorni avevo saputo che era lei la donna con cui il mio ex marito Corrado aveva una relazione da quasi un anno.
 
Franca

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